La regolamentazione del sistema finanziario e i rapporti tra le banche dopo il ciclone partito dalla crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti
Uno dei problemi che è sinora emerso chiaramente dalla crisi cosiddetta del subprime appare certamente quello che la regolamentazione del sistema finanziario è per molti versi, a livello nazionale come a quello internazionale, piuttosto blanda e che, per di più, la volontà di applicare le regole comunque definite si è rivelata in generale poco convinta, in presenza di un’ideologia forte, che ha pervaso anche le autorità di sorveglianza, del lasciar fare al mercato, che sarebbe stato capace di autoregolarsi.
Il brusco risveglio indotto dalla crisi sta spingendo ora almeno la parte più sensibile degli esperti finanziari e delle autorità di controllo a ripensare il quadro delle regole e della sua applicazione in senso più restrittivo, mentre l’amministrazione americana, con il cosiddetto piano Paulson, cerca di approfittarne invece per annunciare un ulteriore ridimensionamento del sistema di governo pubblico dei fatti finanziari, attribuendo le cause della crisi, tra l’altro, alla troppo elevata regolamentazione dei mercati. In realtà ci sembra a questo punto essenziale ripensare tutto il sistema a livello nazionale e globale, dalla supervisione delle istituzioni finanziarie, alla stabilità del regime monetario internazionale, al ruolo delle singole banche centrali e alle relazioni tra di loro, sino al rafforzamento delle reti sociali di sicurezza del sistema (Garten, 2008).
Uno dei punti su cui è centrato il dibattito riguarda, in ogni caso, il sistema cosiddetto di Basilea 2, che tende a dettare delle regole internazionali per la definizione del capitale proprio delle banche.
Come è noto, il primo accordo di Basilea, entrato in vigore nel 1988, presentava un meccanismo di funzionamento molto semplice: per ogni 100 lire di credito concesso ai propri clienti, le banche dovevano appostare in bilancio 8 lire di capitale proprio.
Il varo di tale regola aveva complessivamente fatto registrare risultati moderatamente positivi. Sembrava che la solidità finanziaria e patrimoniale delle banche fosse migliorata. Era peraltro comunque aumentato il livello complessivo di rischio di credito dei portafogli bancari.
Per ovviare a tale ultimo inconveniente, nonché ad alcuni “buchi” presenti nell’accordo e che permettevano eventualmente alle banche di eludere le clausole del sistema, si è pensato di arrivare ad un nuovo approccio, chiamato per semplicità Basilea 2.
L’impostazione di base del nuovo schema è molto semplice: le necessità di capitale delle banche verrà graduata in funzione dei livelli specifici di rischio. Si creeranno così delle classi differenziate di valutazione della clientela, a cui corrisponderanno diverse probabilità di insolvenza. In altre parole, si dovrebbe mettere in piedi un sistema di rating non più centrato prevalentemente sui requisiti patrimoniali, ma che lasci largo spazio alla qualità della gestione e delle strategie.
Per commentare lo stato delle cose ad oggi, ci sia permesso di iniziare con una citazione tratta da un breve articolo del quotidiano britannico “The Guardian” del 24 gennaio 2007, scritto quindi molto prima dello scoppio della crisi. Il testo che vogliamo ricordare riportava le valutazioni entusiastiche da parte degli analisti di alcune grandi case finanziarie sulla situazione della banca Norhern Rock –allora considerata tra le istituzioni con i più brillanti risultati del paese e che sarà poi nazionalizzata nel 2008 in seguito alla sua situazione di grave crisi. Un analista londinese in particolare, facendo riferimento ai criteri di Basilea 2, affermava che, alla luce di tali nuove regole, la banca, grazie ai suoi ridotti livelli di rischio, avrebbe potuto tranquillamente diminuire ed in maniera importante il livello dei suoi mezzi propri.
In effetti, i sistemi di valutazione e gestione del rischio della Northern Rock, così come quelli di diverse altre banche statunitensi ed europee oggi in difficoltà, erano sostanzialmente gli stessi di quelli raccomandati da Basilea 2. Questi modelli sottostimavano anche gravemente, quindi, l’esposizione al rischio (Benink, Kaufman, 2008).
Un problema che è emerso a questo proposito è quello che Basilea 2 crea per alcuni versi degli incentivi perversi a minimizzare il rischio di credito. Dato, tra l’altro, in effetti, che le banche possono utilizzare i loro stessi modelli per stimare il rischio, esse sono tentate di fare delle valutazioni ottimistiche sullo stesso, in modo da configurare ad un livello più basso del dovuto le necessità di capitale.
Per altro verso, alcuni studi portati avanti dallo stesso comitato di Basilea mostrano che, anche considerando un comportamento “onesto” da parte dei responsabili delle banche, con le nuove regole le necessità di mezzi propri si riducono in maniera importante per molte istituzioni finanziarie (Benink, Kaufman, 2008). D’altro canto, come è anche emerso con la crisi, le banche hanno teso a sottostimare le necessità di capitale facendo transitare molte delle operazioni più rischiose su delle entità off-balance sheet, con riferimento, tra l’altro, agli ormai famigerati “SIV” (“Structured Investment Vehicles”), strutture per le quali è richiesto dalle regole di Basilea un ridotto impegno di mezzi propri.
Un altro dei problemi che sono venuti alla luce con la crisi riguarda il tema del rischio anche da un altro punto di vista.
Come è noto, il livello del capitale proprio previsto dal sistema è legato proprio alla valutazione del livello di rischio delle attività, per determinare il quale Basilea 2 fa molto affidamento, per alcuni aspetti, al sistema di credit rating delle principali agenzie specializzate in materia, da Fitch a Standards & Poor’s, a Moody’s. In specifico, le nuove regole offrono alle banche due metodi principali per valutare l’adeguatezza dei mezzi propri. Le banche più importanti possono di fatto utilizzare dei sistemi di gestione del rischio interni; le banche di più ridotte dimensioni dovrebbero per necessità utilizzare un sistema che calcola il rischio basandosi appunto sui sistemi di credit rating.
Ci troviamo, per alcuni versi, di fronte all’alternativa tra Scilla e Cariddi. Abbiamo già detto dei sistemi di valutazione interni. Per quanto riguarda invece quello del credit rating, già lo scandalo Enron- Worldcom aveva mostrato che le agenzie di valutazione spesso non fanno un buon lavoro, ma l’ultima crisi ha ormai sostanzialmente affossato la loro credibilità.
Questo in relazione soprattutto a due problemi: da una parte, tali agenzie, che vengono pagate da chi chiede una valutazione, hanno un forte incentivo strutturale ad essere ottimiste –tra l’altro, esse svolgono anche attività di consulenza alle varie istituzioni finanziarie su come ottenere i rating migliori e su come progettare dei sofisticati strumenti di debito-; dall’altra, in un periodo di euforia generalizzata dei mercati finanziari, c’è tutto l’interesse da parte dei vari attori a mantenere e ad alimentare tale stato di cose, perché questo porta ad un aumento rilevante del volume d’affari e conseguentemente dei profitti.
Ne esce fuori un quadro veramente desolante delle capacità di informazione e di autogoverno presente nelle istituzioni finanziarie del capitalismo contemporaneo.
In collegamento a questi temi, va segnalato che un altro punto debole del sistema, emerso con la crisi finanziaria, è quello relativo al fatto che il sistema di Basilea 2 concentra la sua attenzione sul problema della solvibilità, mentre le difficoltà recenti hanno mostrato ampiamente che in realtà molte banche possono presentare, oltre ad un problema di solvibilità, anche una questione rilevantissima di liquidità- in effetti, istituti che registravano dei buoni rapporti di solvibilità sono entrati in grandi difficoltà finanziarie. Ora, le regole di Basilea 2 non si occupano affatto di tale questione e la crisi del subprime ha mostrato ampiamente la inadeguatezza di un approccio centrato sugli indici di solvibilità come indicatori della adeguatezza finanziaria delle banche. In effetti, nella estate del 2007, il volume dei crediti in situazione di default appariva ridotto in relazione ai mezzi propri delle banche ( The Economist, 2007).
A conclusione di queste note, si può sottolineare, da una parte, come alcuni necessari mutamenti delle regole derivino quasi automaticamente da quanto si è appena ricordato, dall’altra e contemporaneamente, auspicare che, nell’ambito di una revisione complessiva del sistema, vengano elevati in generale i requisiti di capitalizzazione delle istituzioni finanziarie; essi dovrebbero essere, inoltre, più fortemente differenziati in relazione al livello dei rischi: un conto è un istituto che svolge le attività tradizionali del business bancario, un conto chi ha un comportamento fortemente speculativo, quasi come un hedge fund.
Testi citati nell’articolo
Benink H., Kaufman G., Turmoil reveals the inadequacy of Basel II, The Financial Times, 27 febbraio 2008
Garten J., Think globally on financial regulation, The Financial Times, 4 aprile 2008
The Economist, On credit watch, 18 ottobre 2007
The Guardian, Northern Rock: what the analysts say, 24 gennaio 2007