Democrazia ristretta/Nella gestione della crisi ucraina per l’ennesima volta l’Unione europea si dimostra un nano politico, subalterno agli Stati Uniti e alla Nato
Dopo la caduta del muro di Berlino, lo scrittore jugoslavo Predrag Matvejevic coniò il neologismo «democratura» per definire i nuovi regimi nati dalle ceneri del comunismo nell’Europa dell’Est. Non si riferiva solo ai microstati sorti dalla dissoluzione della ex Jugoslavia, ma anche agli altri paesi che gravitano nell’orbita della ex Unione Sovietica e, naturalmente, alla Russia e alle repubbliche che dell’Urss avevano fatto parte per più di 70 anni.
Questa «democratura» – un mix di democrazia (apparente) e dittatura (reale), di libertà (generica) e di autoritarismo (vero), di diritto (formale) e oppressione (sostanziale) – oltre a ben attagliarsi alla Russia di Putin si può applicare agli anni di governo del satrapo ucraino Yanukovich che invece di ricostruire – dopo la rivoluzione arancione del 2004 e la sua vittoria alle presidenziali (comunque certificata regolare dell’Osce) del 2010 – un clima di concordia e di unità in un paese diviso in diverse nazionalità e minoranze, ha accentuato il carattere autoritario, presidenziale ed intollerante del suo regime.
Il ritardo e poi l’insabbiamento del processo di associazione dell’Ucraina con l’Unione europea – pretesto delle rivolte popolari degli ultimi mesi – è sicuramente dovuto alle colpevoli resistenze e ambiguità di Yanukovich, ma non bisogna dimenticare le incertezze e le ipocrisie dell’Unione europea, che ha offerto nei mesi scorsi aiuti per 160 milioni di euro per cinque anni, mentre Putin ha contro-offerto all’Ucraina 15 miliardi di aiuti facendogli pagare le forniture di gas un terzo del loro valore reale di mercato. Difficile anche per Yanukovich prendere la strada europea in queste condizioni Però, un paio di giorni fa l’Unione europea – dopo la defenestrazione del presidente ucraino – ha messo a punto un piano di aiuti di 11 miliardi di euro in due anni al nuovo governo di Yatsenyuk. Improvvisamente a Bruxelles i soldi si sono trovati. È chiaro che la partita di Kiev ha una natura geopolitica più ampia, dove giocano pesantemente un ruolo le incertezze politiche di Bruxelles e l’aggressività di Washington nel dare copertura a dei sommovimenti politici che aprono le strade alla Nato in un’area strategica per la Federazione Russa.
Ai proclami democratici di Bruxelles e di Washington bisogna affiancare dunque il corposo intrico di interessi materiali e geopolitici con i quali leggere in filigrana quello che sta succedendo a Kiev ed in Crimea. La retorica della democrazia e dei diritti umani non può offuscare lo scontro di poteri e di interessi che spesso, purtroppo, manipolano la società civile e l’opinione pubblica. Il dato di fatto è che per l’ennesima volta l’Unione europea si dimostra un nano politico, completamente subalterno agli Stati Uniti e alla Nato, nonostante si tratti di un’area centrale per gli interessi e gli sviluppi della costruizione della casa comune europea.
Infine, al di là delle questioni più di natura geopolitica, il conflitto in Ucraina ripropone da una parte il tema irrisolto della transizione democratica non compiuta in quasi tutti i paesi ex comunisti e dall’altra continua a sollevare il nodo di come costruire la democrazia in paesi che sono patchwork di nazionalità e di minoranze e dove l’ispirazione nazionalista delle forze politiche che si contendono il potere non può che portare al conflitto e talvolta alla guerra. Abbiamo visto il disastro successo in ex Jugoslavia. E una volta che si dà la stura ad un male inteso principio di autodeterminazione delle nazionalità, è difficile dire che questo vale per il Kosovo, ma non per la Crimea. È questa una visione ipocrita e manichea del diritto internazionale alla quale l’Europa dovrebbe contrapporre la forza dell’integrazione e una pratica della democrazia inclusiva, mettendo alle porte quei populismi e quei nazionalismi che, purtroppo, non riguardano solo Kiev, ma anche – ormai – molte capitali europee.