Nel vuoto della politica e dei programmi di cambiamento, l’economia italiana resta schiacciata dalla crisi, le misure prese a livello europeo restano a senso unico e il potere dei tecnici toglie spazio alla democrazia
Quella nella quale ci troviamo è una fase di transizione storica dagli esiti incerti della cui rilevanza epocale non sempre c’è consapevolezza nel dibattito politico. Dei processi in corso, i due principali sono la crisi globale e la costruzione europea; Interrelato ad essi ce n’è un terzo, non meno suscettibile di pericolose conseguenze, costituito dall’affermazione di spinte tecnocratiche.
In Italia l’intreccio tra questi processi e le loro tendenze contraddittorie trovano ampi riflessi nell’operato del Governo Monti e nel dibattito sulla sua “agenda”.
Per quanto riguarda la crisi, dopo cinque anni dalla sua esplosione, le interpretazioni e le terapie prevalenti – condivise da Monti – mettono ancora al centro solo i suoi aspetti finanziari; e anziché rimuovere le contraddizioni che il modello neoliberista dominante nell’ultimo trentennio ha generato nell’economia reale, negli equilibri sociali e nei rapporti tra mercati e istituzioni, tendono ad accentuarle.
Anche nella costruzione europea si ruota attorno ad un equivoco: misure come i cosiddetti interventi salva stati e le nuove disponibilità della BCE ad acquistare titoli pubblici possono utilmente attenuare, nel breve periodo, le tensioni sui mercati finanziari; ma non intaccano il limite di fondo dell’impostazione comunitaria che finora ha puntato tutto sull’unione dei mercati e della moneta, mentre continua a sottovalutare la dimensione istituzionale dell’Unione europea e la necessità di usare anche altri strumenti della politica economica più idonei a conseguire obiettivi fondamentali quali il rilancio della quantità e della qualità socio-ambientale della crescita e il riequilibrio delle forti sperequazioni funzionali e territoriali esistenti nel continente. Le politiche di “rigore” come il fiscal compact e la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio – fatte proprie e non subite da Monti – accentuano gli effetti controproducenti di un approccio “stupido”.
La diffusione di propensioni tecnocratiche nell’opinione pubblica è alimentata da una crescente e comprensibile sfiducia nella politica. Tuttavia, la tecnocrazia, più che ovviare alle forme degenerate della politica, ne indebolisce la funzione primaria di strumento necessario della democrazia. Il serio rischio che si va profilando – accentuato in Italia dall’esperienza del governo Monti – è che la tecnocrazia si sostituisca alla democrazia il ché, peraltro, costituisce non un superamento della politica, ma una sua evoluzione che è strutturalmente più pericolosa della sua corruzione.
Molti commentatori e politici – anche all’area del centro sinistra – condividono l’agenda Monti o comunque ritengono che sia ineludibilmente imposta dall’Europa e dai mercati. I margini di manovra di cui disporrebbe il futuro governo equivarrebbero alla facoltà di scegliere se aggiungere basilico o prezzemolo alla pietanza già decisa dai mercati e dalle politiche comunitarie. E se il compito del futuro governo dovrà essere lo svolgimento dell’agenda Monti, il suo migliore interprete sarebbe il suo stesso ideatore o comunque chi riuscirà a presentarsi come il suo più fedele esecutore. Anzi, l’agenda Monti dovrebbe essere subito fatta propria da chiunque “responsabilmente” aspiri a governare nella prossima legislatura; con buona pace dell’implicazione che l’esito elettorale dovrebbe essere ininfluente rispetto ai futuri programmi di governo (tranne per la scelta tra il basilico e il prezzemolo).
Che l’agenda Monti ci sia imposta dall’Europa è una convinzione non solo di chi, a destra e al centro, la condivide anche nel merito; e non solo di chi, nel centro-sinistra, comunque considera ineludibile quell’imposizione; ne sono convinti anche quanti a sinistra, proprio per sottrarsi a questo vincolo ritengono sia opportuno prendere le distanze dal progetto europeo.
L’affermazione di questa impostazione del dibattito fa temere che il neoliberismo, pur severamente contraddetto dall’esperienza della crisi globale, si stia riposizionando con successo dalla pretesa dell’unicità del suo pensiero a quella della inevitabilità assegnata alle sue politiche.
Per evitare di auto-imbalsamarsi in questa deriva del dibattito, le forze progressiste non devono perdere di vista che la costruzione europea favorirebbe un più equilibrato rapporto tra i mercati e le istituzioni che è necessario per concepire e praticare le politiche di rilancio quantitativo e qualitativo della crescita e per poter meglio difenderne i risultati dalle forze speculative dei mercati.
D’altra parte, non può essere ignorato che l’interruzione del processo unitario avrebbe anche effetti politici traumatici: oltre ad indebolire ogni singolo paese europeo, stimolerebbe la pericolosissima logica dei nazionalismi. Evitare questo rischio è proprio l’obiettivo principale che i fondatori del progetto europeo gli assegnarono dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Se si vuole che sia credibile, il pacifismo non può ridursi a slogan di circostanza e ad una simpatica bandiera colorata, ma implica politiche ad esso coerenti.
Quanto alla inevitabilità dell’agenda Monti che sarebbe imposta dall’UE, va da sé che ogni unione implica dei vincoli di convivenza i quali, però, prima devono essere definiti democraticamente e poi da tutti accettati. Ora, se è vero che nell’Unione attualmente c’è una vistosa carenza di rappresentanza democratica diretta, ciò indica che occorre battersi per superarla, non che si debba trarne spunto per reazioni disilluse e controproducenti.
In ogni caso, già ora – e in misura accentuata proprio dall’attuale carenza di rappresentanza diretta nell’UE – non è vero che il futuro governo italiano potrà solo scegliere se aggiungere qualche condimento marginale alla pietanza imposta a Bruxelles e a Francoforte, che da noi assumerebbe la veste dell’agenda Monti.
In primo luogo, perché il nostro governo – che rappresenta uno dei paesi maggiori dell’Unione – dovrà contribuire a definire le politiche comunitarie e potrà farlo in una direzione o nell’altra a seconda della sua composizione e della maggioranza nel parlamento italiano che lo sorreggerà. Ad esempio, proprio in questi giorni, la scelta se introdurre o meno nell’UE la Tobin tax è in bilico tra schieramenti contrapposti; la posizione italiana influenzerà l’esito finale.
In secondo luogo, esistono margini rilevanti per le politiche nazionali e per come applicare le indicazioni comunitarie. Ad esempio, a parità dei condizionamenti comunitari al saldo del nostro bilancio pubblico, l’entità e la composizione delle entrate e delle uscite decise in ciascun paese hanno effetti molto rilevanti sia sulla quantità e sulla qualità della propria crescita, sia sulla distribuzione del reddito e gli equilibri sociali interni.
Il punto è che la sinistra italiana a tutt’oggi fa fatica ad esprimere un programma coerente ai suoi valori e adeguato alle necessità di governare la transizione storica che stiamo attraversando; e con questo si ritorna ai limiti della politica inizialmente richiamati.