Senza ricostruire le basi di una solida crescita la ripresa, sia in Italia che in Europa, resterà soltanto una pia illusione. Si dovrebbe ripartire dal rilancio della domanda interna
La crisi iniziata dal 2008 è di dimensioni senza precedenti ed ha mostrato tutta l’inadeguatezza della teoria economica neoliberista e delle sue proposte di politica economica, messe a nudo nel loro contenuto innanzitutto ideologico e incapaci di contrastare una crisi strutturale dei meccanismi di produzione e distribuzione dei paesi occidentali.
Sbaglierebbe chi si facesse illudere dalla ripresa in corso. Vero, il punto di minimo dell’attuale fase ciclica è stato toccato a maggio – giugno di quest’anno e gli ordini e le esportazioni sono in ripresa. Ma anche nei paesi europei messi meglio, come la Germania, le prospettive sono modeste. In Italia, poi, stiamo parlando di dati che, nella migliore delle ipotesi, porterebbero ad una caduta del Pil nel 2013 di appena l’1,6% e a una crescita nel 2014 dell’1%. Troppo poco per un paese che dal 2008 ha perso il 10% del valore prodotto, con un tasso di disoccupazione complessivo del 12% (il 37% fra i giovani), con sempre più individui che hanno perso fin la speranza di trovare un qualsivoglia lavoro. Peraltro, l’Italia, come le altre nazioni ormai considerate “periferiche” dell’Europa, rischia di sprofondare di nuovo in recessione profonda se la ripresa nei paesi “centrali” porterà a rendere meno accomodante la politica della Banca centrale Europea.
Mentre in altre aree del mondo si provano nuovi strumenti e si cercano nuovi equilibri nei modelli di regolazione del sistema, in Italia e in Europa le cause di fondo della recessione rimangono al loro posto e, al di là degli interventi monetari di emergenza, tutti interni alla logica dei mercati finanziari, sono ancora dominanti integralismi tecnocratici e ideologie neoliberiste. Tutt’ora si pensa che le cause del perdurare delle difficoltà siano l’eccessivo costo del lavoro e l’eccessivo intervento pubblico, che i disoccupati siano almeno in parte responsabili del loro stato, che l’aiuto a chi rimane indietro sia un lusso che non possiamo più permetterci. La cattiveria del fiscal compact ha solo rafforzato i principi e le stupide regole deflazionistiche del trattato di Maastricht.
Così non si costruiscono le basi per tornare a crescere. Abbiamo lavoro, competenze tecniche e capacità produttiva inutilizzate. Abbiamo addirittura un saldo positivo della bilancia dei pagamenti. Abbiamo tanti bisogni insoddisfatti. Ma, nell’attuale contesto di regolazione del sistema, tali bisogni non possono tradursi in effettiva domanda. Quello che manca è la domanda interna. Se non c’è domanda interna è illusorio pensare che le esportazioni possano risolvere i problemi dell’Italia e dell’Europa, o di riuscire a fare quel salto tecnologico che richiede investimenti, infrastrutturali e produttivi, giustificati solo da adeguati livelli di utilizzo.
La crisi peraltro non è stata pagata da tutti alla stessa maniera. Mentre la speculazione sta velocemente tornando agli antichi splendori, la distribuzione del reddito e della ricchezza si è ulteriormente polarizzata. Salvati banche e banchieri a spese della collettività, i tagli al welfare, il blocco dei salari, la disoccupazione toccano le categorie più deboli. I ricchi mantengono o migliorano le proprie posizioni, la classe media sprofonda, chi ha bisogno si ritrova abbandonato a se stesso. Con buona pace della società meritocratica pure invocata da liberali e socialdemocratici, si azzera la mobilità sociale, i figli dei ricchi sono sempre ricchi, i figli dei poveri non hanno che da accettare il loro destino. Non è solo un problema di iniquità: il fatto stesso che siano i ceti più deboli, con più alta propensione al consumo, a pagare il prezzo più alto riduce ulteriormente la domanda interna, contribuendo all’avvitarsi della crisi su se stessa, mentre l’incapacità a sostenere e valorizzare i talenti e le nuove iniziative ci priva di importanti opportunità di innovazione e sviluppo.
Che fare?
Servirebbe allora, non come politica di parte ma, innanzitutto, come strumento di uscita dalla crisi, una ripresa delle rivendicazioni salariali, per quanto possibile coordinata a livello europeo, che porti alla crescita dei redditi da lavoro. Se non si può certamente prescindere dalle difficoltà nelle quali versano i datori di lavoro, vero è anche che la competizione al ribasso sui salari e un modello di sviluppo focalizzato unicamente sul contenimento del costo del lavoro hanno fatto sì che ai lavoratori siano stati imposti negli ultimi decenni sacrifici eccezionali, cui non ha corrisposto da parte delle altre categorie sociali un analogo impegno in termini di investimenti, consumi e partecipazione fiscale, coi risultati che stiamo dolorosamente sperimentando.
È poi indispensabile che anche la politica di bilancio torni a sostenere la domanda. Da questo punto di vista, inutile girarci attorno, un contesto come quello imposto dal fiscal compact, pur con i modesti gradi di libertà concessi all’Italia dall’uscita dalla procedura europea di deficit eccessivo, dà, ancor più di prima, un carattere strutturalmente restrittivo alle politiche di bilancio europee. Senza una sostanziale messa in discussione di quanto ivi previsto, non ritengo vi siano altre prospettive se non l’incancrenirsi della crisi.
Ma sarebbe un errore gravissimo pensare che l’aumento della spesa pubblica e, eventualmente, del deficit siano, di per sé, sufficienti. La qualità delle politiche economiche e del bilancio pubblico è fattore dal quale non si può più prescindere. Ad una politica fiscale espansiva dovrebbero, come minimo, accompagnarsi una politica volta a contrastare la rendita, una politica industriale volta a ricreare una solida struttura produttiva, una politica sociale che favorisca, anziché ostacolare, la piena partecipazione di tutti gli individui nella società. Senza un forte impulso di indirizzo e di qualità rischiamo semplicemente di bruciare malamente ulteriori risorse umane e finanziarie, come già tante volte fatto nel nostro paese, per ritrovarci con niente in mano. L’esperienza degli ultimi anni in tal senso non è positiva.
Ad esempio, si sono moltiplicate – peraltro non solo in Italia – e non sono state adeguatamente contrastate le pressioni di lobbies e singoli volte ad alimentare rendite e profitti attraverso trattamenti di favore, leggi ad hoc e quant’altro, senza riguardo all’interesse generale. Si pensi alla forza dimostrata dal gioco d’azzardo, dai monopoli naturali o dagli oligopolisti nei settori dell’energia e dei trasporti, dalle banche, ma anche, per fare un esempio recentissimo, dai gestori degli stabilimenti balneari, o ai numerosi provvedimenti ad personam approvati spesso nottetempo, per non parlare della bruttissima esperienza delle privatizzazioni.
Per altro verso, si sono spesso perseguiti interventi di contenimento della spesa settoriale senza riguardo agli effetti complessivi sul bilancio e sul sistema economico. Un esempio fra tutti: l’eccessivo aumento dell’età di pensionamento, che ha sì fatto raggiungere all’Italia la più alta età di pensionamento legale fra tutti i paesi dell’Unione, ma fa sì che lavoratori anziani, spesso demotivati e, in Italia molto più che negli altri paesi, in possesso di titoli di studio molto bassi, siano costretti al lavoro a spese di lavoratori giovani e qualificati, che rimangono disoccupati. Con effetti sulla produttività del paese che è facile intuire.
Altre volte la cattiva programmazione della spesa è palese. Il fatto stesso che l’elemento centrale a giustificazione della Tav Torino Lione sia che altrimenti perdiamo i finanziamenti europei, non i volumi di merci ragionevolmente previsti, ben suggerirebbe di operare per spendere le risorse là dove effettivamente servono. Serve ricordare che, laddove si splendono miliardi di risorse pubbliche per abbreviare di minuti il tragitto fra le grandi città, il trasporto locale e regionale continua a peggiorare, mentre le stesse ferrovie operano dichiaratamente per allungare il tragitto pedonale di uscita dalle stazioni, così da trattenere il più possibile i “clienti” nei nuovi centri commerciali ivi costruiti, come avvenuto, ad esempio, a Milano?
Entrando più nel merito delle priorità di politica economica, la politica fiscale dovrebbe trasferire imposizione dal lavoro e dal consumo alle rendite e alla proprietà. Piuttosto che l’abolizione dell’Imu si sarebbe dovuto ridurre l’Irpef. Il carico fiscale andrebbe spostato dagli inquilini ai proprietari, non viceversa. Per le esigenze di bilancio bisognerebbe utilizzare la tassa sulle transazioni finanziarie e la patrimoniale, non gli aumenti dell’Iva. Il principio costituzionale di progressività del nostro sistema fiscale dovrebbe costituire il punto di riferimento e non essere disatteso.
Le politiche sociali e della spesa pubblica da un lato, dei redditi e della concorrenza dall’altro, dovrebbero contrastare le rendite, consentire, attraverso la garanzia di livelli adeguati dei servizi, il contenimento stesso dei costi per le imprese, promuovere la piena partecipazione e lo sviluppo. Deve essere favorito, non ostacolato l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. L’assistenza ai diversamente abili, l’integrazione dei migranti, il contrasto e non la promozione delle ludopatie, l’aumento dell’offerta di asili nido, l’aumento delle borse di studio e l’investimento nella scuola sono tutte priorità che – lungi dal costituire un mero costo – costruiscono sviluppo e crescita per il paese. Analogo può dirsi per le politiche di messa in sicurezza e di recupero del territorio; i danni provocati dal cattivo utilizzo del territorio sono ingentissimi, come si riscopre ad ogni emergenza, mentre la cattiva gestione delle risorse storiche e culturali riduce grandemente le potenzialità turistiche. Complessivamente, l’assenza di una politica industriale pubblica è palesemente un elemento centrale delle difficoltà in cui versa il nostro paese.
Per un’Europa dei popoli
In Europa, malgrado qualche timido progresso, il ruolo del Parlamento è tuttora marginale, il governo europeo è espressione dei governi nazionali, mentre domina ancora quella tecnocrazia ideologizzata che ha portato fino al collasso molti paesi europei ed è incapace di pensare altrimenti che in termini di riduzione del ruolo dell’operatore pubblico e delle tutele, salvo essere fortemente permeabile all’influenza di lobbies e gruppi organizzati. Ma un’Europa così non potrà che delegittimarsi sempre più agli occhi dei cittadini europei; l’unica scommessa che possa salvare il progetto europeo è la costruzione di un’Europa dei popoli e non più solo dei governi. L’Italia, come gli altri governi nazionali, è poi arrivata a imitare quel modello: i parlamenti nazionali sono svuotati del loro ruolo, le politiche di bilancio nazionali vengono trattate da governi e Commissione europea, poi sostanzialmente imposte ai parlamenti nazionali. Sulle norme di bilancio proposte dall’esecutivo viene di fatto impedita una vera discussione in sede parlamentare, come avviene ormai sistematicamente attraverso i maxiemendamenti e i conseguenti voti di fiducia. In effetti, anche laddove l’esecutivo si trova a dover concedere qualcosa in sede parlamentare, magari in seguito alle pressioni dal basso, non vi è garanzia che quanto ottenuto non sia poi disatteso. Questa è anche la ragione per la quale, laddove tradizionalmente Sbilanciamoci è molto attenta alla sostenibilità e alla copertura finanziaria delle proprie proposte, in questo intervento tale problema è in secondo piano. Il fatto è che, paradossalmente, l’esperienza degli ultimi anni mostra che è meno difficile trovare le coperture che garantire che gli impegni presi dall’esecutivo non vengano poi disattesi. Si pensi alle risorse derivanti dall’aumento dell’età di pensionamento delle donne, che avrebbero dovuto essere utilizzate a favore dell’assistenza ai disabili e della conciliazione fra lavoro e famiglia e, invece, sono state utilizzate a tutt’altri fini. Oppure, alle risorse derivanti dal trasferimento parziale del Tfr dalle imprese all’Inps a partire dal 2007 – per primo proposto da Sbilanciamoci – utilizzate, invece che come risorse aggiuntive per rilanciare lo sviluppo, per gli investimenti di Anas e Fs, poi addirittura per finanziare la spesa corrente. O, infine, alla prima legge di stabilità del governo di centro sinistra nel 2006, che avrebbe dovuto dare alle imprese e alle famiglie ma, come successivamente riconosciuto dagli stessi esponenti governativi dell’epoca, dette solo alle prime.
In conclusione per uscire dalla crisi è indispensabile il rilancio della domanda interna, che richiede il superamento della competizione al ribasso sul costo del lavoro, un rilancio dei salari e politiche fiscali espansive, anche col superamento del fiscal compact. Ma sono richieste anche politiche di qualità, perché il peggio che potremmo fare è trovare nuove risorse per poi dissiparle. La politica fiscale deve spostare il peso dal lavoro alla proprietà e alla rendita, l’operatore pubblico deve portare avanti con decisione politiche sociali e politiche industriali che ridiano sicurezza e cittadinanza alle famiglie e prospettive durature di crescita ai settori produttivi. Ma tutto ciò non potrà avere successo se non verrà accompagnato da una decisa azione politica volta alla costruzione di una vera Europa dei popoli e alla ridefinizione di strumenti efficaci a garantire l’effettivo esercizio della democrazia rappresentativa.
L’articolo riprende l’intervento preparato per la prima sessione dell’XI Forum di Sbilanciamoci, L’impresa di un’economia diversa, Roma 6-8 settembre 2013, dal titolo: Quale modello redistributivo in Italia e in Europa?. Le considerazioni esposte sono prettamente personali.