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Crisi aziendali e occupazione ai tempi del virus

Innovazione è la parola chiave anche per i progetti del Green New Deal ma perché non resti solo una parola servono politiche attive del lavoro. La ricerca condotta per conto di Filcams e Fiom Emilia-Romagna evidenzia che i lavoratori più sindacalizzati sono più disposti a mettersi in gioco per riqualificarsi.

Il virus SARS-Ccv-2 e il lockdown volto ad arginarne la sua diffusione hanno innescato una crisi occupazionale potenzialmente drammatica, il cui primo indizio già tra febbraio e aprile è da segnalare nella discesa del numero degli occupati (-226.000) e nella crescita di quello degli inattivi (+686.000) (Istat, 3 giugno 2020; https://www.istat.it/it/archivio/243674). Nello stesso periodo sono peggiorate anche le prospettive di molti dei lavoratori che, pur avendo mantenuto lo status di occupati, beneficiano di misure passive (assegni di ricollocazione o cassa integrazione guadagni) in quanto alle dipendenze di imprese in crisi. Se a queste misure passive va riconosciuto il merito non piccolo di contribuire alla sopravvivenza economica dei lavoratori nel pieno dell’emergenza, misure attive finalizzate ad aggiornarne formazione e competenze rappresentano, a nostro avviso, strumenti utili anche ai fini del rilancio dell’economia una volta terminata l’emergenza sanitaria.

Da più parti si evoca sia la necessità di un ricorso massiccio alle politiche industriali attive, sia l’adozione di politiche passive del lavoro basate sull’utilizzo di strumenti consolidati (CIG, ecc.) o “innovativi” (reddito di emergenza, ecc.). Mentre le seconde sono necessarie nella fase emergenziale, le prime appaiono di dubbia efficacia nella promozione del cambiamento strutturale. Al perseguimento di questo scopo riteniamo siano infatti più appropriate le politiche attive del lavoro, che potrebbero rivelarsi idonee anche per la realizzazione del Green New Deal. Il loro impiego richiede tuttavia una verifica preventiva della percezione che ne hanno i lavoratori.

Tra il 25 febbraio e il 20 maggio abbiamo pertanto condotto, con la collaborazione di alcune federazioni di categoria della CGIL (in particolare FILCAMS e FIOM), un’indagine preliminare presso lavoratori occupati alle dipendenze di imprese emiliano-romagnole, al fine di verificarne la disponibilità a partecipare a programmi di formazione focalizzati su acquisizione di nuove competenze, smart working (lavoro agile) e attività imprenditoriale..

I 208 lavoratori intervistati sono occupati per il 67% in un’azienda privata. Nel 32% dei casi l’azienda è in crisi e il 13% degli intervistati beneficia di CIG. Per quanto riguarda l’istruzione, il 13% si è fermato alla scuola dell’obbligo, il 37% ha un diploma di scuola secondaria di secondo grado di tipo tecnico, il 13% di tipo liceale, mentre il 37% è laureato. 

Guardando alle caratteristiche individuali dei lavoratori intervistati, emerge una relazione diretta tra il livello di istruzione e la percezione di appartenere a una comunità da un lato, e la disponibilità a partecipare a una delle tre tipologie di formazione, dall’altro. I lavoratori con un livello di istruzione più basso sono meno propensi a partecipare a programmi di training per l’acquisizione di skills che potrebbero utilizzare per occuparsi presso un’altra azienda. Quelli con diploma di scuola dell’obbligo sono meno disponibili di quelli laureati a partecipare a tali programmi, verosimilmente perché convinti che la formazione offerta non riuscirebbe comunque a compensare il loro gap di istruzione, rendendo poco realistica la prospettiva di passare a mansioni diverse da quelle abituali, ad esempio con la modalità smart working. Analogamente, l’autoselezione nell’attività imprenditoriale risulta più chiara nei lavoratori che hanno frequentato un liceo che non in quelli con diploma di tipo tecnico. 

Il risultato forse più interessante è quello relativo al fatto che essere iscritti al sindacato rende i lavoratori maggiormente disponibili a partecipare a misure attive. Tanto che il gradimento di questi strumenti non si modifica neppure quando viene chiesto ai lavoratori se parteciperebbero a programmi che potrebbero portarli a un lavoro con salario più basso o mansioni inferiori. L’iscrizione alle varie federazioni di categoria della CGIL funge, dunque, da meccanismo di incentivazione per andare oltre alla fissità del lavoro e sembra spingere i lavoratori a introiettare l’idea che il sindacato sarà pronto ad assisterli, indipendentemente dal risultato del training. 

La nostra analisi evidenzia infine la presenza di un peer effect a livello aziendale. I lavoratori che dichiarano di avere colleghi che percepiscono (o potrebbero presto percepire) un sussidio di disoccupazione o un assegno di ricollocazione hanno una maggiore disponibilità a partecipare a programmi di formazione per l’acquisizione di competenze simili a quelle attuali (ma per un impiego presso altra azienda), più avanzate o telematiche. Apparentemente, la condizione dei colleghi funge da “avvertimento” e spinge il lavoratore a rimettersi in gioco per evitare di ritrovarsi in una condizione analoga. Lo stesso impatto positivo, lo si osserva per la disponibilità a seguire un corso per la formazione all’imprenditorialità, che sembra essere tanto maggiore quanto più i potenziali imprenditori si sentono parte di una determinata comunità lavorativa.

Questi risultati potrebbero ovviamente riflettere caratteristiche specifiche del contesto occupazionale in Emilia-Romagna, ma offrono uno spunto di riflessione interessante sul ruolo imprescindibile del sindacato, qualora le politiche attive del lavoro diventassero il principale intervento di policy per promuovere il cambiamento strutturale del sistema produttivo nazionale.