A cinque anni dallo scoppio della bolla sub-prime, ormai da più parti si riconosce che la riforma della finanza è necessaria. Eppure non si fa. Anche se quest’inerzia mette a rischio tutto il sistema economico. Il capitalismo è diventato cieco?
“…noi abbiamo assistito, prima, ad una crisi indotta dalle disuguaglianze e, da ultimo, alle diseguaglianze indotte dalla crisi…” Andrew Haldane
Siamo comunque oggi ormai alla fine del 2012, all’incirca sei anni dopo ma, almeno sul fronte della riforma del sistema finanziario, nonostante l’impegno di esperti, di politici, di almeno una parte importante dell’opinione pubblica, non sembra essere cambiato moltissimo. I problemi sono sostanzialmente gli stessi di sei anni fa.
Per la verità si sono registrate nel frattempo delle iniziative sul tema sia da parte dei governi occidentali che di qualche organizzazione internazionale. Così negli Stati Uniti abbiamo avuto l’approvazione della legge Dodd-Frank, in Gran Bretagna ha visto la luce il Vickers Report, che sta portando ad una qualche riforma del settore, a livello di Unione Europea si è registrata, tra l’altro, la creazione di alcune nuove organizzazioni di supervisione, mentre non va dimenticata l’elaborazione dei nuovi documenti di Basilea3. Inoltre, si stanno preparando, sia negli Stati Uniti che in Europa, degli altri provvedimenti, in particolare, tra l’altro, relativi ad una nuova regolamentazione dei derivati. Per quanto riguarda l’eurozona, poi, si discute di una possibile unione bancaria. Le pur deboli riforme avviate sono per la gran parte in rilevante ritardo sulle scadenze.
Ma la situazione appare a tutt’oggi più in generale molto poco soddisfacente, come hanno ad esempio di recente mostrato con molta evidenza alcuni recenti scandali. Una conferma dei problemi viene ora anche da una fonte insospettabile. Qualche settimana fa Andrew Haldane, uno dei massimi dirigenti della Bank of England, ha espresso tutta la sua simpatia per il movimento “Occupy Wall Street” e per la convinzione, portata in piazza, che il sistema finanziario non funzionava come avrebbe dovuto e che esso andava profondamente riformato. Egli ha inoltre dichiarato che alla radice della crisi finanziaria stanno i problemi di una concentrazione dei redditi e della ricchezza profonda e crescente nel tempo, proprio come sostenuto anche da “Occupy Wall Street”.
In teoria, al di là del caso del dirigente britannico, c’è un consenso abbastanza ampio nel mondo sul fatto che dovrebbe essere portata avanti una radicale riforma del sistema, con gli obiettivi di base di ridurre il potere e le stesse dimensioni del settore finanziario e di riportarlo comunque alla funzione fondamentale di servizio all’economia reale, come del resto accadeva, ad esempio, tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni ottanta del secolo scorso, quando quello finanziario era un settore “normale” ed altrettanto normale, come importanza sociale e come livello di remunerazione, era la professione di dirigente finanziario.
Su quali fronti intervenire
Per raggiungere tali obiettivi bisogna intervenire, a nostro parere, con decisioni forti su moltissimi fronti (si veda meglio in appendice), mentre il dibattito sembra invece concentrarsi oggi su pochi temi, quali, in particolare, quelli pur fondamentali, dell’aumento dei livelli di mezzi propri delle banche e quello della separazione tra le attività bancarie tradizionali di sostegno al mondo produttivo e quelle di speculazione in proprio.
Perché la riforma del sistema stenta ad andare avanti
Ci si può chiedere a questo punto perché, pur godendo l’ipotesi di una riforma del sistema finanziario di un ampio consenso, essa non vada avanti adeguatamente.
Si possono avanzare a questo proposito delle ragioni sia in qualche modo “oggettive” che soggettive.
Tra le prime ricordiamo in particolare le seguenti:
a) il settore finanziario è diventato, soprattutto in certi paesi, molto importante direttamente per lo stesso sviluppo economico e per i livelli di occupazione. L’area londinese e quella di New York, in particolare, che poi contribuiscono fortemente a trascinare l’economia dei due paesi, dipendono in misura molto forte dal buon andamento del comparto. In un certo senso, sono caduti la distinzione e i confini tra economia finanziaria e economia reale, ormai uniti in un viluppo quasi inestricabile. Per altro verso, in molti casi anche i redditi delle imprese industriali dipendono molto dai giochi di borsa. In questo momento, ad esempio, scopriamo che l’ILVA di Taranto, in difficoltà per il non rispetto delle norme ambientali, puntava molte delle sue carte sulla speculazione sul mercato dei minerali di ferro, ciò che contribuiva per altre vie allo stesso inquinamento del territorio. Su di un altro piano non è tanto ormai il prezzo del grano che condiziona fortemente l’andamento del mercato dei derivati, è il mercato dei derivati che condiziona il prezzo del grano e lo stesso andamento della produzione. Così si comprende, anche se non si giustifica, la riluttanza della politica a mettere in discussione un settore che produce, almeno apparentemente, “ricchezza” ed occupazione;
b) sono da tempo in atto rilevanti discussioni tra gli esperti su quali siano le più giuste misure da prendere su diversi fronti della malattia finanziaria. Tipica a questo proposito la disputa in atto da tempo su quale debba essere il giusto livello di capitalizzazione delle banche; c’è chi ritiene che le percentuali fissate in prima approssimazione da Basilea3 siano troppo elevate, chi pensa invece che esse siano quelle giuste, chi infine valuta che esse debbano essere sostanzialmente alzate, come pensa lo scrivente. Molti sostengono in particolare che, data l’attuale congiuntura, bisognerebbe essere molto indulgenti, mentre altri pensano che bisogna comunque tirare dritto. Così l’incertezza “scientifica”, forse almeno in parte interessata, aiuta i nemici delle riforme;
c) indubbiamente, la messa in opera di un’adeguata trasformazione del settore appare molto difficoltosa e complessa, dato che essa deve dispiegarsi contemporaneamente su moltissimi fronti e per altro verso che bisognerebbe mettere intorno allo stesso tavolo tutti i principali paesi del mondo e riuscire a trovare un terreno comune tra di loro, in presenza, tra l’altro, di grandi divergenze di interessi.
Tra le seconde possiamo sottolineare invece altri quattro punti:
d) intanto, come è ampiamente noto, c’è la grande forza delle lobbies, particolarmente rilevanti e ben organizzate in questo settore; esse sono capaci di intervenire in maniera efficace e capillare a livello di forze politiche, di parlamenti e governi, di mass media. Una tattica molto seguita è quella delle pressioni graduali: si comincia con il cercare di devitalizzare solo parzialmente i progetti di legge prima che essi vengano presentati, con lo svolgere poi un ulteriore intervento volto alla “riduzione del danno” in sede di approvazione parlamentare ed infine premendo per una interpretazione il più blanda possibile a livello di organismi incaricati del controllo dell’applicazione degli interventi. Così il gioco alla fine è fatto. Per altro verso molti politici si fanno facilmente corrompere a livello personale, mentre altri hanno bisogno dei soldi delle banche per tenere su i loro partiti e per finanziare le elezioni;
e) non si può non rimarcare poi la pervasività dell’ideologia neoliberista a livello di operatori economici e di forze politiche, di destra come di sinistra, in particolare sui temi finanziari. Basterebbe ricordare gli orrori del programma economico e finanziario del partito repubblicano negli Stati Uniti o anche, sia pure in misura più ridotta, la progressiva deriva in senso neoliberista della gran parte dei dirigenti di una struttura politica come quello che è oggi il PD italiano;
f) per quanto riguarda almeno alcune delle misure previste ci troviamo di fronte ad interessi ostili potenti. Ad esempio, quando si parla di un maggior controllo dei paradisi fiscali, bisogna considerare che non si tratta di lottare soltanto con il Liechtstein o le Antille Olandesi, ma che oggi i due principali rifugi del denaro sporco sono la City di Londra, anche con l’appendice delle isole del Canale, e gli Stati Uniti, con lo stato del Delaware;
g) ricordiamo infine, in collegamento con i punti d) ed e), anche la già accennata debolezza e spesso la rassegnazione operativa delle strutture di sorveglianza e di controllo pubblico del settore.
Conclusioni
Abbiamo individuato alcune delle molte ragioni che spiegano come la riforma del sistema finanziario, pur auspicata da rilevanti forze anche interne all’establishment economico, finanziario, politico, non riesca ad andare avanti in maniera convincente. Questa considerazione ci fa riflettere sul fatto che un sistema come quello capitalistico occidentale che in passato, quando si è trovato di fronte a delle difficoltà, è sempre riuscito a superarle e a riprendere i suoi processi di sviluppo grazie alla sua grande capacità di trasformazione, sia in senso progressivo, come nel caso del varo del New Deal dopo la grande crisi, sia in senso negativo, come nel caso della rivoluzione conservatrice di Reagan e della Thatcher, seguita ai problemi degli anni settanta, questa volta mostra delle evidenti difficoltà a fare altrettanto, a rischio forse della sua stessa sopravvivenza di lungo termine.
Quali sono le principali riforme al sistema finanziario che bisognerebbe portare avanti
Ricordiamo che le riforme che andrebbero apportate al sistema finanziario possono essere ricondotte a tre grandi categorie, i sistemi di supervisione e controllo, la riforma del sistema bancario, infine una serie di temi diversi.
Sul primo fronte, la regolamentazione non dovrebbe essere limitata, come è sostanzialmente oggi, al sistema bancario in senso stretto, ma estesa a tutti gli altri protagonisti del settore, quelli tra l’altro che costituiscono il cosiddetto sistema finanziario ombra; il sistema di supervisione oggi concentrato sulle singole banche dovrebbe estendersi al controllo del rischio sistemico; dovrebbero in ogni caso essere rafforzati finanziariamente e organizzativamente gli organismi di supervisione e controllo; tra questi, dovrebbe essere istituito un adeguato organismo di protezione dei consumatori.
Sul secondo fronte, invece, bisognerebbe rivedere alla radice il sistema di remunerazione dei manager del settore, cambiare il sistema di cartolarizzazione dei crediti, che oggi spinge all’irresponsabilità, rivedere in senso più incisivo le regole di Basilea3 in particolare sul capitale, ridurre comunque le dimensioni delle banche più grandi, porre delle barriere tra i vari settori dell’intermediazione finanziaria, mentre è da auspicare comunque un ridimensionamento di alcune strutture particolari, quali gli hedge fund e i fondi di private equity. Bisogna infine sottolineare che gli interventi di salvataggio da parte dello stato nei confronti delle banche devono tradursi nell’acquisizione di adeguate quote nel capitale sociale delle stesse, mentre, in caso di crisi degli istituti di credito, devono essere messi a contribuzione, tra l’altro, anche i possessori di obbligazioni, con qualche meccanismo di salvaguardia per i piccoli risparmiatori.
Per quanto riguarda il terzo tema, va sostanzialmente ripensata l’attività delle agenzie di rating, vanno rivisti i criteri di valutazione in bilancio dei titoli e di contratti finanziari, vanno messi sotto controllo i contratti derivati, bisogna chiudere i paradisi fiscali, introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie (Tobin tax), magari potenziata nei confronti delle transazioni con i paesi che non la adottano. Inoltre bisognerebbe sottoporre ad una autorizzazione preventiva l’introduzione di nuovi prodotti finanziari sul mercato.
Infine, bisogna ricordare che il sistema degli interventi non sarebbe completo ed efficace sino in fondo se non prendesse in considerazione il quadro internazionale. Intanto tutti i precedenti temi, perché siano veramente incisivi, hanno bisogno di un coordinamento anche a livello globale; sono poi necessari degli organismi, a livello europeo e mondiale, per governare le grandi banche internazionali. Bisogna arrivare ad un ripensamento del sistema dei rapporti commerciali, di investimento, finanziari tra i paesi in surplus e quelli in deficit, con particolare attenzione ai paesi poveri. Si tratta anche di rivedere il sistema monetario internazionale centrato oggi sulla ormai insostenibile egemonia del dollaro, ridimensionare il principio del libero movimento dei capitali, riformare profondamente le principali istituzioni finanziarie internazionali.