Un evento imprevedibile di cui l’uomo non è responsabile, che impone soluzioni emergenziali a costo di infrangere le libertà democratiche, e che si trasforma in un’ennesima occasione di profitto capitalistico. Questa la vulgata dominante sulla pandemia, da contrastare in nome di un nuovo paradigma.
Un nuovo strano spettro si aggira per il mondo: è il cigno nero del coronavirus. Secondo questa curiosa interpretazione, che riprende la fortunata formula adoperata dall’epistemologo ed ex trader Nassim N. Taleb per intendere ogni evento non prevedibile a impatto catastrofico (Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita, Il Saggiatore, 2008), il Covid-19 sarebbe un accadimento altrettanto casuale e improvviso, al pari di un qualsiasi cataclisma naturale che si abbatta sulla terra. Eppure, se proviamo ad azionare a ritroso la macchina del tempo e neppure di molto, scopriamo negli ultimi vent’anni uno stillicidio di Sars, Mers, Ebola.
Al Forum di Davos, nel 2018, l’Oms lanciava l’ennesimo allarme, dichiarando che era in arrivo una nuova pandemia, che gli Stati erano impreparati e che, soprattutto, «non c’era modo di fermarla». A nulla poi sono serviti i pareri di illustri epidemiologi che hanno bollato come «prevedibilissima» l’attuale pandemia, per arrestare l’uso alquanto disinvolto dell’espressione mutuata da Taleb. Quello stesso giorno a Davos, nel tempio della finanza mondiale dove ancora risuonavano le parole della rappresentante dell’Oms, Sylvie Briand, i convenuti non persero l’occasione per imbastire una narrazione celebrativa intorno alle magnifiche sorti e progressive del neoliberismo.
Ebbene in queste settimane con forza crescente si sta riproponendo, con lo spauracchio del cigno nero esibito, una forma analoga di racconto oggettivo e asettico, che cela un intento neutralizzante. L’emergenza pandemica rigorosamente esteriore al sistema, secondo lo sperimentato canovaccio discorsivo già adottato per la crisi climatica, non è un evento da comprendere alla radice nei suoi risvolti umani, troppo umani, che richiederebbe uno scavo ulteriore, ma sempre e solo da sfidare secondo i collaudati canoni del pensiero competitivo.
Questo tipo di racconto che ruota intorno alla metafora del cigno nero risulta particolarmente insidioso sotto tre aspetti, in quanto: 1) naturalizza il coronavirus, riducendolo a un mero evento naturale avulso da ogni contesto umano; 2) contribuisce a normalizzarne la gestione, mettendo in questo modo a profitto l’emergenza; 3) fornisce una giustificazione allo stato di eccezione come forma ordinaria di governo.
In primo luogo, separare il coronavirus dal quadro sociale e storico di riferimento, presentandolo come un cigno nero che d’improvviso si è materializzato come un meteorite proveniente dalle profondità dello spazio, equivale a depurarlo di ogni elemento politico, a spoliticizzarlo, oscurandone così le responsabilità in capo al paradigma economico dominante e riconvertirne i termini, come si diceva, in una sfida che deve riguardare e coinvolgere tutti nella stessa misura.
Ma la conseguenza più subdola può essere quella della normalizzazione. In questo caso, l’appartenenza esclusiva del coronavirus all’ordine degli eventi di natura, al pari di uno tsunami, lo rende socialmente più accettabile e ne facilita l’assimilazione nell’immaginario sociale, aggiungendo un ulteriore tassello simbolico alla società globale del rischio (U. Beck) come dispositivo di controllo ampiamente interiorizzato dai modi di pensare e di agire collettivi. La pandemia, se per la stragrande maggioranza manterrà comunque un tratto di pericolosità, che alimenterà paure e angoscia, per chi saprà approfittarne, recita il vangelo neoliberista, al pari di tutte le emergenze passate e future, sarà quel fattore potenziale in grado di riorientare, magari con l’ausilio della digitalizzazione dei processi, i meccanismi del business.
Il cigno nero risulta una sorta di alert che segnala l’entrata in quella spirale distruttiva che però prepara, per chi ne saprà beneficiare, nuove catene di valore economico. Nella sua casualità e imprevedibilità costituisce quell’occasione che il sistema ricerca per rigenerarsi, secondo la felice espressione di «distruzione creatrice» coniata da Schumpeter, sulla scorta della lezione marxiana. Anzi Marx sosteneva qualche cosa di ancora più radicale in proposito, che era una necessità interna al sistema per cui le occasioni per queste rinascite se le creava da sé, mediante guerre o crisi finanziarie pilotate.
I riflessi di questa interpretazione naturalistica, e siamo alla terza considerazione, possono investire le forme stesse di governo, che assumendo l’emergenza come bussola e la sicurezza come bene assoluto, ridefiniscono completamente i loro statuti e codici, sacrificando libertà e prerogative democratiche in nome della salvaguardia della vita biologica. Presentato come un evento imponderabile che all’improvviso e imprevedibilmente si è abbattuto sul mondo degli uomini, il coronavirus così declinato contribuisce a creare quegli stati collettivi di panico che possono propiziare torsioni autoritarie per interi sistemi politici, magari già predisposti, come sta avvenendo nell’Ungheria di Orban.
L’emergenza simboleggiata da quel cigno dal colore anomalo, anziché sparigliare, si rivela un potenziale fattore di accumulo e concentrazione di poteri. Le grandi manovre del capitalismo totale di sorveglianza in connessione coi noccioli antichi delle sovranità potrebbero trovare, dal dilatarsi e perdurare della situazione emergenziale, nuova linfa per pervasive forme di controllo come quelle sperimentate a Wuhan, con la localizzazione delle persone mediante smartphone, ma già collaudate dalla National Security Agency in tempi non emergenziali. Misure che potrebbero essere utilizzate da noi a scopo preventivo per fronteggiare una paventata recrudescenza del contagio stabilizzando in tempi di normalità il controllo di massa delle persone.
Una eventualità messa in conto da Stephen Walt, professore di relazioni internazionali ad Harward, il quale su Foreign Policy (“A world less open, prosperous and free”) scrive che dalla crisi potrebbero uscire rafforzati gli stati e i nazionalismi e che molti potrebbero essere riluttanti a rinunciare ai nuovi poteri acquisiti. Inoltre tale tendenza sarebbe rafforzata dal confronto est-ovest che mostra come i paesi asiatici non democratici siano riusciti a fronteggiare meglio la crisi. Dalle crisi, insomma, si potrebbe uscire con una restrizione delle libertà individuali, come è successo negli Stati Uniti dopo l’11 settembre.
C’è un libro di qualche anno fa, Spillover (Adelphi, 2012), che l’industria editoriale si è affrettata a etichettare in queste settimane come profetico, in cui un buon divulgatore scientifico e un grande scrittore americano, David Quammen, traendo spunto da quanto da tempo va dicendo la comunità scientifica più avvertita, si limita a svolgere una previsione in base ai dati scientifici raccolti: «La prossima grande pandemia sarà causata da un virus zoonotico, forse partito da un pipistrello, forse dopo essersi amplificato in un altro tipo animale per poi passare agli esseri umani perché saranno venuti forzatamente a contatto con essi, forse in un mercato umido cinese».
In una recente intervista, Quammen ha fatto osservare che questi virus sono l’inevitabile risposta della natura all’assalto dell’uomo agli ecosistemi e all’ambiente, concludendo provocatoriamente, a proposito del coronavirus, che la seconda sciagura da temere, oltre alla sua letale diffusione, «è che riusciamo agevolmente a controllarlo» e che quindi si potrà annunciare al mondo di aver vinto la sfida e risolto il problema. La sua diagnosi limpida – stiamo invadendo ecosistemi con sempre maggiore accelerazione, esponendoci ai nuovi virus come ospiti alternativi – riporta al nodo politico sottaciuto di una civiltà improntata a un capitalismo sfrenato che ha fatto dell’uso indiscriminato delle risorse il suo mantra: «il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus».
La questione che viene ora posta da più voci è se si vuole continuare con un paradigma basato sulla competizione e sull’accumulazione di ricchezza anziché sulla collaborazione e sulla condivisione. In tema di global warming previsioni condivise parlano di soglia di catastrofe entro il 2100. Ma, in assenza di correttivi, già prima della metà del secolo, secondo gli scenari più pessimistici, vivremo in un continuo stato di emergenza, non solo climatica ma anche politica, in cui si sommeranno fenomeni migratori dovuti alla crescente carenza alimentare di molte popolazioni, guerre innescate per l’accaparramento di risorse scarse, la fine dei sistemi democratici che non rendono bene in uno stato di continua emergenza, nonché nuove pandemie come preconizzato da Quammen (per un quadro complessivo si veda G. Mastrojeni, L’arca di Noè, chiarelettere, 2014).
Pur essendoci unanimità nell’attribuire all’uomo, ma dovremmo dire a un paradigma di sviluppo illimitato, la causa della catastrofe imminente, il capitale è diviso tra il finanziare una comunicazione negazionista (è l’atteggiamento di importanti compagnie petrolifere come Exxon) e il costruire prodotti finanziari per far fronte all’emergenza. La crisi ambientale, con gli scenari catastrofici che ha al seguito, diviene una buona occasione di investimento. Esistono già prodotti derivati che assicurino le vittime da eventi atmosferici, come ne esistono per rendere possibile un aiuto finanziario in caso di pandemie.
Ma nell’uno e nell’altro caso, la finanza agisce da elemento palliativo, non essendo in grado di fronteggiare realmente il problema, che andrebbe invece affrontato mediante la disincentivazione delle emissioni di gas serra e il potenziamento dei sistemi sanitari nazionali. In realtà, come afferma Razmig Keucheyan (La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre Corte, 2019), non si esce dagli squilibri ambientali se non si va al nocciolo delle contraddizioni sistemiche indotte dal capitalismo. La sua tesi è che la crisi climatica, ma lo stiamo vedendo con l’attuale crisi sanitaria, «richiede la radicalizzazione della critica al capitalismo».
In assenza di tale radicalizzazione, la progressiva distruzione dell’ambiente non comporterà un’implosione del capitalismo. Questo mostra una notevole resilienza che si può esprimere in una ulteriore finanziarizzazione e una progressiva militarizzazione quali possibili risposte alla crisi ecologica, con lo stato che ritrova una sua centralità, non nel ridefinire priorità volte al perseguimento dell’interesse generale, ma nell’assecondare gli interessi di lungo periodo del capitale.
Gli scenari della desertificazione di intere zone situate soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dai quali non a caso si generano ingenti flussi migratori, della mancanza futura di acqua dolce dovuta allo scioglimento dei ghiacciai montani (un miliardo e mezzo di persone dipendono dai ghiacciai montani dell’Himalaya), dell’innalzamento del livello dei mari che, con un aumento di 1 o 2 metri, si stima interesserà 700 milioni di persone, si riverberano a livello geopolitico come a livello locale, in quanto siamo in un’unica società globale. Basti pensare come il battito d’ali di un pipistrello cinese abbia bloccato l’economia mondiale, icastica e tragica realizzazione dell’effetto farfalla.
L’impronta umana sul pianeta potrebbe essere ridimensionata a patto di adottare con urgenza i provvedimenti idonei. Ma dovremmo lasciarci alle spalle ricette desuete che sono a profitto di pochi. Il prossimo cigno nero potrebbe essere un evento atmosferico catastrofico che potrebbe innescare una catena di effetti che si alimentano e riverberano nelle azioni umane, come conflitti tra i popoli, il cui rischio derivato dalla crisi climatica è ben presente alle organizzazioni internazionali, dall’Onu alla Nato (con ragionamenti e risposte diverse), passando per le organizzazioni simbolo del neoliberismo come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale.
Tutti questi organismi paventano con una certa consapevolezza tutti i rischi che corre l’umanità, eppure si fa strada un’interpretazione che volge verso una colpevolizzazione delle opinioni pubbliche, che non seguirebbero la politica in scelte dirette a un ridimensionamento dello stile di vita. Occorre qui una riflessione pacata sul rapporto tra élites e cittadini. Se le popolazioni si sono convinte che la misura del loro benessere è data da un cospicuo conto in banca e dagli oggetti che si posseggono è anche perché sono state indotte, con dispendio di energie e investimenti da parte dei think tanks stipendiati delle corporations, a pensare così, a sostituire qualità con quantità, a fare del consumismo uno stile di vita, come auspicato nel 1955 da Victor Lebow.
In parte con la persuasione, in parte con la coercizione, sono state decostruite tutte quelle strutture di mediazione e aggregazione che potevano creare un dissenso verso la politica e il pensiero dominante. Ora si raccoglie l’esito di aver realizzato una società atomizzata, nella convinzione che «non esiste la società ma solo gli individui» (Margaret Thatcher). L’atomizzazione della società riporta però, piaccia o meno, la responsabilità a una politica che ha abdicato al proprio ruolo di guida pensando che tutto potesse essere risolto dall’interazione delle forze in campo secondo le regole del mercato. In sostanza, attraverso la dissoluzione delle relazioni sociali e l’individualismo spinto e competitivo, è stato creato un mostro che risulta ora difficile da governare.
Ecco allora, di nuovo, il doppio binario già sperimentato senza apparente via di uscita: persuasione, attraverso la redistribuzione della colpa, e controllo, attraverso l’uso delle tecniche del capitalismo della sorveglianza messe a disposizione della biopolitica. Senonché, come sta dimostrando la crisi pandemica – e come è facile immaginare accadrà con le prevedibili e sempre più frequenti crisi climatico-ambientali – l’emergenza blocca tutto il sistema facendolo implodere e minando alle loro fondamenta gli stessi sistemi politici democratici.
Per questo sarebbe auspicabile che la politica mondiale si assumesse la responsabilità di quanto accaduto e promuovesse un cambio di paradigma necessario al futuro dell’umanità, impiegando lo stesso sforzo imponente che è stato dispiegato per l’affermazione dell’attuale paradigma fallimentare. E agendo nel senso della redistribuzione, non delle colpe ma delle risorse, rafforzando l’idea dei beni e dei valori comuni in quanto, per parafrasare Indira Gandhi, la povertà è un problema ambientale.
Ciò detto, questa pandemia potrebbe instradarci sulla via giusta, una via che però non è affatto né scontata né in discesa. Dovremmo essere in grado di interpretare i segni dei tempi (Matteo 16, 2-3). Se non cambiamo le coordinate paradigmatiche di fondo, che questo evento, come ogni evento che «rende il possibile reale» (Walter Benjamin), consentirebbe, nel mentre saremo impegnati a debellare questo virus, in una delle tante fattorie in cui polli, maiali o altri animali di allevamento sono stipati, qualche altro virus più micidiale avrà trovato la chiave per infettare l’uomo e magari si sta ingegnando per compiere l’ulteriore salto da uomo a uomo.