Grave sottovalutazione del pericolo, seri ritardi nella reazione, mancato rapido potenziamento delle strutture sanitarie, errata organizzazione dei rimedi: la risposta all’epidemia di Covid-19 in Italia è stata tardiva e lacunosa. Tutto ciò quando avremmo dovuto ben conoscere la lezione di altri paesi.
Dicevano i miei genitori, “voi giovani non ascoltate mai chi ha più esperienza di voi, dovete prima sbattere la testa contro il muro…”. Non solo i giovani, ma anche i governanti e i loro paesi fanno spesso così. E così hanno fatto quasi tutti i paesi occidentali colpiti, uno dopo l’altro, dalla pandemia coronavirus. Essi hanno studiato e utilizzato poco e male l’esperienza della Cina e di altri paesi dell’Est Asia che li avevano preceduti nella diffusione del virus. La Corea del Sud, il Giappone, Hong, Kong, Taiwan e Singapore hanno ben studiato l’esperienza di Wuhan e della Cina e quindi hanno agito, se pur con metodi fortemente differenziati, assai più prontamente e con più completezza e vigore di noi; e quindi hanno avuto, in proporzione alla popolazione, meno sofferenze, meno morti e stanno avendo una meno devastante crisi economica e sociale.
Prendiamo ad esempio il caso della Corea del Sud rispetto a quella dell’Italia e di altri paesi europei. La Corea del Sud ha avuto come l’Italia i primi casi accertati di Covid-19 nella seconda metà di gennaio 2020 (20 gennaio in Corea, 29 gennaio in Italia), ma ha reagito assai più rapidamente e con adeguato vigore, soprattutto quando dal 18 febbraio a Daegu un grande raduno della setta religiosa Shincheonji ha fortemente contribuito a una massiccia diffusione del contagio. Vi sono state, in rapida sequenza, la chiusura parziale di Daegu e misure restrittive in tutto il paese; un gran numero di test (tamponi) e la caccia accanita e ben organizzata, anche con apposite app sui telefoni mobili a coloro che avessero avuto contatti con gli infetti e che venivano massicciamente sottoposti ai test. Se positivi, i soggetti infetti sono stati isolati a casa o in un gran numero di strutture protette, e, nei casi più seri, in ospedale. Un controllo telefonico capillare, due volte al giorno, è stato esteso anche a chi era isolato a casa con sintomi lievi o perché era stato in contatto con infetti.
Si è evitato in tal modo, tranne che inizialmente a Daegu, il collasso delle strutture ospedaliere che era avvenuto a Wuhan, che è avvenuto a Codogno, Bergamo e Brescia in Italia, a Madrid e in altre città spagnole, e che sta succedendo a Milano e New York. La Corea del Sud aveva inoltre tra i posti letto in ospedale, quelli in terapia intensiva e la popolazione, dei rapporti assai più elevati che in Italia, Spagna, Francia e Regno Unito. Il paese asiatico aveva infine programmato per tempo la produzione interna o l’acquisto di un grande numero di tamponi e reagenti, ventilatori, mascherine e altre protezioni, mentre, ad esempio, l’Italia e la Spagna si sono mosse con grave ritardo, quando questi prodotti erano già stati in gran parte accaparrati da altri paesi ed era difficile produrli all’interno in tempi ridotti.
Tutto ciò ha impedito che in Sud Corea gli ospedali, le residenze per anziani e gli studi medici diventassero pericolosi luoghi di contagio sia per il personale sanitario, sia per i loro pazienti, come è avvenuto, ad esempio, in Lombardia e in altre zone dell’Italia. Il risultato di tutto ciò è stato, a tutto il 12 aprile 2020: 214 morti totali in Corea del Sud, contro 17.209 in Spagna e 19.899 in Italia; vale a dire, per ogni milione di abitanti, circa 4 decessi in Corea del Sud, 368 in Spagna, 329 in Italia, oltre 82 volte di più. Inoltre i morti per coronavirus in Italia e Spagna sono ancora assai elevati, mentre in Sud Corea, dove dal 10 marzo 2020 il contagio è stato fortemente circoscritto, ma non spento, i decessi sono sempre stati dal 19 febbraio 2020 meno di dieci persone al giorno. Il 12 aprile 2020 i decessi sono stati: 3 in Corea del Sud, 446 in Spagna, 431 in Italia, 144 volte di più che in Sud Corea.
Si è detto che la grande differenza nella mortalità tra Italia e Corea del Sud sia dovuta soprattutto alla differenza di età e di sesso dei contagiati tra i due paesi, ma come si vedrà, in realtà noi non conosciamo il vero numero dei contagiati di alcun paese, né tanto meno la loro distribuzione per età e sesso e quindi un confronto fra paesi non è attualmente possibile. Per tutta la popolazione è senz’altro vero che le persone più anziane, e soprattutto i maschi anziani, se attaccati dal coronavirus, muoiano di più dei giovani e delle persone di mezza età, ma la Corea del Sud ha una percentuale di anziani sulla popolazione totale quasi elevata quanto l’Italia e non ha significative differenze di genere tra gli anziani rispetto all’Italia. La maggiore differenza l’hanno fatta le politiche, non l’anzianità o il sesso.
Vi è qui il problema di base che ha grandemente imbrogliato le carte: l’abbaglio statistico, cioè l’eccessivo rilievo dato a un indicatore assai lacunoso e imperfetto, cioè il numero di casi di contagiati confermati risultanti dai test, che ovviamente dipende dal numero di test effettuati e dalle modalità con cui sono stati fatti, quali ad esempio i criteri di priorità adottati per la somministrazione degli stessi, la facilità di accesso ai tamponi e il loro costo per chi avesse voluto sottoporsi al test. I casi positivi sottoposti ai test e confermati rappresentano una piccola punta dell’iceberg dei veri contagiati e l’iceberg è tanto più grande quanto più si aspetta a prendere provvedimenti severi di contrasto: pochi giorni di ritardo significano centinaia di migliaia, o milioni, di contagi in più e decine di migliaia di morti di più.
Molti hanno confuso i dati relativi ai casi di contagiati confermati risultanti dai test, ogni giorno resi pubblici con grande risonanza dalle autorità e dai media, col vero numero dei contagiati, che è invece del tutto ignoto non essendo stato possibile fare i test per l’intera popolazione. Secondo diverse stime il secondo (il vero numero dei contagiati) è da 5 a 10 volte superiore al primo e uno studio dell’Imperial College del 30 marzo 2020 sostiene che il 28 marzo in Italia vi fossero 5,9 milioni di contagiati, pari a oltre 45 volte quelli risultanti dai test. In ogni caso il vero numero dei contagiati comprende un gran numero di persone asintomatiche o con sintomi assai lievi che possono essere facilmente scambiati per quelli di banali influenze o raffreddori e che circolando hanno inconsapevolmente contribuito a diffondere il virus.
Un’indagine con test applicati a un campione nazionale sufficientemente ampio della popolazione, asintomatici inclusi, sarebbe fortemente necessaria per orientare meglio le politiche. I dati di Vo’, il paese di una delle prime due zone rosse in Italia in cui circa il 95% della popolazione è stata sottoposta a tampone – e la maggioranza degli infetti si è rivelata asintomatica, ma portatrice di contagio – sono estremamente importanti, ma sono stati colpevolmente trascurati. Solo in Veneto le indicazioni del professore dell’Università di Padova Andrea Crisanti, coordinatore dell’indagine a Vò, sono state parzialmente prese in considerazione. La più pronta, estesa e mirata diffusione dei tamponi, rispetto a Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte ha, ad esempio, permesso al Veneto di individuare anche una parte degli infetti asintomatici e un po’ meglio circoscrivere e contrastare la diffusione della pandemia.
Dalla nostra ignoranza del numero vero dei contagi deriva anche che gli indici di letalità (dati dal rapporto tra decessi per coronavirus e i contagiati confermati risultanti dai test), e la loro comparazione tra paesi o regioni, hanno un valore scientifico praticamente nullo. Per misurare approssimativamente l’effetto del coronavirus sulla mortalità ha più senso guardare al numero di decessi nel periodo del contagio rispetto a quello dello stesso periodo dell’anno precedente e rapportarlo alla relativa popolazione. E qui i dati di Bergamo e Brescia sono raccapriccianti e quelli di Milano lo stanno diventando, mentre Vò e la provincia di Lodi, che include la zona rossa di Codogno e dintorni, sono ora in condizioni migliori; ma Vò ha avuto molto meno morti ed è in condizioni assai migliori della più popolosa Codogno perché ha potuto isolare in quarantena anche tutti gli asintomatici. Muoversi prontamente, come è stato fatto in Corea del Sud, e, in Italia, solo a Vò e in parte nel Lodigiano, e occuparsi anche degli infetti asintomatici, isolandoli per tempo e tracciando la mappatura dei loro contatti, era decisivo e poteva salvare migliaia di vite. Ma ciò non è stato fatto nella maggior parte della Lombardia ed è stato fatto in misura assai tardiva e modesta anche nel resto d’Italia.
Perché tutto questo? Vi sono innanzitutto due importanti fattori: il ritardo di conoscenza e quello socio-politico. Il ritardo nella conoscenza da parte di medici ed esperti virologi ed epidemiologi è in parte dovuto alla novità del virus, ma anche al fatto che le informazioni dalla Cina sono giunte in ritardo e in forma parziale e reticente, e quella dai paesi asiatici, come Corea del Sud, Taiwan e Giappone, sono state ignorate o fortemente sottovalutate. Vi è stata un’evidente sudditanza culturale nei confronti della grande ricerca anglo-americana, che essendo il contagio giunto in America e Regno Unito più tardi, aveva minor esperienza diretta del fenomeno rispetto a quella dell’Est Asia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), diversi esperti occidentali e molti mass media hanno dapprima fortemente sottovalutato il fenomeno e la necessità di produrre o acquisire tamponi, reagenti, mascherine, ventilatori e fare molti più test, più tracciamento e isolamento, per poi giungere, con quasi due mesi di ritardo, ad accorgersi parzialmente dell’errore commesso quando la pandemia aveva già fatto decine di migliaia di morti e investito gran parte del globo.
In Italia altri, più avvertiti, esperti e operatori si sono scontrati con l’incapacità del paese di predisporre prontamente le forniture di test e protezioni necessarie e di evitare il collasso delle strutture sanitarie delle zone più esposte al contagio. Si sono aggiunti i ritardi socio-politici. Gli imprenditori dell’industria, i commercianti, gli operatori turistici, dello sport, della cultura, dell’edilizia, e così via, hanno esercitato una grande pressione sui politici per evitare il grave danno economico delle chiusure immediate di intere zone e città importanti, senza comprendere che una pronta chiusura avrebbe evitato la diffusione esponenziale del contagio e quindi, uno o due mesi dopo, chiusure assai più prolungate e danni assai più devastanti.
Gran parte della popolazione, mal indirizzata da molti mass media, da “social” più vociferanti che raziocinanti, e da alcuni malaccorti esperti per cui il Covid-19 era “poco più che una normale influenza”, era riluttante ad adottare comportamenti che limitassero la libertà di movimento e di relazioni sociali e, sia pure pro-tempore, la stessa privacy. In Italia, a politici di tutti i colori – dal primo Salvini all’ inerte governatore della Lombardia Fontana, al timido Gori, sindaco di Bergamo, al troppo animoso Giuseppe Sala del 27 febbraio “Milano non si ferma”, al lento e maldestro governatore del Piemonte Cirio, a gran parte del governo e dell’opposizione – è mancata la tempestività, la risolutezza e il vigore esercitati dai governanti di Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Singapore, le cui politiche erano da molti di loro assai poco conosciute.
Cominciare subito a reagire con forza al contagio era fondamentale, invece i passi intrapresi in Italia sono stati ritardati, parziali, troppo graduali, tentennanti. Siamo stati il primo paese occidentale a bloccare dal 30 gennaio 2020 i voli diretti dalla Cina, ma ci si è dimenticati di controllare adeguatamente la triangolazione dalla Cina a Monaco o Francoforte o altro scalo europeo e da lì in Italia. Negli aeroporti dove si è eseguito qualche controllo ci si è limitati all’uso dei termo-scanner per la misurazione della febbre, ma molte persone infette non hanno febbre, o sono del tutto asintomatiche, ma perfettamente in grado di diffondere il contagio. Si sarebbe dovuto imporre la quarantena a tutti coloro che provenissero indirettamente dalla Cina e il tampone o la quarantena per chi avesse avuto contatti con persone provenienti da Wuhan.
Si è dichiarato il 31 gennaio 2020 lo stato di emergenza sanitaria, ma troppo poco è stato programmato e fatto per avviare approvvigionamenti sicuri e robuste filiere italiane per test, mascherine e ventilatori; per ampliare rapidamente i posti in ospedali e rianimazione; per organizzare la scoperta dei positivi e i tracciamenti; per creare in alberghi e residenze, senza più flussi turistici, strutture assistite di isolamento per i positivi con sintomi più lievi evitando il rapido diffondersi del contagio nelle collettività e nelle stesse famiglie e il collasso delle strutture ospedaliere. Il 23 febbraio 2020 sono stati decise le chiusure delle zone rosse di Vò e di Codogno e dintorni, ma a Codogno non sono state predisposti sufficienti test, appropriate strutture assistite di isolamento e adeguate protezioni negli ospedali e quindi vi è stato il collasso degli ospedali di Codogno, Cremona e Piacenza, diventati, oltre che stoici centri di cura, anche luoghi di diffusione dei contagi.
In Lombardia col proseguire esponenziale dell’epidemia nei primi giorni di marzo, non si è avuto il coraggio, né da parte della regione, né da parte del governo, di dichiarare zona rosse le province di Bergamo e Brescia e di imporre vigorose misure restrittive anche nel resto della regione, Milano inclusa. Poco incisive misure di contenimento erano state prese dal governo il 25 febbraio, l’1, il 4 e l’8 marzo, ma solo il 9 marzo (decreto “io resto a casa”), l’11 marzo (chiusura attività commerciali non di prima necessità) e soprattutto il 22 marzo 2020 (blocco degli spostamenti in altri comuni, con poche motivate eccezioni; chiusura delle attività produttive non essenziali o strategiche), si è imposto in tutta Italia il “social distancing” e la drastica riduzione degli spostamenti. Un approccio strategico miope, e quindi in parte profondamente errato, è stato quello di confidare soprattutto da una parte sulle famiglie, e dall’altra sugli ospedali.
La chiusura di asili, scuole e università operata senza filtri tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo ha condotto al ritorno a tempo pieno in famiglia di migliaia di piccoli e minori, in larga misura affidati ai nonni (facili prede del virus) o inizialmente a baby sitter (possibili portatori di virus); il ritorno a casa di molti universitari (di cui una piccola parte era contagiata, ma asintomatica o con lievi sintomi trascurati) ha contribuito notevolmente a diffondere nelle famiglie e sul territorio nazionale il contagio. Almeno per gli universitari fuori sede occorreva prevedere un periodo di isolamento, prima del ritorno a casa. Gli ospedali delle zone più colpite sono stati sopraffatti. Inizialmente non avevano ingressi e percorsi separati per gli infetti da Coronavirus e gli altri pazienti, né letti in reparto e in terapie intensive sufficienti, né protezioni adeguate per i medici, gli infermieri e gli ausiliari, né un numero adeguato di ventilatori.
Non è casuale che l’Italia abbia, a tutto il 9 aprile 2020, il record mondiale degli operatori sanitari contagiati (13.522) e degli operatori sanitari morti (133). Va notato che i numeri relativi ai contagi e ai decessi degli operatori sanitari includono anche i medici di base, anch’essi colpiti drammaticamente dal virus a causa dalla prolungata mancanza di adeguate protezioni. Ciò che più è mancato è stato un filtro ben organizzato a più stadi tra i contagiati e le famiglie e tra i contagiati e gli ospedali, in modo da preservare sia le famiglie sia gli ospedali e permettere a quest’ultimi di salvare più vite umane e di non diventare essi stessi fonti di contagio. Il filtro poteva essere indirizzato dai medici di base, ma questi avrebbero dovuto essere affiancati da ingenti nuove forze della protezione civile, da equipe di medici, infermieri, e personale addetto a scovare, contattare e testare i possibili infetti e i loro contatti a rischio, a organizzare e controllare l’isolamento dei positivi con sintomi lievi in apposite strutture o a domicilio, ad assisterli per la fornitura di cibo e medicine, per l’eventuale trasferimento agli ospedali, e così via.
È stato inoltre largamente insufficiente il numero di medici e infermieri reclutato dalle regioni e dalla protezione civile per far fronte all’enorme sovraccarico di lavoro dovuto all’epidemia e alla falcidia per contagi e decessi di operatori sanitari negli ospedali, nella medicina di base, nei laboratori di analisi e nelle RSA. Mentre un decreto del 10 marzo prevedeva fondi per l’assunzione a tempo determinato fino a 20.000 operatori sanitari, la protezione civile ha espletato il 20 marzo 2020 bandi straordinari per soli 300 medici e 500 infermieri volontari da inviare nelle strutture sanitarie delle zone più colpite dalla pandemia, quando il fabbisogno era ben maggiore e i candidati erano pari a quasi 8.000 medici e oltre 9.000 infermieri. Da parte loro le regioni hanno proceduto in ordine sparso e con numeri modesti e quasi solo l’Emilia-Romagna lo ha fatto in modo adeguato, mentre l’INAIL ha disposto bandi unicamente per 200 medici e 100 infermieri.
Il problema peggiore è sorto, come era prevedibile, nelle RSA e in particolare nelle carceri e nelle residenze per anziani. In alcune carceri vi sono stati contagi, sommosse e violenze per il divieto di visite dei parenti. In molte residenze per anziani vi è stato un gran numero di contagi tra gli anziani e il personale sanitario e ausiliario e un grande aumento dei morti nel periodo del contagio rispetto allo stesso periodo negli anni precedenti. Il già ridotto personale sanitario e ausiliario non era stato tempestivamente dotato di protezioni; tra di essi i contagiati lievemente sintomatici non erano stati in molti casi sottoposti a tampone, e se risultati positivi, sostituiti da nuovo personale. Il contagio si era rapidamente esteso agli anziani, già più vulnerabili per malattie e patologie pregresse, per cui il numero di decessi si è impennato. In alcuni casi è stato perfino sciaguratamente deciso di inviare diverse persone positive al virus dagli ospedali alle case per anziani, dove il personale era esiguo, stremato e non dotato di personale specializzato per le malattie infettive. Si è così contribuito ad allargare ulteriormente il contagio ed il numero dei morti.
In definitiva, le regioni e il governo hanno investito con troppo ritardo e troppe poche risorse umane e finanziarie nei mezzi atti a resistere al travolgente crescere del contagio e hanno quindi dovuto, e dovranno, ricorrere a lunghi periodi di chiusura degli spostamenti e di gran parte delle attività produttive. Tutto ciò ha fortemente danneggiato la nostra economia che si avvia verso la più grande crisi economica e sociale del dopoguerra.
La nostra travagliata esperienza poco è servita a paesi come la Spagna, la Francia, il Regno Unito, la Svezia e gli Stati Uniti, che hanno avuto più tempo di noi per studiare sia l’esperienza e le politiche di alcuni paesi dell’Est Asia sia il nostro poco felice esempio, e che hanno in gran parte ripetuto i nostri stessi errori: grave sottovalutazione iniziale del pericolo, seri ritardi nella reazione, mancato rapido potenziamento delle strutture sanitarie e errata organizzazione dei rimedi. Hanno anche questi paesi voluto sbattere violentemente la testa contro il muro.
* Vittorio Valli è Professore emerito di Politica economica, Università di Torino.