Al capezzale della finanza ci sono personaggi che portano a diverso titolo le responsabilità della crisi. Sui cui meccanismi e sulle cui origini non si è ancora detto abbastanza. Né sembra si sia aperta una riflessione teorica: al contrario, c’è chi aspetta che tutto cambi per tornare come prima
Ai tavoli in cui si discute di responsabilità della crisi finanziaria vi è più di un soggetto che somiglia al convitato di pietra: soggetti in qualche modo concreti, come le autorità politiche e quelle monetarie (con le loro appendici internazionali), più astratti e impersonali, come i protagonisti dell’informazione e la stessa teoria economica prevalente. Li differenzia dal personaggio di Molière/Mozart/da Ponte non la condanna dei peccati altrui (avidità, violazione delle regole), ma solo la previsione della dannazione eterna: essi si limitano infatti a lanciare messaggi di cauto pessimismo. Li accomuna, invece, l’aura di superiore intoccabilità: nessuno sembra chiedersi se il convitato di turno abbia l’autorevolezza per assumere il ruolo del Commendatore, se sia immune da responsabilità, se le regole infrante (in questo caso il canone del massimo spazio al libero mercato) siano giuste e se, dopo la crisi, restino intatte. Per parlare di questi convitati non basta un articolo. Trascuro le autorità politiche (in fondo, che ne sanno? Si limitano a fidarsi delle autorità monetarie). Vorrei solo provare a chiarire alcuni concetti, porre qualche domanda e, partendo da qui, adombrare possibili responsabilità degli altri convitati.
Un beneficio questa crisi l’ha avuto. I mezzi di comunicazione hanno cessato di dire che “oggi sono stati ‘bruciati’ tot miliardi di dollari”; hanno meno scorrettamente cominciato a dire che le borse hanno perso tot miliardi di capitalizzazione. Qualcuno si è spinto a dire che questi fenomeni riguardano essenzialmente la distribuzione della ricchezza, non la sua creazione. Mi domando tuttavia se e come la gente comune percepisca queste sottili ma importanti differenze. Il loro interrogativo latente resta lo stesso: chi ha perso, quanto si è perso?
Possono darsi risposte relativamente semplici ricorrendo ad una analogia con il mercato immobiliare. Un certo numero di persone, ogni anno, compra e vende case; il grosso è dato da case vecchie, una piccola parte è fatta da nuove case. Se la domanda di case (vecchie e nuove) eccede l’offerta di case il loro “valore medio” sale e viceversa, la “borsa” delle case sale ovvero scende. Se scende e io che ho casa non vendo per me cambia poco (anche se mi scoccio perché penso: “se dovessi vendere oggi …”). Guadagnano o perdono solo coloro che sono coinvolti nel comprare e vendere. Tra questi soggetti vi sono quelli che costruiscono case; essi potranno guadagnare più o meno di quanto si aspettavano e potrebbero anche perderci se costretti a vendere sotto costo. Ciò cui ci si riferisce parlando di perdita “capitalizzazione” è invece un astratto valore totale delle case, calcolato attribuendo al totale delle case esistenti (non solo a quelle vendute e comprate) il valore medio della frazione di esse che viene trasferita in un dato periodo. Una grandezza cioè meramente virtuale, che sovrastima di molto il significato reale delle oscillazioni e ne esalta l’impatto psicologico.
Ebbene, il caso della borsa finanziaria è del tutto simile. Le case costruite in un periodo equivalgono alle nuove emissioni azionarie. In entrambi i casi i flussi (nuove case, nuove emissioni) sono una frazione minima di quanto viene compravenduto per periodo; quindi hanno ben scarsa influenza sul corso dei prezzi (delle case, delle azioni) e, quindi, sul valore astratto di tali ricchezze (il valore di tutte le case, tutta la capitalizzazione di borsa). La differenza fondamentale è che i valori finanziari di borsa sono molto più volatili (variano di giorno in giorno, perfino di ora in ora, di molti punti percentuali).
Prima domanda: ma da cosa dovrebbe dipendere il valore di un’azione, che è una frazione di proprietà di un’azienda organizzata nella forma di società per azioni (la borsa commercia le azioni di un sottoinsieme di tali aziende, quelle quotate in borsa)? La risposta della teoria economica è che il valore delle azioni di un’azienda dipende essenzialmente (trascuro qualche particolare) dalle aspettative sui suoi profitti futuri. E’ corretto allora chiedersi perché le azioni dovrebbero variare giornalmente in modo così clamoroso il loro valore. Almeno meccanicamente i valori sembrano variare quale conseguenza della variabilità giornaliera dei volumi monetari di acquisto e di vendita, in risposta al fatto che non tutti hanno momento per momento le stesse aspettative. La risposta della teoria economica sembrerebbe allora doversi riformulare prescindendo dalle oscillazioni, come valore tendenziale risultante da un arbitraggio delle diverse aspettative. Ma anche così resta qualcosa che non quadra e che è nascosto dal fatto che l’attenzione degli economisti è essenzialmente rivolta al valore delle azioni di un’azienda rispetto a quella di un’altra: per periodi davvero lunghi il valore della maggior parte delle azioni (il corso della borsa) cresce in misura decisamente superiore alla crescita delle imprese e delle economie (le economie reali ristagnano, le borse crescono). E allora?
Una risposta plausibile sembra essere che, in tempi normali, vi sono volumi di domanda monetaria di ricchezza (azioni, ma anche case e terreni) maggiori (che crescono di più) della relativa offerta. Purtroppo questa risposta di buon senso dischiude qualche contraddizione rispetto alla teoria economica prevalente, per la quale il credito è intermediazione dei risparmi, che dovrebbero crescere più o meno proporzionalmente al Pil e non potrebbero, al di là di frizioni, che andare ad alimentare gli investimenti nelle attività reali, lasciando senza spiegazioni gli investimenti in ricchezza improduttiva. I risparmi depositati in banca farebbero quindi da presupposto agli impieghi, da parte delle banche, dei fondi raccolti con i depositi e, quindi, ai soli investimenti reali (in questo risiederebbe la natura virtuosa del risparmio). (Per trovare visioni in cui la moneta, non il risparmio precedente, alimenta gli investimenti, occorre riandare ai primi decenni del Novecento, con Wicksell e la c.d. Scuola di Stoccolma).
Sorge comunque spontanea una seconda domanda: se la capitalizzazione della ricchezza cresce per via del volume della domanda monetaria di ricchezza, come cresce la moneta (il combustibile della domanda monetaria) in una economia che cresce, quanto meno in termini monetari? Quesito sensato, visto che nessuno vorrebbe che le economie reali crescessero con prezzi in calo dovuti al fatto che la quantità di moneta non cresce di pari passo. Scartando per carità di corporazione le ipotesi più fantasiose (manna che cade dal cielo, banconote lanciate dall’elicottero) le risposte più plausibili della teoria economica prevalente sono due: (a) grazie alla spesa pubblica in deficit finanziata con mera creazione di mezzi di pagamento (cioè senza collocare titoli del debito presso i privati) e (b) con “operazioni sul mercato aperto” effettuate dalle banche centrali (il che significa che quando la banca centrale compra titoli dai privati immette moneta nel sistema e viceversa, regolando in tal modo, si dice, il tasso di interesse).
Qui però sorgono complicazioni, politiche e ideologiche nel caso (a), storiche e concettuali in quello (b). Infatti il primo caso equivale a dire che i governi devono avere un bilancio in deficit, alla faccia delle prediche che la stessa teoria somministra su mercato e bilanci pubblici sani. Nel secondo caso ci si domanda: e i titoli che devono essere comprati per immettere moneta da dove spuntano, come sono nati? E non è vero forse che quando sono nati hanno sottratto moneta? In altri termini la domanda corretta è: con quali meccanismi viene generata la liquidità addizionale, fatta di titoli e di moneta, in ciascun periodo? La teoria prevalente, in proposito, tace.
Wicksell e la Scuola di Stoccolma danno al contrario per scontato che sia il credito a creare moneta (il credito, quindi, precederebbe causalmente i depositi nelle banche). Molto plausibile, con l’aggiunta tuttavia che occorre ammettere che il credito, quello commerciale almeno, possa non solo finanziare gli investimenti produttivi ma contribuire (sempre più) a finanziare anche la domanda di ricchezza, finanziaria e non (case, terreni, gioielli, opere d’arte, ecc.), eventualmente integrando i risparmi accumulati (ma questo solo per i piccoli investitori, perché i grandi speculatori, o chi prova a divenirlo, usano soprattutto il finanziamento creditizio, come le cronache illustrano). Una cosa del genere sembra ammetterla, a denti stretti, perfino la Bce, i cui bollettini riportavano ad esempio, con riferimento al periodo 2001-2005, come l’aggregato monetario (M3) fosse cresciuto costantemente al di sopra del 4,5% (ritenuto dalla stessa Bce come tasso di crescita non inflazionistico della quantità di moneta), con punte oltre l’8%, senza effetti rilevanti (stupore!) sul tasso di inflazione. Tra le cause di tale “stranezza”, il Bollettino Mensile dell’ottobre 2003 indicava tra le motivazioni “le attuali condizioni di abbondanza di liquidità … associate alle riallocazioni di portafoglio avvenute fra la metà del 2001 e gli inizi del 2003, in un contesto di elevata volatilità dei mercati azionari e di continuo calo delle quotazioni”. Si finanziava la borsa, insomma, per sostenere il corso dei titoli azionari; ovviamente per il tramite del credito.
Una tale ammissione è molto rilevante: le autorità monetarie si sono sempre proclamate solo quali paladine della stabilità dei prezzi; scopriamo invece che si sono curate anche dei corsi azionari. E ciò da molto, non solo da due mesi a questa parte (per la prima volta con una divaricazione di atteggiamenti tra Bce e Fed, la prima più preoccupata in un primo tempo dall’inflazione, la seconda dalla crisi finanziaria). Ma se le considerazioni precedenti sono anche solo in parte corrette, inflazione e boom delle borse sono entrambe causate, o quanto meno concausate, da un eccesso di domanda monetaria e quindi di creazione di moneta. Stravagante è però che se la capitalizzazione azionaria (e il valore della ricchezza in genere) cresce, indipendentemente dalla crescita reale, tutti sono contenti, molti hanno guadagnato, tutti si sentono più ricchi anche se non hanno conseguito più ricchezza; se a crescere sono i prezzi di merci e servizi, questo sarebbe comunque un male, indipendentemente da prodotto e redditi, che potrebbero anche essere cresciuti in termini reali. Sembra sensato?
Il problema latente, qui, investe peraltro una questione ben più cruciale di quelle di psicologia sociale e delle responsabilità dei comunicatori: investimenti produttivi e investimenti in ricchezza (di cui quelli finanziari sono parte) potrebbero essere rivali, con le autorità monetarie, e le stesse banche commerciali, che non hanno il controllo della destinazione della liquidità che creano. Sicché è possibile vi sia stato nel passato spiazzamento (crowding out) degli investimenti reali da parte di quelli finanziari (non sarebbero allora solo le emissioni di debito pubblico a spiazzare gli investimenti reali). Oggi pure, ma più paradossalmente, le banche, pur avendo un elevato potenziale di liquidità, pare non siano propense ad erogare prestiti sufficienti alle imprese produttive, forse perché temono che i prestiti fatti ai clienti si perdano nel vortice dei giochi finanziari o forse, peggio, che i clienti falliscano quale conseguenza di una recessione che, negando il credito, esse stesse, insieme a generiche aspettative negative, contribuirebbero ad indurre. Un paradosso, quest’ultimo, che dovrebbe farci rimpiangere i tempi in cui esistevano banche il cui mandato era di erogare credito solo su progetti industriali. (Non si stava meglio? Non si cresceva di più e più stabilmente?).
Al di là di qualche modesto chiarimento ho qui essenzialmente riportato fatti, sollevato dubbi e posto interrogativi. Quel che, a fronte di essi, si stenta a comprendere è perché quasi tutti i convitati si affannino a riaffermare i sani principi del mercato e siano intenzionati, non appena passata la bufera, a ritornare ad essi, magari con qualche regola e qualche controllo in più (ma con qualche reticenza nell’identificare quali).