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Convertire il debito in investimenti

Usare il problema del debito come un’opportunità per industrializzare i paesi europei in difficoltà. L’anticipazione di un articolo che comparirà sul «Diplò» in edicola dal 15 luglio con il manifesto

Risol­vere la crisi greca? Mal­grado le dichia­ra­zioni, i diri­genti euro­pei cer­cano soprat­tutto di «pas­sare l’estate»: tro­vando una solu­zione tem­po­ra­nea, senza trat­tare il pro­blema di fondo. Si con­ti­nua come prima, con il rischio che le popo­la­zioni, esa­spe­rate da come quest’Europa si è andata con­fi­gu­rando, fini­scano per eleg­gere par­titi nazio­na­li­sti di estrema destra.

La crisi interna di cui sof­fre l’Europa si è rive­lata nella defla­gra­zione finan­zia­ria inter­na­zio­nale del 2007–2008. Ma cova sin dalla crea­zione della moneta unica, eco­no­mi­ca­mente pre­ma­tura e isti­tu­zio­nal­mente non soste­ni­bile. Affin­ché l’introduzione di tassi di cam­bio fissi fra gli Stati mem­bri abbia senso – è il pro­getto di tutta la moneta unica -, occorre lavo­rare prima alla pro­gres­siva con­ver­genza dei ritmi di cre­scita della pro­dut­ti­vità. Non è stato il caso dell’Europa. In que­ste con­di­zioni, il dramma greco rap­pre­senta il caso estremo di una situa­zione dif­fusa: la mag­gior parte degli Stati mem­bri, com­prese Fran­cia e Ita­lia, farà fatica a sop­por­tare inde­fi­ni­ta­mente la parità esterna dell’euro e l’impossibilità di svalutare.

Di fronte alle dif­fe­renze di pro­dut­ti­vità e com­pe­ti­ti­vità, soprat­tutto rispetto alla Ger­ma­nia, la neces­sità di tra­sfe­ri­menti interni alla zona euro appare con chia­rezza. E ci rimanda alle idee svi­lup­pate dall’economista bri­tan­nico John May­nard Key­nes alla con­fe­renza di Bret­ton Woods, nel 1944.

La sua pro­po­sta, che potremmo adat­tare alla zona euro, era: esor­tare i paesi euro­pei ad appli­care il prin­ci­pio di una gestione coo­pe­ra­tiva delle rispet­tive bilance dei paga­menti per man­te­nerle intorno all’equilibrio. Non con sem­plici tra­sfe­ri­menti finan­ziari o con aggiu­sta­menti di cam­bio interni, ma con inve­sti­menti da parte dei paesi ecce­den­tari verso i paesi defi­ci­tari, così da cor­reg­gere gli squilibri.

Qual è il pro­blema prin­ci­pale della Gre­cia? Per molti, è la sua inca­pa­cità di ono­rare i pro­pri debiti. Secondo la com­mis­sione per la verità sul debito creata dal Par­la­mento elle­nico, l’attuale stock di debiti deriva dal for­tis­simo aumento dei tassi d’interesse (fra il 1988 e il 2000), da mas­sicce spese mili­tari e poi, a par­tire dal 2000, dalla caduta delle entrate dello Stato pro­vo­cata da eva­sione fiscale, amni­stie fiscali e altri «regali» con­cessi ai più abbienti.

Quest’analisi indi­vi­dua cer­ta­mente alcune delle cause dell’aumento del far­dello del debito greco. Ma non tutte. Per­ché il debito non è la causa dei mali del paese; piut­to­sto, li aggrava. Il pro­blema prin­ci­pale è il sot­to­svi­luppo delle atti­vità pro­dut­tive e il suo corol­la­rio: la grande dipen­denza della Gre­cia dai finan­zia­menti esterni.

Attual­mente, un’uscita della Gre­cia dalla zona euro seguita da una forte sva­lu­ta­zione della moneta nazio­nale col­pi­rebbe molto nega­ti­va­mente la capa­cità dei greci di pro­durre i beni dei quali neces­si­tano per vivere. Non solo il paese importa la quasi tota­lità dei beni di pro­du­zione e di con­sumo dure­voli, ma la sua bilan­cia com­mer­ciale è in rosso anche nei campi dell’energia, dei far­maci, del tes­sile, degli elet­tro­do­me­stici. È defi­ci­ta­rio anche il set­tore agricolo.

Dopo l’adesione della Gre­cia alla Comu­nità euro­pea, nel 1981, il con­sumo della popo­la­zione si avvi­cina pro­gres­si­va­mente a quello della media degli altri paesi euro­pei svi­lup­pati. Ma al tempo stesso, la pro­du­zione indu­striale crolla: la sua quota nel pro­dotto interno lordo passa dal 17% del 1980 al 10% circa nel 2009. Poi, dal 2009 al 2013, la pro­du­zione indu­striale è calata ulte­rior­mente del 30%.

Que­sta situa­zione fa sì che il paese, per equi­li­brare la pro­pria bilan­cia com­mer­ciale, dipenda in gran parte dal turi­smo e dai tra­sfe­ri­menti pro­ve­nienti dall’estero. Sto­ri­ca­mente, que­sti ultimi pro­ve­ni­vano da per­sone che risie­de­vano e lavo­ra­vano in altre parti del mondo (anni 1960–1980); a par­tire dagli anni 1980–1990, sono stati sosti­tuiti dai finan­zia­menti euro­pei. Dagli anni 1980, la Gre­cia – le sue ban­che, le sue imprese e in ultima istanza lo Stato – si rivol­gono ai mer­cati finan­ziari per finan­ziarsi. Una scelta che spiega l’esplosione del carico di inte­ressi dovuti da Atene.

Da una parte un appa­rato pro­dut­tivo carente, dall’altra la dipen­denza dai finan­zia­menti esterni (per­ché l’economia non pro­duce abba­stanza per soste­nere i red­diti e il con­sumo, e per finan­ziare lo Stato e i ser­vizi pub­blici): il dramma greco si avvi­luppa su se stesso.

Di fronte al dop­pio defi­cit, negli scambi con l’estero e nei conti pub­blici, i governi che si sono suc­ce­duti fra il 2008 e il 2015 – fino a quello di Antó­nis Sama­rás – hanno rispo­sto com­pri­mendo i con­sumi e la spesa pub­blica. La prima misura doveva ridurre il defi­cit della bilan­cia com­mer­ciale; la seconda, quello nei conti dello Stato. Gli effetti di que­ste scelte fune­ste sono noti: una con­tra­zione del Pil pari al 25%, un balzo della disoc­cu­pa­zione al 26% della popo­la­zione attiva e… un’esplosione del debito.

Entrando in con­trad­di­zione, dopo aver rico­no­sciuto in un rap­porto del 2013 che le misure impo­ste alla Gre­cia erano state un errore, il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale (Fmi) ha con­ti­nuato a pre­ten­dere una ridu­zione delle pen­sioni e un aumento dell’imposta sul valore aggiunto. Ma que­ste ricette non con­sen­tono di imma­gi­nare una ripresa della cre­scita, unica pro­spet­tiva di rim­borso dei debiti esi­stenti, che oggi supe­rano il 175% del Pil.

Quale altra pista imma­gi­nare? L’opzione dell’annullamento par­ziale, decisa uni­la­te­ral­mente, acui­rebbe le ten­sioni fra Atene e le isti­tu­zioni sulle quali il paese deve poter con­tare se desi­dera rima­nere nella zona euro. La mag­gio­ranza dei cre­di­tori l’ha esclusa. Essa inol­tre avrebbe un’efficacia solo tem­po­ra­nea, riman­dando a domani la ricerca di una vera solu­zione al pro­blema greco.

Ma esi­ste un’altra via: usare il pro­blema del debito come un’opportunità per indu­stria­liz­zare i paesi euro­pei in dif­fi­coltà, fra i quali la Gre­cia. Un pro­getto la cui por­tata va oltre il caso spe­ci­fico che oggi pre­oc­cupa mer­cati, media e diri­genti politici.

È pari ad almeno 50 miliardi di euro (in genere da rim­bor­sare fra il 2016 e il 2024) l’ammontare dei debiti greci che tutti con­si­de­rano persi. Si tratta del 15% circa del totale. Un pro­getto di uscita dalla crisi che si fon­dasse su un piano di indu­stria­liz­za­zione del paese offri­rebbe ai cre­di­tori una garan­zia abba­stanza seria di essere rimborsati.

E come? Il bilan­cio dello Stato greco ha un ecce­dente pri­ma­rio. Insomma, prima del ser­vi­zio del debito, il governo spende meno del totale delle impo­ste che incassa. Ci sono due modi di ana­liz­zare que­sta situa­zione: o vedervi una capa­cità di rim­borso, ed è que­sto che imman­ca­bil­mente sot­to­li­neano i cre­di­tori; oppure una capa­cità di inve­sti­mento, che un nego­ziato potrebbe promuovere.

La seconda pista implica una pre­via ristrut­tu­ra­zione del debito, senza un nuovo finan­zia­mento da parte del Fmi o della zona euro. L’operazione avrebbe due obiet­tivi prin­ci­pali. Da una parte, far pas­sare nelle mani di Stati euro­pei i cre­diti attual­mente dete­nuti dal Fmi e dalla Banca cen­trale euro­pea (Bce) con sca­denza 2016–2024, ovvero il 70% del totale. D’altra parte, ren­dere più fles­si­bili le date di paga­mento di alcune sca­denze affin­ché l’ammontare totale dei rim­borsi dovuti per un deter­mi­nato periodo non sia supe­riore all’eccedente primario.

Gli Stati diven­tati deten­tori, al posto del Fmi e della Bce, del debito greco da pagare nel periodo 2016–2024 con­fe­ri­reb­bero i loro cre­diti, di un ammon­tare pari a 50 miliardi di euro, a fondi di inve­sti­mento pub­blici bila­te­rali. Que­sti ultimi sareb­bero dete­nuti in eguale misura da due isti­tu­zioni pub­bli­che. Nel caso della Fran­cia potrebbe trat­tarsi della Ban­que publi­que d’investissement (Banca pub­blica di inve­sti­mento — Bpi); per la Ger­ma­nia, della Kre­di­tan­stalt für Wie­de­rauf­bau (Isti­tuto di cre­dito per la rico­stru­zione). Il fondo franco-greco deter­rebbe il 20% dei cre­diti verso lo Stato greco; il suo omo­logo tedesco-greco, il 27%, ecc.

La Gre­cia con­ti­nue­rebbe a ono­rare il paga­mento del debito ma – ed è il punto essen­ziale – il denaro andrebbe a fondi inca­ri­cati di inve­stire nell’economia pro­dut­tiva del paese. Detto in altri ter­mini, invece di andare ad arric­chire le tasche dei cre­di­tori, le somme sareb­bero messe a pro­fitto per svi­lup­pare l’industria locale. Gli stati creditori-investitori sareb­bero rim­bor­sati una volta rea­liz­zati e ven­duti gli inve­sti­menti. Il diritto della con­cor­renza dell’Ue si è ben adat­tato finora ai fondi sovrani nazio­nali; non si vede per­ché dovrebbe disap­pro­vare fondi bila­te­rali che per­se­gui­reb­bero fina­lità del tutto simili.

Il coor­di­na­mento degli inve­sti­menti avver­rebbe essen­zial­mente sotto l’egida della banca di svi­luppo greca, part­ner di cia­scuno dei fondi. Ma si avvar­rebbe dell’esperienza dei fondi nazio­nali, che per­met­te­rebbe di evi­tare certi errori del pas­sato, a comin­ciare dagli spre­chi. Si può anche imma­gi­nare che la Banca euro­pea degli inve­sti­menti (Bei), la Banca euro­pea per la rico­stru­zione e lo svi­luppo (Berd) e/o la Banca mon­diale met­tano la loro espe­rienza e una parte della loro capa­cità di inve­sti­mento al ser­vi­zio dei pro­getti individuati.

Que­sta pro­po­sta richiede uno sforzo di imma­gi­na­zione da parte dell’Europa, ma implica anche che la Gre­cia si impe­gni in una pro­fonda riforma delle pro­prie isti­tu­zioni per uscire dal solco tra­di­zio­nale: quello di un’economia di ren­dita (ren­dita turi­stica, ren­dita immo­bi­liare, pro­fitti legati al com­mer­cio di impor­ta­zione) infet­tata dal clientelismo.

Occor­re­rebbe indub­bia­mente creare nuove isti­tu­zioni – come la banca di svi­luppo greca in via di costi­tu­zione –, miglio­rare il regime fiscale degli inve­sti­menti esteri, rea­liz­zare un vero cata­sto per l’insieme del paese.

D’altra parte occor­re­rebbe soste­nere la ricerca, inco­rag­giare il decen­tra­mento… Insomma, un can­tiere isti­tu­zio­nale di ampia por­tata, corol­la­rio di un pro­getto di svi­luppo senza il quale la Gre­cia non potrà uscire dalle dif­fi­coltà ere­di­tate dal pas­sato e che i piani di auste­rità hanno al tempo stesso evi­den­ziato e aggravato.

Dun­que lo sforzo sarebbe impo­nente, ma il gioco non vale forse la can­dela? I cre­di­tori diven­tati inve­sti­tori con­tri­bui­reb­bero all’industrializzazione della Gre­cia, alla crea­zione di posti di lavoro nell’industria, alla ridu­zione della disoc­cu­pa­zione, alla cre­scita dei con­sumi, all’aumento delle entrate fiscali, al rim­pa­trio dei capi­tali gra­zie all’ancoraggio della Gre­cia nella zona euro, ecc. Si cree­rebbe un cir­colo vir­tuoso, pro­prio il con­tra­rio dell’attuale cir­colo vizioso trac­ciato dalle poli­ti­che di auste­rità. Senza con­tare che uno dei van­taggi di que­sto piano sarebbe indi­vi­duare nuove occa­sioni di inve­sti­mento per gli indu­striali del nord Europa. In altri ter­mini, il rilan­cio dell’Europa inde­bi­tata ser­vi­rebbe anche a quello dell’Unione nel suo insieme.

E andiamo oltre: per­ché non appro­fit­tare di que­sto pro­getto per appro­fon­dire le com­ple­men­ta­rietà indu­striali all’interno dell’Unione? Bru­xel­les sem­bra attual­mente fomen­tare una con­cor­renza fron­tale fra gli appa­rati pro­dut­tivi nazio­nali. Non si potrebbe invece far sì che gli inve­sti­menti da avviare in Gre­cia siano sele­zio­nati per rispon­dere ai biso­gni della popo­la­zione ma anche per inse­rirsi in un sistema pro­dut­tivo dav­vero europeo?

Le eccel­lenze gre­che in certi campi, agroa­li­men­tare, cosmesi natu­rale, can­tie­ri­stica e per­fino alcune atti­vità legate ai distretti aero­spa­ziali potreb­bero essere svi­lup­pate e aiu­tare la base indu­striale dell’insieme della regione.

Un nuovo modello, suscet­ti­bile di essere ripro­dotto altrove in Europa, apri­rebbe la strada a un vero rilan­cio euro­peo. Invece di una corsa al pro­dut­ti­vi­smo, con­sen­ti­rebbe di avviare il con­ti­nente sulla strada di uno svi­luppo nuovo, eco­lo­gico, umano e soli­dale, sulla base di cri­teri ela­bo­rati in modo democratico.

Alla fine, la sfida, al di là del caso Gre­cia, è quella di far avan­zare l’Europa verso un co-sviluppo inse­rito nel qua­dro della tran­si­zione ener­ge­tica e dello svi­luppo soste­ni­bile. Il pro­getto euro­peo sarebbe rilan­ciato su basi nuove: coo­pe­ra­zione, ricerca dell’efficienza ambien­tale e sociale, la mag­giore demo­cra­tiz­za­zione pos­si­bile delle scelte poli­ti­che, eco­no­mi­che e finanziarie.

Non resta che eli­mi­nare il condizionale….

 

L’articolo pubblicato da www.ilmanifesto.it per la traduzione di Marinella Correggia

La versione integrale del testo uscirà sul numero del Diplò di luglio, in edicola dal 15 luglio con il manifesto