Cosa cambierebbe in Europa con nuovi governi in Francia e in Germania? E da dove potrebbe ripartire, nelle condizioni date, un governo di sinistra in Italia?
Il governo ha presentato alle camere il testo di revisione costituzionale in materia di pareggio strutturale di bilancio (artt. 53, 81 e 117 Cost.): ci sarà occasione per tornare a ragionare con calma su questa problematica , assai densa di implicazioni per la governance della democrazia. Ora vorrei svolgere qualche considerazione sul paradigma interpretativo che dovrebbe orientare una sinistra di governo, a fronte della situazione economica in atto.
Secondo una parte importante dei commentatori economici (e la Bce sembra assumere questo punto di vista) il racconto è pressappoco questo: se la spesa pubblica è oltre il 40% del Pil è necessario stabilizzare e poi ridurre in modo duraturo questo rapporto: per far ciò occorre introdurre robusti tagli strutturali ( cioè permanenti nei programmi di spesa); gli aumenti di imposte sono recessivi e inseguono la spesa: Gli effetti dei tagli sarebbero sempre meno recessivi degli aumenti di imposta; le conseguenze negative dei tagli si possono ridurre o eliminare con appropriate misure di stimolo della crescita. Al centro di questa visione stanno i mercati che devono avere fiducia in un futuro equilibrato del bilancio pubblico. Se essi introiettano questa fiducia, dopo la stagnazione, l’economia potata dei rami secchi riprenderà a crescere. È un racconto naturalistico, quasi astorico; funziona perché queste sarebbero le leggi del marcato.
Ma siamo proprio sicuri che le cose stanno così? Non è forse necessario capire un po’ meglio dove eravamo e perché si è scatenata la crisi? Siamo sicuri che l’economia mondiale è ripartita e che sarebbe tempo di rassicurare questi benedetti mercati, molto preoccupati dell’accumulo di debito e dell’equilibrio sano delle economie? Ma se è così perché i mercati hanno lasciato accumulare mostruosi segni debitori privati ( i derivati) che non sanno bene ora come rappresentare nei conti delle banche, alle quali le agenzie di rating devono pur dare i voti?
Altri economisti sostengono, sempre sulla base di una lettura degli stessi dati di riferimento, che il racconto potrebbe essere invece questo: i mercati (finanziari) controllano un volume di segni debitori (breve, medio e lungo termine) pari a circa 8 volte il Pil mondiale; sono seduti su un vulcano; allora devono controllare day by day che questa montagna di debiti non si scongeli all’improvviso, lasciandoli in mutande per la seconda volta. Una prima bolla (subprime di origine immobiliare) è già scoppiata e si è trasmessa all’economia reale. Ci è stato raccontato che era roba americana; le nostre banche erano forti e solide. Ma la ripresa tarda a partire; e ciò avviene proprio perché i mercati si rendono conto che il potere di acquisto delle famiglie è recessivo e la disoccupazione si allarga. Ma allora che fanno questi birbaccioni dei mercati finanziari? Cominciano a guardare meglio negli andamenti delle economie e cominciano a premere sui paesi (e sulle aree monetarie) che crescono in modo troppo lento per pagare con sicurezza il servizio del debito. La pressione fa aumentare i tassi di interesse per rinnovare il debito che scade; non possono attaccare per ora direttamente l’area del dollaro e pensano bene di guardare all’euro, moneta senza Stato, cominciando dalle economie più stagnanti. Sono dei veri benefattori questi mercati; tirano le orecchie alle economie un poco discole e premiano quelle solide che tirano la cinghia ma poi dopo, tac, tutto ripartirà, come in natura quando si potano gli alberi.
Nel 1988 l’Argentina era in recessione; il Fmi (e il governo di allora) spiegarono agli argentini che occorreva rassicurare i mercati con un deficit zero stabilito nel modo più solenne nell’ordinamento giuridico; i salari dei funzionari pubblici furono tagliati del 13%; le entrate fiscali caddero drasticamente e il debito andò completamente in default; si ricominciò da zero, con un nuovo governo, una nuova moneta, staccata dal dollaro, e forti politiche di sostegno del reddito.
Molti (meno il Fmi) convennero che le indicazioni di una legge non potevano derogare alle regole dell’economia. Forse il paradigma della crescita è un poco più complesso di quanto pensassero coloro che hanno aperto la strada a modelli matematici di investimento finanziario, basati sulla autoregolazione razionale e astorica dei mercati.
Allora? Noi siamo un vagoncino (di media forza) nel treno dell’euro diretto dai tedeschi che vigilano su una moneta (euro) senza Stato. Sono gli stessi tedeschi (e francesi) che nel 2005, contro il parere della Bce, applicarono la procedura sui disavanzi eccessivi in modo da consentire alle loro stesse economie di sottrarsi alle sanzioni previste in caso di disavanzi , appunto eccessivi. Ora, con governi di centro destra, non riuscendo a cambiare la regola europea, hanno introdotto nei propri ordinamenti regole fiscali più strette e hanno chiesto ai paesi “ discoli” di fare altrettanto. Il cosiddetto Europlus è solo un atto di indirizzo politico. Mentre infuria il vento freddo della speculazione, con un situazione economica quasi ferma, il governo italiano ha pensato bene di adeguarsi “spintaneamente” alle ferree indicazioni venute da Francoforte, con la giusta preoccupazione del Quirinale. Non si poteva fare altrimenti!! E tuttavia, forse una riflessione più approfondita su che cosa dovrebbe fare una alleanza di sinistra se dovesse vincere le elezioni andrebbe condotta, ora, non domani.
Chi scrive è convinto che se in Europa guidassero le danze – in Francia ed in Germania – coalizioni di centro sinistra, le cose cambierebbero solo di poco; i tedeschi con molta prudenza, aprirebbero agli eurobonds per reti infrastrutturali (da loro fortemente controllate, insieme ai francesi) e noi dovremmo dimostrare di avere ripreso un controllo ferreo dei conti pubblici per partecipare a questa fase europea un poco più espansiva.
Allora in che cosa consiste la differenza? Che coalizioni di centrosinistra in Francia, Germania e paesi nordici (scenario possibile) guiderebbero la macchina europea sapendo che non c’è nessuna ripresa mondiale dietro l’angolo, e non ci sono ricette “naturali”; solo serie ed incisive politiche pubbliche nelle infrastrutture e nelle innovazioni, possono ridare all’economia europea slancio e prospettiva e forza nuova a tutto il processo federale europeo. Tutti devono imparare ad essere un poco più tedeschi; paese questo dove lo Stato c’è, funziona bene e la Corte costituzionale ricorda che è il Parlamento federale, titolare della rappresentanza politica e dell’uguaglianza sociale dei cittadini, che deve decidere su crisi greca, eurobond e dintorni.
In questo possibile nuovo scenario europeo, sono soprattutto gli italiani che devono mostrare di aver ripreso il controllo dei propri conti e delle proprie politiche di crescita. Dunque, la discussione sull’art. 81 Cost. e dintorni deve servire, ad avviso di chi scrive, a riordinare in profondità i piani politici della decisione di entrata e di spesa, a ridisegnare la tecnica della governance (risorse, culture, procedure dei controllo ex ante ed ex post), a ridare chiarezza ed affidabilità a rappresentazioni di bilancio dominate da un contabilismo melenso. E questa della chiarezza ed affidabilità dei conti e delle manovre, che dovranno coniugare equità, rigore e sviluppo, è la questione cruciale della democrazia rappresentativa possibile ora, in questa fase storica, alla, portata di una sinistra che vuole cambiare lo stato presente delle cose. Forse è un po’ poco, ma è quello che le “ferree” leggi della economia politica, scienza storica ed umana per eccellenza, consentono, per ora. E in questa temperie, in attesa della sovranità delle istituzioni rappresentative europee, è il Parlamento italiano, opportunamente rinnovato , nella legge elettorale e nella scelta degli uomini, che deve dare senso e prospettiva a questa fase.