Il differenziale di investimenti pubblici in sapere è lo spread più rilevante dell’Italia non solo rispetto all’Europa, ma anche rispetto alla maggioranza dei paesi dell’Ocse. Scuola, università e ricerca: tra i paesi europei l’Italia è quella che spende di meno. E negli ultimi ventanni lo spread è drammaticamente aumentato
Il differenziale di investimenti pubblici in sapere è lo spread più rilevante dell’Italia non solo rispetto all’Europa, ma anche rispetto alla maggioranza dei paesi dell’Ocse. Siamo ultimi o penultimi sia in Europa che nell’Ocse per la percentuale di spesa pubblica che va alla scuola, all’Università, alla ricerca, alla cultura in rapporto al Pil. E negli ultimi ventanni lo spread è drammaticamente aumentato. Il bello è che questo è avvenuto mentre tutti si sciacquavano la bocca con l’economia delle conoscenza, con la centralità del capitale umano e della ricerca e della cultura perla crescita economica. Montezemolo, da presidente di Confindustria, presentò addirittura una ricerca in cui si stabiliva una correlazione tra la produttività dei paesi e dei territori e gli indici di lettura dei cittadini.
Peccato che in quegli anni il sapere divenisse l’oggetto privilegiato dei tagli ai bilanci pubblici. Con andamenti diversi tra i diversi governi ma tutti segnati dal segno meno. La priorità del sapere per la crescita economica è stata la priorità più predicata e meno praticata di questi anni.
Il tutto condito con una retorica efficientista e meritocratica. Basta con gli investimenti a pioggia, serietà, lotta agli sprechi, valutazione. Come se parlassimo di un altro paese, non di quello che spende meno di tutti in istruzione, con i più alti tassi dispersione scolastica, con il minoro numero di laureati, con un patrimonio culturale a rischio. Il paese con l’industria culturale e creativa che ha visto diminuire ogni giorno i finanziamenti, per il taglio congiunto delle poste a ciò dedicate nel bilancio delle Stato e dei tagli ai trasferimenti agli Enti Locali, con gravi ricadute sulla stessa vivibilità delle città e sul welfare locale.
Sulla base dell’idea che investimenti privati – tra l’altro nemmeno adeguatamente incentivati – potessero sostituire il decrescere degli investimenti pubblici. Tutti i dati a nostra diposizione ci dicono che, in tutti i paesi del mondo, gli investimenti privati in cultura, formazione, ricerca non sono mai sostitutivi di quelli pubblici, ma crescono e rallentano in relazione a quelli.
Il Ministro Bray e la Ministra Carrozza si stanno muovendo e cercano di tappare i buchi. Il presidente Letta dice che non taglierà mai su scuola, università e cultura e che appena un po’ di risorse disponibili le investiremo proprio in questi settori. Ma non pare ci sia la consapevolezza che siamo proprio arrivati al capolinea.
Nella scuola continuano a diminuire gli insegnanti mentre il numero degli alunni aumenta. Avevamo calcolato il risparmio degli insegnanti sulla base del calo demografico degli italiani. E ora le scuole si popolano di tanti nuovi alunni di tanti colori e di tante lingue diverse. Che richiedono nuove attenzioni, un nuovo modo di insegnare, di portare nella scuola la musica, la danza, le arti, i linguaggi che prima di ogni altro possono essere condivisi da bambini di lingue diverse.. E che farebbero tanto bene anche ai bambini e ai ragazzi italiani. Nei fatti cresceranno le classi pollaio quando ci sarebbe bisogno di strategie di accoglienza mirate e personalizzate. Abbiamo affrontato come un’emergenza il fenomeno che più di ogni altro segnerà il nostro futuro. Il fatto che la nostra società diventerà sempre più interetnica ed interculturale. La scuola anticipa questo processo e nonostante i tagli lo stà facendo bene, con la fantasia, l’intelligenza, l’eroismo di tante maestre, che affrontano tutti i giorni il problema di come formare i nuovi italiani; tessendo legami con il territorio, con il volontariato, con tanti giovani artisti e potendo contare a volte sul sostegno, sempre più difficile dei Comuni. Queste maestre non possono dire ai propri bambini e ai propri ragazzi che la cittadinanza che acquisiscono nelle aule diventerà cittadinanza anche nella loro vita futura.
Il crescere del rapporto fra docenti e discenti rischia di mettere a rischio la stessa autonomia, che doveva essere non la “scuola azienda”, ma la scuola “comunità educativa”, capace di costruire i propri programmi e le proprie metodologie didattiche sulla base dei concreti contesti territoriali in cui operava, a partire dalle facce, dai bisogni e dai desideri di chi popolava le sue aule. Ciò risulta difficile quando gran parte degli insegnanti sono precari. Il precariato, qui e in tutti gli altri posti, è il contrario della flessibilità, se per flessibilità si intende la capacità di costruire la propria offerta didattica – e forse questo vale per qualsiasi altra offerta – in vista della diversità di quelli a cui ci si rivolge, del mutare del contesto e delle tecnologie disponibili, e del successo formativo dei giovani cittadini che frequentano la scuola, per coniugare uguaglianza e diversità.
Una scuola di questo tipo ha bisogno di avere un progetto organizzativo che si costruisce nel tempo, di gruppi di insegnanti e di personale tecnico e amministrativo affiatati e coesi, ha bisogno di stabilità. Solo la scuola dei programmi ministeriali e del registro di classe, può servirsi dei precari. Solo le organizzazioni rigide e povere possono servirsi del lavoro usa e getta. La battaglia contro il precariato, nella scuola e oltre, non è solo lavoristica. Ha anche una dimensione culturale e sociale che va oltre i più che legittimi interessi dei giovani alla stabilizzazione: è la condizione di una scuola più dinamica, più accogliente, più aperta.
Le cifre dell’Università sono drammatiche e impietose e hanno già delle conseguenze: diminuisce il numero dei laureati con cadenze addirittura più rapide del numero degli iscritti. Il paradosso italiano – quello di avere il minoro numero di laureati e il più gran numero di laureati disoccupati e sotto occupati – si sta risolvendo nella maniera peggiore. Non ci sono segnali di inversione di tendenza sul terreno della domanda di ricerca, decisamente scarsa, da parte del nostro sistema produttivo di merci e servizi. Le misure prese sembrano ben lontane da invertire la tendenza al declino ed è difficile uscirne se la disponibilità di nuove risorse viene legata alla ripresa, misurata nei vecchi termini del Dio che ha fallito. In realtà possiamo uscirne se invertiamo la logica, se passiamo dalla priorità dell’Economia – quella della finanza, dei mercati finanziari che ci dettano legge – e che determina le politiche economiche – la politica economica fondamentale di questi anni è il patto di stabilità – e vede come una ricaduta il lavoro, i diritti delle persone, la diminuzione delle disuguaglianze, i beni comuni si cui si basa il livello di civiltà dei territori.
Non so quando e come riusciremo a mettere le briglie alla speculazione finanziaria che ci avvelena la vita. Ma intanto, nelle nostre pratiche politiche di ogni giorno, sarà bene invertire la rotta. Tracciare la nostra scala di priorità su cui valutare la ripresa – abbiamo scoperto che ci può essere ripresa senza occupazione, e poi alla fine che in Italia, e in gran parte proprio per lo spread di fondo di cui abbiamo parlato – non ci sarà nemmeno la ripresa.
È solo con un’idea diversa dello sviluppo, che faccia della sostenibilità sociale e ambientale il proprio punto di riferimento, che la conoscenza, in tutte le sue articolazioni, può davvero riacquistare centralità. Questo perchè “conoscenza” vuol dire ricominciare a pensare nei tempi lunghi e distesi, tempi dettati, più che dal mercato, dalla curiosità di sapere e dalla felicità del creare. Il fatto – come ci aveva già a suo tempo spiegato Castells – che l’economia della conoscenza e delle reti, sia nata contestualmente alla più profonda ristrutturazione capitalistica su scala globale dell’economia ed alla crescente finanziarizzazione dell’economia, ha provocato la spinta a ridurre la conoscenza ai tempi del mercato, e reso sempre più difficili gli investimenti sul futuro alle persone, alle imprese, ai servizi. Se piegata a queste logiche quella che potrebbe diventare la cura alla crisi che stiamo vivendo finisce per essere assimilata alla malattia.
Ed è solo nel paradigma della sostenibilità che il sapere in tutte le sue articolazioni può diventare una grande fattore di uguaglianza. Nelle strutture dove il saper si produce e si riproduce. Dalle maestre d’asilo ai premi Nobel, dalla valorizzazione dei punti alti della ricerca alla formazione permanente per i lavoratori ei cittadini perché il sapere diventa prodotto, servizio, vita delle persone là dove la conoscenza è diffusa.
È uguaglianza anche difendere e valorizzare tutto ciò che è comune: l’acqua, la terra, il paesaggio, i beni culturali. Quello che è giusto e bello anche perché nessuno se ne può appropriare, fonda prima di ogni altra cosa la cittadinanza, il rispetto, la cura per le cose che durano. Starei molto attento a chi usa, parlando dei beni culturali, la metafora del “petrolio”. La cultura è la più rinnovabile delle risorse, cresce con l’uso. Anche perché poi, chi parla di petrolio, tende a schiacciare la cultura sul turismo e sui beni più vendibili, sui capolavori estratti dal contesto in cui sono natie in cui sono vissuti. L’Italia è ricca e attrattiva proprio perché i capolavori sono inseriti in un contesto territoriale unico e irripetibile, sono inseriti in un paesaggio in cui si fonde la storia dell’uomo con quella della natura. Per lo meno finchè saremo capaci di difenderlo dal cemento e dalla speculazione. Questo non vuol dire non considerare il turismo come una risorsa economica. Vuol dire evitare che una valorizzazione economica affrettata e dissennata distrugga quello che è frutto dei tempi lunghi della nostra storia, dissoci attrattività e cittadinanza. Ho fatto per un po’ di anni l’assessore alla cultura a Genova e ho incontrato in questa veste molti esperti di “marketing territoriale” per poi scoprire che il marketing più importante – scusate la brutta espressione – è la consapevolezza e l’amore dei cittadini per il proprio territorio, il vivere la cultura come un fattore decisivo di coesione sociale. Dopo tanto marketing Genova sta oggi nel mondo per l’opera di un architetto che le ha ricostruito una piazza sul mare, per le canzoni di un cantautore innamorato dei suoi vicoli e per un prete di strada che ha passato la vita tra i portuali e le puttane.
La cultura è tale se si rigenera, se si arricchisce di nuova arte, se allarga anziché restringere gli spazi in cui la creatività può esprimersi. Ci hanno riempito la testa sugli sprechi, certamente presenti in alcuni settori dello spettacolo, ma l’Enpals, l’ente previdenziale dei lavoratori dello spettacolo, è confluito nell’Inps con un attivo superiore a tre o quattro annualità di Fus, che è il fondo con cui lo Stato finanzia lo spettacolo dal vivo. Si può dire che negli ultimi tempi i lavoratori dello spettacolo abbiano dato allo Stato più di quanto dallo Stato abbiano ricevuto. Un attivo che si spiega col fatto che meno della metà degli artisti che lavorano raggiungono i requisiti minimi per la pensione. Un attivo che è stato un furto ai danni dei lavoratori precari. Un attivo che potrebbe sostenere un nuovo welfare per i lavoratori dello spettacolo, e le forme di autogestione di cui siete protagonisti, e dare vita a nuova mutualità nella direzione aperta dalla cooperativa “artisti 7607”.
Il sapere può essere lavoro, ma se non ci si appiattisce sulla domanda delle imprese così come sono e dei servizi così come sono. Il paradigma della sostenibilità richiede ricerca, formazione finalizzata, conoscenza diffusa fra i cittadini, in grado di rimettere in gioco anche gli stili di vita. Questa ricerca per alzare il livello di qualità e la sostenibilità dei nostri prodotti e dei nostri servizi richiede più che mai un intervento pubblico. Che del resto c’è sempre stato, se pensiamo al ruolo che il traino della spesa militare ha avuto negli Usa e non solo per la ricerca e l’innovazione di prodotto e di processo. La sfida che abbiamo davanti è proprio questa: operare perchè l’intervento pubblico per il ben essere e il ben vivere delle persone, per la salute, per l’istruzione, per la salvaguardia dell’ambiente e del territorio, possa essere il nuovo volano per la ricerca e l’innovazione.
Il ruolo dell’università è a questo punto vitale. Il superamento dei suoi vizi e dei suoi limiti ha senso se avviene in un rilancio e una ridefinizione della sua missione, che è quella di tenere insieme sapere, sviluppo e democrazia. Questa discussione è clamorosamente mancata. La valutazione è diventata l’unica politica visibile sull’Università. Ma valutare per cosa? Si ritiene che in Italia gli iscritti all’Università siano tanti o pochi? La cosiddetta “terza missione”, che è quella che dovrebbe affiancare le attività di ricerca e di didattica, non può essere appiattita sui rapporti con le imprese, ma deve vedere il coinvolgimento delle università nei progetti per la sostenibilità ambientale e sociale del territorio, per aprirsi ai bisogni di formazione permanente dei lavoratori e della popolazione, per essere presidio di spirito critico e di democrazia nei processi di trasformazione. E anche su questo, soprattutto su questo, deve essere valutata, per aiutarla a crescere, e non per giustificare sulla base di discutibili presupposti meritocratici la sua povertà ormai insostenibile.
La valutazione senza missione schiaccia l’università sul presente. Delinea un’università che fa propri i tempi e i modi della crescita economica e che è impossibile riprodurre. Rinchiude i saper negli specialismi delle discipline misurati dagli indici bibliometrici e i docenti nel recinto sempre più stretto dell’individualismo competitivo. I fatti che valuta sono quelli che misurano la rispondenza ai dettami di un efficientismo senza futuro, ma che è ancora in grado di dettare condizioni al mondo del sapere e della conoscenza.
Mi piace leggere così, in questa prospettiva, la frase che un anonimo studente scrisse sui miri di Via Balbi a Genova, proprio di fronte al rettorato ai tempi della pantera ma ancora perfettamente leggibile. “Basta fatti, vogliamo promesse.”
Intervento alla IV Sessione, 8 settembre 2013: “Lavoro, welfare e conoscenza: come combattere le diseguaglianze sociali”