Poche luci e tante ombre sul pacchetto di misure approvate la settimana scorsa a Bali dai 160 paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio
Un milione di miliardi: tanto, secondo la Camera di Commercio Internazionale 1 – e di seguito per tutti quelli che ne hanno citato la previsione – dovrebbe valere solo uno dei dieci accordi che costituiscono il pacchetto misure di liberalizzazione commerciale approvato la scorsa settimana a Bali dai 160 Paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Dopo quattro giorni di negoziati ininterrotti, il direttore generale Roberto Azevedo ha portato a casa il primo accordo commerciale multilaterale dal 1994, anno della fine del Ciclo di negoziati. Al virtualmente lucroso capitolo della Facilitazione del commercio si affiancano altri nove capitoli: 4 agricoli e cioè servizi generali, stoccaggio pubblico di materie prime alimentari ai fini della sicurezza alimentare, tariffe “quota rates”, competizione nelle esportazioni; poi un molto annacquato capitolo sul cotone; poi altri 4 capitoli riguardanti i paesi meno sviluppati (LDCs), estratti dall’Agenda di sviluppo di Doha, e cioè il rinvio dell’implementazione della liberalizzazione dei servizi, regole d’origine semplificate, accesso duty free quota free dei loro prodotti nei mercati dei paesi avanzati e un meccanismo di monitoraggio specifico dell’impatto delle misure commerciali.
“Non siamo riusciti solamente a tenere in vita questa organizzazione, ma a dimostrare come dovrebbe lavorare, in modo energico, non in incontri chiusi, ma con tutti i membri impegnati a negoziare”, ha dichiarato soddisfatto del suo lavoro il direttore generale neoeletto Roberto Azevedo. A guardare però con un po’ di attenzione il pacchetto di Doha, si capisce che entusiasmo e propaganda hanno un po’ esagerato i contorni deI risultato. La maggior parte delle misure – poche e limitate rispetto al mandato di Doha – è stata approvata nella sua forma meno definita, per non creare dissenso, e molto lavoro resta ancora da fare a Ginevra a livello tecnico per dar loro corso. Scendendo, poi, nel dettaglio, il quadro diventa ancor più disarmante. Sulla facilitazione del commercio, che dovrebbe portare dogane e confini di tutto il mondo a lavorare con le stesse procedure ed elettronicamente, Jeronim Capaldo della Tuft University 2 ha verificato che i conti fatti per arrivare ai fantastilioni prefigurati, prevedono un tasso fisso di aumento del Pil legato all’aumento dei flussi commerciali, che presuppone, innanzitutto, che i flussi commerciali non si contraggano, cosa regolarmente successa negli ultimi anni in molte aree del pianeta a causa della crisi globale. Il calcolo prevede, in secondo luogo, un coefficiente di aumento di occupazione legato all’aumento degli scambi, già utilizzato nel passato anch’esso da Banca mondiale e Fondo monetario, ma smentito più volte dai fatti. Se aggiungiamo a questo il fatto che informatizzare le dogane e omologare le loro procedure a livello globale a standard propri di un paio di corrieri internazionali, oltre che risultare costosissimo per paesi poveri e già strutturalmente in crisi come quelli meno sviluppati, costituisce un implicito favore per un numero selezionato di corrieri e operatori dei servizi postali e un danno certo per le imprese nazionali, pratica ben altro che giusta e concentrata sugli interessi dei più poveri.
Passiamo poi al capitolo agricolo. È vero: all’India, dopo dura battaglia, è stato consentito in via transitoria di stoccare materie prime alimentari acquistate dal governo dai produttori nazionali, per distribuirle ai più poveri nell’ambito di programmi di sicurezza alimentare, senza che questo sia considerato sussidio illegale alla propria agricoltura. È vero che questo vale, però, solo per le misure già in piedi, e non sarà permesso più a nessun altro d’ora in poi. E che questa concessione copre politicamente anche gli attuali programmi di assistenza alimentare che gli Stati uniti garantiscono ai propri cittadini poveri, e che costano ogni anno 75 miliardi di dollari. Senza contare i sussidi agricoli Usa considerati legali dalla Wto, che valgono 120 miliardi di dollari. E quelli illegali notificati ogni anno per evitare cause valgono altri 19 miliardi. È chiaro che un riequilibrio redistributivo a livello globale, obiettivo di ogni sistema multilaterale che si rispetti, con queste polarizzazioni di poteri assolutamente indiscutibili e indiscusse, è del tutto fuori questione. Africa Trade Network, rete di ong africane, constata che i propri governi sono tornati a casa a mani vuote, contrariamente a quanto hanno entusiasticamente affermato alla chiusura del vertice. Le misure specificamente dirette ai paesi meno sviluppati, infatti, paradossalmente “rappresentano un ulteriore indebolimento degli impegni che avevano ottenuto sulle stesse questioni in conferenze ministeriali precedenti. Era dal vertice di Hong Kong del 2005 che i nostri prodotti avrebbero dovuto godere di un accesso senza dazi nè quote nei mercati avanzati, e addirittura da quello del 2003 di Cancun che doveva essere garantito sostegno ai paesi produttori di cotone”. A Bali, su entrambi i capitoli, troviamo solo la promessa di prendere in esame ulteriori azioni relative agli impegni assunti in precedenza. Tutto considerato, quello di Bali si dimostra, più che un pacchetto, “un pacco”, una fregatura, ai danni dei più poveri e dei nostri diritti fondamentali a vantaggio dei soliti noti.
Di fronte a tanta fuffa, è dimostrato che la Wto non è l’assise più adatta per discutere di temi sempre più sensibili quali il diritto al cibo, l’occupazione, le attività umane e il loro impatto sulla vita del pianeta. È lampante che continuare ad allargarne le competenze non sia la scelta giusta, e che la governance globale trovi più adatta cornice nelle istituzioni dell’Onu (Fao, Ilo, Unctad, Unfccc), in relazione alle loro specifiche competenze. In tempi di crisi così stringente, Il Parlamento e il Governo italiano, e a maggior ragione il Parlamento e la Commissione europea – nel rispetto dello stesso Trattato di Lisbona – dovrebbero innanzitutto promuovere il rispetto dei diritti umani fondamentali e di quel vincolo di coerenza delle politiche in un’ottica di solidarietà internazionale che costituisce valore fondante della stessa costruzione europea 3. Con sindacati e associazioni, crediamo ci sia bisogno, in vista delle prossime elezioni europee, di lavorare ad un mandato alternativo per la Commissione europea rispetto ai temi del commercio. Un gruppo di organizzazioni europee 4, tra cui la nostra, ci sta già lavorando. A partire dai valori fondativi dell’Europa come cooperazione e sostenibilità, bisogna superare il dogma della competitività, affermare nei fatti il multilateralismo, porre fine alla proliferazione dei tavoli bilaterali e plurilaterali, garantire piena trasparenza ai processi e la garanzia della partecipazione democratica dei Paesi membri e della loro società. Per delle politiche commerciali al servizio dell’occupazione di qualità, dei diritti ambientali, sociali e del lavoro.
1 www.iccwbo.org/News/Articles/2013/Business-gives-last-push-to-seal-Bali-deal-and-salvage-Doha-Round/ 2 Capaldo, J “The uncertain Gains from Trade Facilitation, GDAE Policy Brief 23-02, Medford, MA, Tuft University, December 2013. 3 A questo proposito, leggere la prima analisi del Pacchetto di Bali dell’Osservatorio italiano sul commercio Trade Game http://tradegameblog.com/2013/12/07/wtobali-un-modesto-compromesso-manteniamo-un-atteggiamento-critico-e-vigile/ 4 http://www.alternativetrademandate.org/