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Come si piega la forza lavoro. Il caso Fiat-Fca

Le multinazionali sfruttano le differenze di regolamentazione dei Paesi per realizzare strategie di investimento e localizzazione della produzione. A farne le spese sono i lavoratori.

Finché non è sparita dentro la nuova FCA nel 2014, la Fiat è stata considerata come una grande multinazionale sin dal suo nascere, come la grande multinazionale italiana. Ma in effetti la Fiat si può considerare come una vera multinazionale solo dagli anni ’50 in poi. È vero che anche prima della seconda guerra mondiale essa esportava – e anche molto –, ma le esportazioni di per sé non attribuiscono a un’impresa la caratteristica di multinazionalità. Questa è specifica di una produzione diretta – tramite investimenti diretti – in altri Paesi, caratteristica che era poco visibile nella Fiat prima della seconda guerra mondiale e che venne sviluppata in modo accelerato dopo.

Un’altra caratteristica della Fiat prima dell’ultima grande guerra è stata il forte grado di internalizzazione: quasi sola tra le imprese automobilistiche, la Fiat produceva allora la maggior parte dei suoi prodotti intermedi e finali all’interno della società stessa. Fu l’Avvocato Giovanni Agnelli che iniziò una sostenuta strategia di esternalizzazione negli anni ’60, come specificò in un’intervista con Giuseppe Volpato (riprodotta in Volpato 2004, Parte ottava, pp. 445-67), attraverso le sub-forniture che vennero sviluppate prima in Italia e poi anche all’estero. L’incremento delle sub-forniture andò quasi di pari passo con gli investimenti diretti all’estero.

C’è una relazione tra queste due caratteristiche e il modo e tempi come si sono sviluppate? Sì, c’è e passa attraverso le strategie verso la forza lavoro, come il mio co-autore e io analizziamo nel dettaglio (Balcet e Ietto-Gillies 2019). Per arrivare a questo faccio una piccola deviazione.

Le imprese multinazionali sono state studiate molto sin dal lavoro di John Dunning a Reading, nel Regno Unito, dagli anni ’50 in poi. In particolare, la famosa tesi di dottorato presso il MIT del canadese Stephen Hymer (1960, pubblicata nel 1976) ha dato seguito a molte altre teorie per spiegare perché le imprese decidono di produrre direttamente all’estero. Malgrado ciò la comunità accademica dell’economia – ortodossa e non – ha avuto relativamente poco interesse per queste imprese, che pur sono i maggiori protagonisti della vita economica attuale. Molto interesse è stato mostrato invece dalla comunità accademica legata ai Business Studies e, in particolare, quella all’International Business. Non è che gli economisti non siano interessati alle imprese, particolarmente quelle grandi: semplicemente non vedono nulla di particolare nel fatto che un’impresa operi direttamente in diversi Paesi. Sono interessati al fatto che essa sia spesso grande e abbia forte potere di mercato, non tanto alla sua caratteristica di multinazionalità.

È importante questa caratteristica? E se lo è, perché? Ho sviluppato questo tema nel dettaglio in un libro di cui la terza edizione – sostanzialmente rivista – apparirà nel settembre 2019. Per dirla in breve, la rilevanza viene non tanto da caratteristiche specifiche delle imprese ma da quelle di Paesi caratterizzati da specifici regimi di regolamentazione che possono differire in uno o più dei seguenti elementi: regimi fiscali e doganali; sistemi monetari; regolamentazione dell’ambiente e salute pubblica; e, ultimo ma molto importante, regime di regolamentazione del lavoro e della sicurezza sociale.

Queste divergenze creano, per le imprese che operano in molti Paesi, opportunità di strategie addizionali rispetto alle imprese uninazionali. In particolare strategie riguardanti la forza lavoro che, a fronte di esse, vede indebolito il suo potere contrattuale. La messa in atto di strategie di localizzazione in diversi Paesi frammenta la forza lavoro. Ciò è il risultato del fatto che mentre finora – e a cominciare dal dopoguerra – le imprese sono riuscite a organizzare e coordinare le loro attività attraverso frontiere nazionali, la forza lavoro e i loro sindacati non sono riusciti ad attuare coordinamento, mobilitazione e azioni comuni. Ora stanno cominciando, ma in chiave ancora ridotta e specifica. Negli ultimi due anni abbiamo visto mobilitazioni e istanze sindacali a livello di vari Paesi verso Uber, Ryanair, Google. 

Prima erano solo le grandi imprese a diventare multinazionali e, quindi, a potersi avvalere di strategie di frammentazione del lavoro tramite localizzazione in vari Paesi caratterizzati dalla diversità della regolamentazione del lavoro, dei sindacati e della sicurezza sociale. Ora con l’avanzare della digitalizzazione sono anche le imprese medio-piccole. Va notato, inoltre, che le tecnologie digitali aiutano anche nell’organizzazione delle sub-forniture. 

 Ma dobbiamo specificare che se le tecnologie aiutano sia l’internazionalizzazione che l’esternalizzazione delle attività produttive e commerciali, la chiave di fondo per capire lo sviluppo di entrambe sono le strategie verso il lavoro. Sia la produzione all’estero che la sub-fornitura portano a una frammentazione del lavoro che, spezzettato in molti Paesi e/o in diverse imprese, trova più difficile organizzarsi e resistere, e quindi ha meno potere contrattuale.

La Fiat offre un caso illuminante rispetto a queste strategie. Negli anni ’50 si ritrova come impresa pressoché completamente internalizzata e con pochissime attività di produzione diretta all’estero. C’è un mercato estero, ma è fornito soprattutto con le esportazioni da produzione italiana. Anzi, dobbiamo dire da produzione piemontese perché all’inizio la produzione Fiat era geograficamente concentrata non solo a livello nazione ma persino a livello regionale. La crescente domanda venne, per molti anni, affrontata con la strategia di movimenti di lavoro verso il capitale cioè con spostamenti di forza lavoro dal Sud Italia verso il Piemonte. Volpato (2004, p. 71) riporta che nel 1967 il 75% della forza lavoro a Mirafiori e Rivalta era non-piemontese.

I problemi sociali che tali spostamenti crearono furono enormi. All’inizio ci fu un’ostilità tra lavoratori del Sud e del Nord che rispecchiava i pregiudizi di gran parte della popolazione (“Non si affitta a meridionali” dicevano cartelli sparsi per Torino e dintorni). Ma con il passare del tempo la concentrazione geografica e di fabbrica portò i lavoratori a vedere gli interessi comuni. Ciò favorì la loro organizzazione e mobilitazione. A fronte dei susseguenti problemi con la forza lavoro la Fiat iniziò strategie di dislocazione geografica e organizzativa: cioè prime fabbriche al Sud Italia – con Termini Imerese e Cassino nei primi anni ’70 – dove la forza lavoro era, a quel tempo, abbondante e poco organizzata. Si incrementarono, inoltre, contratti di sub-fornitura spesso a imprese con sede negli stessi locali Fiat e di proprietà della Fiat e della famiglia Agnelli.

Che le strategie di produzione diretta all’estero abbiano una componente di strategie di relazioni industriali è peraltro corroborato da diversi episodi nella storia della Fiat e di altre multinazionali. Negli anni ’90 l’allora amministratore delegato Cesare Romiti minacciò la rilocalizzazione di investimenti da Melfi verso il Portogallo, a meno che i sindacati non avessero accettato il contratto loro offerto. Simile situazione si ripresenta nella recente era Marchionne: i sindacati vengono presentati con la dicotomia investimenti a Pomigliano o dislocazione in Polonia.

La conclusione è che lo studio delle imprese che operano in diversi Paesi va fatto come tale: cioè la caratteristica “multinazionalità” è importante al di sopra – e non meno – di quella di grandezza o del potere di mercato con cui interagisce. Questo perché non c’è uniformità di regimi regolamentari da Paese a Paese e le divergenze possono essere sfruttate dalle imprese a scapito della forza lavoro o del fisco di vari Paesi, oppure delle condizioni ambientali e di salute. Per cominciare a capire questi processi e le loro conseguenze, noi economisti dobbiamo concentrarci su questioni di strategie – sia da parte di imprese che di sindacati – e non di chimerici equilibri.

Per quanto riguarda lavoro e sindacati nei vari Paesi, essi, a mio avviso, dovrebbero seguire l’esempio delle stesse multinazionali e soffermarsi sulla caratteristica di multinazionalità. Come le imprese si avvantaggiano delle strategie di internazionalizzazione per dividere la forza lavoro da loro impiegata, così i sindacati dovrebbero cercare di andare verso strategie controbilancianti: di mano tesa (outreach), di collaborazione e solidarietà tra sindacati di diversi Paesi e i cui lavoratori sono assunti dalla stessa multinazionale o sono impiegati nella filiera di produzione sia nello stesso Paese che in Paesi diversi. Ho ascoltato con molto interesse la video-intervista di Giulio Marcon al nuovo Segretario Generale della CGIL Maurizio Landini pubblicata recentemente da Sbilanciamoci!. Fa piacere sentire commenti sulla necessità di politiche di avvicinamento tra i vari sindacati italiani, nonché con il movimento operaio e sindacale europeo. Spero che l’estensione della mano vada anche verso l’approfondimento della collaborazione tra lavoratori e sindacati di stabilimenti italiani ed esteri della FCA e di altre multinazionali: un aspetto non considerato nell’intervista.

Un corollario di più ampio raggio politico della tesi di cui sopra è che lo spezzettamento di Paesi – tipo Gran Bretagna, Spagna, Italia – auspicato dai movimenti secessionisti favorisce le grandi multinazionali e non i lavoratori nelle regioni secessioniste, perché queste ultime, una volta autonome, si affretterebbero a istituire regimi regolamentari favorevoli agli investimenti e alle attività delle multinazionali, in concorrenza con il Paese da cui secedono. Alla fine chi ci guadagnerà saranno le società multinazionali, a scapito dei lavoratori e normali cittadini ovunque essi siano.

Riferimenti bibliografici

Balcet, G. and Ietto-Gillies, G. (2019), ‘Internationalisation, Outsourcing and Labour Fragmentation. The case of FIAT’, Cambridge Journal of Economics (forthcoming).

Hymer, S.H. (1960), The International Operations of National Firms: A Study of Direct Foreign Investment, 1976 edition, Cambridge, MA: MIT Press.

Ietto-Gillies, G. (2019), Transnational Corporations and International Production. Concepts, Theories and Effects. Third Edition, Cheltenham, UK and Northampton, USA: Edward Elgar, cap. 15.

Sbilanciamoci! (2019), ‘Una nuova alleanza è necessaria. Intervista a Maurizio Landini’, febbraio 2019: https://sbilanciamoci.info/una-nuova-alleanza-e-necessaria/

Volpato, G. (2004), FIAT Auto. Crisi e riorganizzazioni strategiche di un’impresa simbolo, Torino: ISEDI.