La diffusione dei processi di automazione, la frenata nella crescita di start up e il calo marcato degli investimenti hanno frenato la crescita dell’occupazione statunitense
Può essere di un certo interesse cercare di analizzare alcuni aspetti dell’andamento recente del mercato del lavoro statunitense (de te fabula narratur, almeno in parte), cercando di capire in particolare come esso si vada evolvendo sotto i colpi della crisi, dell’evoluzione tecnologica, nonché dei variabili andamenti dei processi di globalizzazione e della caduta progressiva della forza del sindacato. Ci aiutano a farlo alcuni articoli apparsi di recente sulla stampa statunitense e britannica.
Un rovesciamento di segno nei processi di delocalizzazione?
Partiamo apparentemente un po’ da lontano, dal mercato del lavoro dell’altra superpotenza in campo, quella cinese. Il costo del lavoro vi sta aumentando fortemente da diversi anni. Oggi quello medio mensile di un operaio, tutto compreso, si colloca intorno agli 825 dollari, contro i 230 ad esempio del Vietnam (Song Jung-a, 2013). Le previsioni sono per una forte ulteriore crescita nei prossimi anni.
Si potrebbe a questo punto pensare che, rovesciando un trend che si era sviluppato negli ultimi decenni, si debba assistere a dei forti processi di delocalizzazione degli insediamenti industriali dal paese verso altri lidi caratterizzati da un costo del lavoro più a buon mercato e/o comunque ad un ritorno verso i paesi di origine degli stessi insediamenti.
In realtà, si registra certamente qualche spostamento di stabilimenti da parte delle imprese estere e da parte anche di quelle cinesi verso paesi caratterizzati da un livello dei costi molto più contenuto; ma niente di veramente preoccupante sta succedendo su questo fronte per il paese asiatico. Il livello degli investimenti esteri in entrata non ne sta in ogni caso soffrendo gran che.
Il fatto è che i fattori che attraggono le imprese straniere verso la Cina sono ormai oggi per la gran parte diversi e comunque complementari rispetto al solo costo del lavoro: pesano sempre di più la presenza di vaste economie di scala, di una ricca articolazione nelle reti di sub-fornitura e di una loro capacità di risposta rapida alle mutevoli richieste dei clienti, di una rilevante qualità delle sue infrastrutture, di una forza lavoro molto istruita, flessibile, abituata a lavorare duramente, di una burocrazia molto efficiente (quando vuole), soprattutto di un mercato interno che sta diventando il più importante del mondo in moltissimi settori. Proprio in queste settimane veniamo informati, ad esempio, che quello cinese è ormai il primo mercato al mondo per le vendite on-line.
Ma veniamo al caso specifico degli Stati Uniti. Mentre l’aumento in dollari del costo del lavoro cinese può essere stimato nell’ultimo periodo al 15-20% all’anno (gioca in proposito anche la rivalutazione progressiva della moneta cinese rispetto a quella statunitense), quello Usa è aumentato dell’1,6% all’anno dal 2011 (Crocks, 2013).
Anche se gli investimenti diretti Usa in Cina non ne stanno soffrendo molto complessivamente, va comunque registrato un certo movimento di ritorno in patria di insediamenti industriali da parte delle imprese americane. Il fenomeno tocca soprattutto quelle che hanno più bassi costi del lavoro in Usa, alte spese di trasporto dall’Asia ai mercati di sbocco ed altre ragioni importanti per stare vicine ai loro clienti. Quindi gli effetti sono vari da settore a settore.
In ogni modo il Boston Consulting Group registra in una sua inchiesta recente (Crocks, 2013) che il 21% delle imprese di un campione selezionato dalla società stava riallocando qualche parte della produzione dalla Cina verso gli Stati Uniti, o stava programmando di farlo entro i prossimi due anni.
Da qualche parte si sottolinea come anche lo sviluppo negli Stati Uniti dello shale gas abbia portato a significative riduzioni nei prezzi dell’energia statunitensi, ciò che potrebbe attirare dei rilevanti insediamenti industriali nel paese anche dall’Europa e dal Giappone e comunque rendere ancora più competitivi gli Stati Uniti rispetto all’Europa.
Di fatto, in questo momento l’occupazione nel settore manifatturiero in Usa stagna comunque al disotto dei 12 milioni di unità. Peraltro la Bcg prevede che alla fine del decennio essa, per effetto del reshoring e delle esportazioni in crescita, potrebbe aumentare tra 0,6 e 1.2 milioni di unità.
In ogni caso, come sottolineava già nel 2011 un articolo apparso sul New York Times (Uchitelle, 2011), per riportare il lavoro indietro dall’Asia o per evitare di collocarlo al di fuori degli Stati Uniti, molte imprese nazionali impongono salari molto inferiori a quelli già prevalenti nelle stesse aziende. Si parla di paghe orarie inferiori di 10-15 dollari (12-19 dollari all’ora contro i 21-32 dollari di prima) a quelli rilevabili precedentemente.
È così che ormai produrre dei beni negli Stati Uniti è diventato un affare competitivo come in quasi qualsiasi area del mondo, come dichiara all’autore dell’articolo un dirigente della General Electric.
Robot e qualificazione degli addetti
Ci sono alcune forze che operano in controtendenza rispetto al possibile aumento dell’occupazione manifatturiera indotta dalla maggiore competitività statunitense; si tratta in particolare, intanto, dell’impiego crescente dei robot e delle questioni legate alla qualificazione della forza lavoro. Vediamo le cose in maggior dettaglio.
Stanno in effetti arrivando in misura massiccia i robot, che aiutano ad incrementare fortemente la produttività delle imprese.
Così tra il 2007 e il 2012 il numero dei manager nel comparto industriale è aumentato di 387.000 unità, mentre quello degli impiegati è diminuito di circa 2 milioni (Harding, 2013). Il fatto è che le nuove tecnologie sostituiscono ormai non soltanto il lavoro operaio, ma anche quello degli uffici, ciò che contribuisce a far sprofondare la classe media nella crisi.
Il fenomeno non riguarda peraltro soltanto il settore manifatturiero. Ora gli effetti della tecnologia, dopo aver toccato i lavori a bassa qualificazione e ripetitivi, stanno riguardando anche in particolare l’istruzione e la sanità, le due aree più labor-intensive del paese. Nessuno sa veramente cosa fare.
Altra questione importante riguarda la qualificazione della manodopera.
Gli Stati Uniti devono affrontare una marcata divergenza tra quello che il mercato del lavoro chiede e quello che il sistema di istruzione sta producendo. Paradossalmente la forza lavoro statunitense è sottoqualificata da una parte, sovraqualificata dall’altra (Luce, 2013).
L’economia presenta un alto livello di disoccupazione mentre ci sono contemporaneamente alcuni milioni di posti di lavoro che non si sa come riempire. Gli imprenditori statunitensi insistono che la mancanza di lavoratori qualificati è un problema crescente.
D’altro canto, metà degli americani con un diploma di laurea sono occupati in delle attività dove esso non sarebbe richiesto. Così, ad esempio, hanno una laurea il 15% dei tassisti di New York.
Per cercare di capire cosa fare si vanno, tra l’altro, inviando folte delegazioni in Germania a studiare il sistema di formazione professionale e di apprendistato tedesco post-diploma di scuola secondaria, che sembra aver risolto molte delle questioni in campo.
Incidentalmente, il costo medio orario di un operaio nel settore industriale è di 32 dollari in media negli Stati Uniti, di 49 in Germania (Luce, 2013).
Start-up e occupazione
Un altro fenomeno che tende a frenare la crescita dell’occupazione, oltre alla diffusione dei processi di automazione, riguarda la questione della creazione di nuove imprese. Le start- up sono sempre state, afferma The Economist (“Schumpeter, 2013), al cuore del successo dell’economia americana. Le imprese che hanno cinque anni di vita o meno coprono da sole storicamente tutta la creazione netta della nuova occupazione nel paese.
Ma queste vere e proprie macchine della crescita si sono in pratica bloccate di recente, sottolinea il giornale britannico. Gli Stati Uniti non producono più tante start-up come dieci anni fa e comunque ognuna di esse genera meno occupati della media storica – si registrano cinque nuovi occupati oggi per ogni nuova impresa contro i sette di una volta. Le stesse start-up hanno creato 4,7 milioni di posti di lavoro nel 1999, ma soltanto 2,7 milioni nel 2012.
La crisi finanziaria ha una parte di responsabilità nei mediocri risultati, ma agiscono sul fenomeno diversi altri fattori. Tra questi, come segnalato anche al paragrafo precedente, si segnala il fatto che il sistema educativo non produce di frequente le professionalità richieste dal mercato del lavoro. Inoltre, un’altra ragione molto importante ha a che fare con l’immigrazione. Mentre gli immigrati sono all’origine di circa la metà delle nuove imprese di maggiore successo, nonché di un gran numero di brevetti, le autorità fanno di tutto, di recente, per spingerli a lasciare il paese una volta che vi abbiano completato gli studi. Possono ancora essere citate le crescenti complessità delle regolamentazioni governative e il loro costo. Inoltre, si fa riferimento alle maggiori difficoltà, dopo lo scoppio della crisi, di trovare i finanziamenti necessari all’avvio delle nuove attività.
Investimenti ed occupazione
Un terzo fattore che sembra influenzare negativamente la creazione di nuova occupazione riguarda l’andamento degli investimenti, tema su cui insiste un altro articolo (D’Andrea Tyson, Lund, 2013). Nello studio si sottolinea come gli investimenti produttivi netti abbiano la tendenza, negli ultimi dodici anni, sia pure con delle oscillazioni, a ridursi sensibilmente come percentuale del Pil statunitense. Nel 2012 tale percentuale, dopo quattro anni di ripresa era ancora sotto al 2.0%, nettamente inferiore al 4,7% che era stato registrato come punta massima del fenomeno nel 2000.
Ora, dicono gli autori, gli investimenti fissi, pubblici e privati, di solito espandono la capacità produttiva e normalmente aumentano la produttività e la creazione di nuovi posti di lavoro, anzi si riscontra in particolare una forte correlazione tra la crescita degli investimenti privati in impianti e in software e la crescita dell’occupazione nello stesso settore privato. Ambedue i fenomeni sono oggi a livelli bassi.
Il salario minimo
Un articolo (Alperovitz, 2013) sottolinea parallelamente come i salari in termini reali dei lavoratori abbiano avuto solo una crescita minima negli ultimi trenta anni.
Tra l’altro, è vero, come scrive l’autore, che nel 2007 il salario orario minimo è stato aumentato in misura rilevante, portandolo da 5,15 a 7,25 dollari, ma esso era, in termini reali, più alto di ben 2,0 dollari nel 1968. Per raggiungere lo stesso livello del 1968, oggi la paga oraria dovrebbe essere pari a circa 10,6 dollari. Per altro verso, oggi 7,25 dollari non sono sufficienti a coprire le necessità di alimentazione, affitti, salute, trasporti di una famiglia.
Lo stesso Obama ha sostenuto di recente la necessità di aumentare il salario minimo, sottolineando, tra l’altro, che con 7,25 dollari orari un lavoratore può portare a casa un massimo di 14.600 dollari all’anno, livello sicuramente inadeguato per sostenere un nucleo familiare. Lo stesso Obama indica la necessità di portare la soglia a 9,0 dollari, livello peraltro ancora insufficiente; ma sino ad oggi non è successo niente, in particolare per l’opposizione dei repubblicani.
Va peraltro sottolineato che venti stati dell’unione hanno a suo tempo deciso di fissare il salario minimo ad un livello superiore a quello federale.
Alcune categorie di lavoratori erano state comunque a suo tempo escluse dal vincolo del salario minimo; facciamo in particolare riferimento ai salariati che operavano nel settore dei lavori domestici. Grazie ora all’intervento del governo, dal gennaio 2015 anche questa categoria di persone sarà coperta.
Per altro verso, secondo delle cifre del Dipartimento del Lavoro statunitense (Lowrey, 2013), nel 2007 i lavoratori che ottenevano il salario minimo o una cifra ancora minore erano 1,7 milioni; nel 2012 tale cifra era più che raddoppiata, salendo a 3,6 milioni, mentre diversi altri milioni di persone lavoravano alla stessa data per un salario di poco superiore.
Immigrazione e bassi salari degli americani
È in discussione, peraltro da molto tempo, una legge che regolarizzerebbe circa 11 milioni di lavoratori immigrati entrati a suo tempo illegalmente nel paese. Un articolo di due ricercatori (Clemens, Rich, 2013) cerca di mostrare come i dipendenti statunitensi con bassi salari non sarebbero danneggiati dalla legge, ma ne trarrebbero in qualche modo invece dei benefici.
I due autori portano diverse motivazioni a favore della loro tesi. Alcune di esse riecheggiano in qualche modo il dibattito che si è sviluppato a suo tempo anche in Italia sulla questione.
Intanto gli immigrati, dicono gli studiosi, non sono soltanto lavoratori, ma anche consumatori ed essi contribuiscono a far aumentare le vendite, e quindi l’attività e l’occupazione, in tutti i settori dell’economia. Poi, molti di essi hanno spirito imprenditoriale, avviano molte nuove imprese e contemporaneamente contribuiscono a rendere molti servizi di base più abbordabili economicamente per gli americani.
Peraltro molte ricerche, illustrate sempre dagli autori, mostrano che l’immigrazione non ha alcun effetto negativo sul livello dei salari dei lavoratori statunitensi a bassa remunerazione. Per altro verso, gli immigrati in generale non competono sul mercato con i lavoratori indigeni, ma sono ad essi complementari. Ad esempio, una larga parte delle imprese agricole avrebbe dovuto essere automatizzata, o avrebbe dovuto chiudere i battenti, se non fosse stato per la possibilità di impiegarvi della forza lavoro venuta da lontano.
La legalizzazione della loro posizione, poi, aiuterebbe in diversi modi l’economia nazionale. Così essa permetterebbe a tali lavoratori di cercare delle occupazioni che siano più adatte alle loro competenze e capacità, aumentando così la produttività della forza lavoro ed anche per questo verso i guadagni di tutti gli americani.
Alcune tendenze generali
Alcuni trend più generali che si rilevano sul mercato del lavoro statunitense sono la progressiva scomparsa dei lavori a reddito medio, la stagnazione delle retribuzioni, la crescente diseguaglianza negli stessi redditi. Su questi temi segnaliamo intanto un articolo recente di D’Andrea Tyson, 2013 e quelli di altri.
-L’autore ricorda come ancora oggi il livello corrente della disoccupazione sia più elevato che nel 2007 per tutte le classi di età, i livelli di scolarità, il tipo di occupazione, il sesso, il gruppo etnico di appartenenza. Il numero delle persone disoccupate, sottoccupate o che hanno abbandonato, ormai scoraggiati, la ricerca di un’occupazion sono oggi circa 22 milioni (“Schumpeter”, 2013), una cifra molto rilevante. Se considerassimo nel conto anche le persone in carcere o sotto le varie forme di custodia cautelare, persone il cui numero appare molto elevato nel paese, avremmo un quadro ancora più pesante.
In ogni caso, come sottolineano D’Andrea Tyson e Lund, ci sono oggi negli Stati Uniti due milioni di posti di lavoro in meno di quando la recessione è iniziata cinque anni fa.
-Comunque il 60% di tutti i posti di lavoro perduti durante la recessione hanno riguardato i gruppi a reddito medio; gli stessi gruppi pesano soltanto per meno di un quarto sull’aumento di occupati durante la ripresa, mentre i posti di lavoro con bassi salari e bassa qualificazione, compresi i part-time, hanno contato invece per metà di questi guadagni.
-Tra il 2007 e il 2012 i salari medi orari nel settore privato sono cresciuti in tutto solo dell’1,2%. Ma essi sono diminuiti per il 70% degli occupati, in particolare per quelli con le paghe più basse.
-Un trend specifico da sottolineare, che dura sin dalla fine degli anni settanta, riguarda il fatto che la crescita dei salari tende ad essere comunque inferiore, anche in misura rilevante, a quella della produttività. Come sottolinea sempre Greenhouse, mentre tra il 1973 e il 2011 la produttività del lavoro è cresciuta dell’80%, il valore della retribuzione mediana è aumentato solo di un ottavo di tale cifra. Dal 2000 ad oggi la produttività è poi aumentata del 23%, mentre le paghe orarie sono rimaste stagnanti.
-Incidentalmente, Alperovitz sottolinea come 400 persone da sole, negli Stati Uniti, posseggano oggi una ricchezza complessivamente maggiore dei 180 milioni di cittadini più poveri del paese. Per altro verso, il distacco tra le retribuzioni dei grandi manager e quelle dei lavoratori ai più bassi gradini della scala aziendale oggi è di frequente di diverse centinaia di volte, mentre quaranta anni fa e più era “solo” di poche decine.
-Un recente articolo (The Economist, 2012) sottolinea un altro aspetto importante del mercato del lavoro: a parità di incarichi, le donne lavoratrici continuano anche di recente a guadagnare meno degli uomini, pratica peraltro abbastanza nota e diffusa in tutto il mondo.
Questo appare comunque vero negli Stati Uniti in quasi tutti i tipi di occupazione. La differenza più sostenuta si trova curiosamente tra i top manager e i manager finanziari delle imprese. Un amministratore delegato donna guadagna in media ancora oggi soltanto il 69% di un equivalente maschio.
-Per quanto riguarda la quota dei salari sul Pil, è noto che essa era pari nel paese al 50% del totale nel 1958, mentre nel 2012 eravamo ormai scesi al 42%. Ma tale cifra, come ci ricorda ad esempio Greenhouse (Greenhouse, 2013), non rende ancora conto pienamente della situazione, se si considera che una rilevante e crescente quota dei salari globali va all’1% degli addetti: professionisti di Wall Street, top manager, stelle di Hollywood, atleti professionisti.
-Un altro autore (Bernstein, 2013) trova una correlazione positiva abbastanza importante tra il livello della disoccupazione e la quota del lavoro sul Pil nel tempo. Dato anche il sempre più ridotto potere negoziale dei lavoratori, in relazione in particolare all’indebolimento progressivo dei sindacati, negli Stati Uniti solo quando il mercato si trova in una situazione di pieno impiego o nei suoi pressi, la quota dei salari sul reddito tende a crescere.
Conclusioni
Il quadro delineato appare in prospettiva come poco incoraggiante non soltanto sul piano sociale, ma anche su quello del futuro dello stesso sviluppo economico. Si tratta, per altro verso, di una situazione alla fine complessivamente difficile da gestire. Quando il governo Obama, in genere abbastanza sensibile ai temi del lavoro, vuole cambiare qualcosa nella legislazione, si tratti di regolarizzare gli immigrati, di alzare il salario minimo, di aumentare i diritti sindacali, o di cercare di migliorare il sistema scolastico, esso si trova di fronte ad un’opposizione molto forte del partito repubblicano, nonché di molti interessi consolidati. La fuoriuscita dalla crisi, per quel tanto che si va effettivamente verificando nel paese, non sta portando in generale grandi benefici al mondo del lavoro, se non alle fasce molto alte dello stesso.
Testi citati nell’articolo
-Alperovitz S., How to democratize the US economy, www.thenation.com, 8 ottobre 2013
-Bernstein J., Why labor’s share of income is falling, www.nyt.com, 9 settembre 2013
-Clemens M., Lynch R., Low-wage workers will benefit from immigration reform, too, www.newrepublic.com, 29 aprile 2013
-Crocks E., Us manufacturers “reshoring” from China, www.ft.com, 24 settembre 2013
-D’Andrea Tyson L., The quality of jobs: the new normal and the old normal, www.nyt.com, 20 settembre 2013
-D’Andrea Tyson L., Lund S., Game-changing investments for the U. S., www.nyt.com, 18 ottobre 2013
-The Economist, America’s gender wage gap, www.economist.com, 17 aprile 2012
-Greenhouse S., Our economic pickle, www.nyt.com, 12 gennaio 2013
-Harding R., Us has lost 2m clerical jobs since 2007, www.ft.com, 1 aprile 2013
-Lowrey A., Living on minimum wage, www.nyt.com, 15 giugno 2013
-Luce E., Why the US is looking to Germany, www.ft.com, 14 aprile 2013
-“Schumpeter”, Nor open for business, The Economist, 12 ottobre 2013
-Song Jung-a, Asian smartphone makers seek to cut costs, www.ft.com, 1 ottobre 2013
-Uchitelle L., Factory job gains, but wages retreat, www.nyt.com, 29 dicembre 2011