La firma dovrebbe arrivare il 23 marzo 2016. La scommessa politica di Santos è stabilizzare la svolta neoliberale nell’economia, beneficiando dei capitali internazionali una volta pacificato il Paese
All’anniversario dei 15 anni del Plan Colombia, il piano economico militare colombo-americano concepito per risollevare militarmente il paese, i sorrisi e le strette di mano tra Obama e il presidente colombiano Santos sono stati interpretati come il via libera al nuovo piano di aiuti, Paz Colombia, questa volta orientato al post-conflitto.
È il segno ormai evidente che il negoziato dell’Avana tra la guerriglia delle FARC e il Governo è irreversibile e a Bogotá lo scenario politico si riposiziona in vista di quanto accadrà nella seconda parte del 2016.
I fatti: nel settembre 2015, ormai raggiunto l’accordo per il sistema di giustizia transicional per gli attori coinvolti nel conflitto armato, Santos stringe la mano di alias Timochenko (attuale numero uno della guerriglia) e annuncia la data del 23 marzo 2016, per la firma dell’accordo finale. Siamo quindi ormai a poco più di un mese dalla scadenza. Sebbene l’agenda preveda che l’accordo debba essere completo su tutti i sei punti del negoziato – politica rurale, coltivi illeciti, partecipazione politica, riparazione alle vittime, fine dello scontro militare e refrendación popolare dell’accordo – e non possa essere parziale, era evidente che l’accordo giuridico rappresentasse il vero scoglio negoziale. Il corridoio capace di dare garanzia alle FARC di non apparire come sconfitte e di non violare i vincoli del Trattato di Roma, che impediscono di amnistiare (de iure o de facto) certi tipi di crimini, era strettissimo. L’accordo è noto per sommi capi, ma non nel dettaglio, prevede un sistema di pena con restrizione della libertà ma non incarcerazione “tradizionale”, pieno diritto alla verità e alla non ripetizione, un ventaglio di pene alternative e la creazione di un Tribunale Speciale. Alla stesura dell’accordo hanno partecipato giuristi nazionali e internazionali, che hanno lavorato di lima al fine di redigere un testo capace di accontentare il Tribunale Penale Internazionale.
Rimangono due punti dell’agenda negoziale da definire formalmente: quale sarà il meccanismo capace di legittimare l’accordo, e la fine del conflitto (è bene ricordare che la regola della negoziazione era dialogo senza cessate il fuoco).
Su questo secondo punto, si tratta di definire le aree di concentrazione degli insorti, per la successiva consegna e distruzione delle armi e il sistema di reincorporazione alla vita civile.
Sul primo punto, invece, lo scontro è più acceso: il governo ha approvato l’anno scorso una legge che regola il plebiscito, cioè un voto sì-o-no sull’intero accordo (con minime esigenze di quorum), ora al vaglio della Corte Costituzionale. La guerriglia insiste nel chiedere un’assemblea costituente, sulla base del precedente dell’accordo con il Movimento M19 (un altro movimento insorgente nato nel 1970 a seguito di uno scandalo elettorale) che condusse alla Costituzione del 1991 (in vigore).
Se si mantiene la data del 23 marzo, il governo deve fare un tour de force istituzionale legiferando in modo tale da rendere possibile l’implementazione degli accordi e soprattutto, deve spendere tutto il suo capitale politico per ottenere l’approvazione del plebiscito, che sarà l’ultima arma che proverà a usare la destra estrema che si oppone alla negoziazione. Nella congiuntura attuale la popolarità dell’esecutivo, a causa di alcune scelte politiche di privatizzazione e in appoggio del capitale internazionale è abbastanza basso, complicando non poco il panorama.
Se le cose andassero a buon fine, la Colombia si ritroverebbe circa 7000 effettivi (più eventuali criminali comuni che approfittino dell’accordo per avere benefici penali) da riportare alla vita civile, a cui si aggiunge una eredità storica di 5 milioni di desplazados, che entro il 2020 secondo la Ley de Víctimas approvata nel 2011, dovranno essere risarcite delle terre da cui sono stati espulsi e ripristinati i diritti sociali violati.
Per finanziare le spese del post conflitto dovrebbero arrivare quattro fondi, uno dell’Inter American Development Bank, uno degli Stati Uniti (il già citato Paz Colombia), uno dell’Unione Europea e uno della Banca Mondiale. Nonostante l’appoggio di Obama, l’effettiva approvazione del pacchetto di aiuti non è scontato: il Plan Colombia aveva una componente economico militare (vendita di armamenti) che piaceva ai repubblicani, mentre attualmente la vicinanza a Uribe del GOP rende l’esito non scontato. Le esigenze di spesa (15% del PIB solo per la Ley de Víctimas) peseranno brutalmente e l’aiuto finanziario è urgente.
La scommessa politica di Santos è stabilizzare la svolta neoliberale nell’economia, beneficiandosi dei capitali internazionali una volta pacificato il Paese, e manovrando l’incorporazione di vittime e insorti principalmente attraverso l’inclusione finanziaria (finanziando “progetti” imprenditoriali) o la subordinazione all’agro-industria, sul modello della palma, dove piccoli coltivatori sono in una specie di rapporto di lavoro parasubordinato con il grande produttore, in una catena che sposta il rischio dall’imprenditore al lavoratore. Alternativamente, punta a mantenere i processi “biopolitici” di gestione dei gruppi sociali attraverso le politiche di sussidio focalizzato, che furono introdotte proprio con il Plan Colombia, attraverso il caso simbolo di Familias en Acción, che rappresenta lo strumento fondamentale di gestione del consenso elettorale.
Si tratta di una scommessa probabilmente persa: il quadro di fragilità finanziaria è preoccupante (il debito estero è cresciuto ai livelli dell’ultima crisi finanziaria); con le turbolenze globali in corso e un’economia imbottita di Trattati di Libero Commercio, Santos potrebbe trovarsi a tagliare brutalmente la spesa per colpire la domanda interna e riequilibrare gli squilibri esterni (sul modello della periferia europea per intenderci), rimanendo senza risorse per pacificare potenziali focolai di conflitto sociale.
La sorte politica della nuova sinistra che includa le FARC dipenderà essenzialmente da tre fattori. Innanzitutto, peserà la possibilità che i negoziati segreti in corso con la guerriglia guevarista dell’Ejercito de Liberación Nacional (l’altro braccio armato attualmente operante nel Paese, dove milito il prete Camilo Torres) passino alla fase pubblica, rafforzando i temi di un’agenda alternativa nell’opinione pubblica. Secondariamente, dipenderà dalla capacità effettiva del governo di controllare il territorio: la presenza di gruppi paramilitari (ribattezzati bacrim o bande criminali per toglier loro il cappello politico) e il loro eventuale sviluppo se i conflitti sociali finora sopiti dovessero manifestarsi in modo sistematico, potrebbe riaprire una pagina vergognosa della storia colombiana, lo sterminio paramilitare del movimento politico Unión Patriótica negli Anni Ottanta, che a seguito del processo di pace allora in corso doveva accogliere i militanti che abbandonassero le armi. Finalmente, dipenderà dal contesto internazionale, tanto economico, per le ragioni sviluppate prima quanto politico, con la crisi della sinistra in tutti gli scenari regionali (meno la Bolivia) e il nuovo vento di destra che spira dal Venezuela e dall’Argentina. Una sorte davvero appesa a un filo.