A pochi giorni dalla chiusura, la conferenza di Copenhagen sembra avviarsi verso il fallimento. Ora sono i paesi più poveri a chiedere maggiori finanziamenti, preparando una controproposta. Mentre la società civile circonda il Bella Centre, cresce il pessimismo tra i negoziatori. Ancora una volta è l’economia a irretire i negoziati
C’era da aspettarselo: la strada dei negoziati di Copenhagen prosegue in salita e si affievoliscono le speranze. Nel frattempo sfilano i primi capi di stato e di governo, mentre monta la protesta sotto una neve battente. La seconda e ultima settimana di lavori si è aperta nel segno dello scontro, con i rappresentanti africani che hanno abbandonato temporaneamente i negoziati per protestare contro il rischio che il testo finale si discostasse troppo dagli impegni presi a Kyoto. Il ‘walkout’ africano di lunedì mattina ha fatto seguito ad un fine settimana molto turbolento, che ha visto la marcia dei movimenti sociali e della società civile terminare con circa un migliaio di persone arrestate. Così, mentre la temperatura si riscalda in una Copenhagen polare, il tempo scorre troppo in fretta. Nei corridoi, durante le pause caffè, ci si scambia qualche parola, ma sembrano tutti convinti che – salvo un’inattesa ed improbabile inversione di tendenza – quest’ anno non ci sarà alcuno accordo in grado di definire un regime internazionale post-Kyoto. Come sottolineato dal ministro dell’ambiente indiano, Kyoto è ormai ‘un malato terminale, se non è già morto’.
In un tentativo di rimescolare le carte, il governo messicano e quello norvegese hanno presentato una proposta comune per la costituzione di un Fondo Verde che serva a finanziare le politiche di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo. Questo green fund dovrebbe essere sostenuto sia da contributi governativi (in base alle emissioni, PIL e popolazione di ogni paese) sia da aste internazionali di crediti. Questo secondo elemento è la vera novità della proposta, perché aiuterebbe a stabilizzare il flusso di denaro che dai paesi del nord globale dovrebbe dirigersi verso il sud (ed eviterebbe ai paesi ricchi di dover fare promesse vincolanti sull’esatto ammontare degli investimenti da versare ai paesi più poveri). Nella proposta si legge che il fondo dovrebbe cominciare con circa 10 miliardi di dollari annuali nel 2012 fino ad arrivare a circa 30-40 miliardi nel 2020.
Però, sono proprio le modalità finanziarie legate alle fluttuazioni dei mercati a rivelare la debolezza della proposta messicano-norvegese. Le aste internazionali vengono inquadrate nel sistema complessivo del cap and trade, che prevede la ripartizione di un certo numero di crediti da carbonio tra tutti i paesi che dovessero firmare l’accordo. Mentre gran parte di questi crediti verranno scambiati liberamente sul mercato internazionale, una porzione fissa verrebbe sottratta dal libero commercio e messa all’asta. Così come quelle di beneficenza, queste aste internazionali avrebbero lo scopo specifico di incassare contanti da parte degli acquirenti (i paesi industrializzati che hanno più bisogno di inquinare) per finanziare il Fondo Verde che si occuperà di sostenere le politiche di adattamento e mitigazione nei paesi in via di sviluppo. In realtà, però, questo meccanismo non risolve il problema principale sottolineato dai paesi del sud globale: il commercio delle emissioni non garantisce continuità e crescita dei finanziamenti perché dipende dal prezzo di mercato dei crediti. Infatti, nessuno può prevedere quale sarà il costo dei crediti, né tanto meno la loro capacità di aumentare di valore nel tempo. Anche la Banca Asiatica per lo Sviluppo ha definito ‘insufficienti’ gli investimenti promessi dai paesi industrializzati ed ha sottolineato come l’accordo sui finanziamenti e la sostenibilità del post-Kyoto siano legati in modo indissolubile (http://en.cop15.dk/news/view+news?newsid=2969). D’altronde il prezzo dei crediti da carbonio può solo stabilizzarsi nell’ottica di un regime a lungo termine che divenga vincolante per la comunità internazionale. Altrimenti, chi comprerebbe mai dei crediti che potrebbero non valere nulla nel giro di pochi anni?
Ancora una volta è l’economia ad irretire i negoziati di Copenhagen. Siamo sempre allo stesso punto: finché continueremo ad adottare modelli economici incentrati sul libero mercato per allocare le risorse, è improbabile che si esca dal tunnel. I paesi meno industrializzati non accetteranno mai un accordo che non preveda un impegno concreto ed un flusso sicuro e crescente di risorse, soprattutto ora che persino l’accordo sulla conservazione delle foreste è stato (almeno temporaneamente) rimandato per i costi ‘troppo elevati’ che avrebbe per Europa e America http://en.cop15.dk/news/view+news?newsid=2968). E gli africani non sono soli, se è vero quanto affermato dall’Unione Africana che Cina ed India sono pronte ad affossare una qualunque bozza di trattato che non riceva il placet dei paesi meno sviluppati (http://en.cop15.dk/news/view+news?newsid=2962). Per questa ragione saranno proprio i rappresentanti della UA ad offrire una controproposta in questi giorni e sono in molti ad augurarsi (a cominciare dal premier inglese Gordon Brown, arrivato in anticipo alla conferenza) che l’iniziativa del Sud globale possa evitare il naufragio della COP 15. Ma i tempi, ormai, sono strettissimi.
Nel frattempo, mentre la questione del debito climatico dei paesi più ricchi nei confronti di quelli più poveri torna prepotentemente sulla scena, le proteste di attivisti, movimenti e cittadini si diffondono per il mondo. Oltre 4,000 iniziative nella sola giornata di Sabato secondo Greenpeace (http://www.reuters.com/article/idUSGEE5BB07F20091212). Oggi (16 dicembre) migliaia di manifestanti hanno circondato il Bella Centre, il palazzo dove si svolgono i negoziati, avvolti dalla neve e dal gelo. La polizia ha colpito ancora durante la giornata, fermano centinaia di persone in varie stazioni della metropolitana. Ma la società civile non si arrende e promette battaglie in tutto il mondo anche per i prossimi mesi. Si comincia già a guardare oltre questo summit, perché nessuno crede più nella possibilità di arrivare ad un accordo.
E la scienza? È rimasta in un angolo, sepolta dai cumuli di carte che vengono stampate, corrette ed emendate ogni ora. L’IPCC chiede infatti una riduzione di emissioni tra il 25% ed il 40% entro il 2020 per evitare l’aumento di 2 gradi della temperatura media del pianeta. Ma uno studio appena pubblicato rivela che, mettendo insieme le proposte fatte finora dai principali paesi inquinanti, la riduzione ammonterebbe ad un 8-12% (http://en.cop15.dk/news/view+news?newsid=2959). Meno della metà di quanto sarebbe necessario. Chi pagherà le conseguenze di un target insufficiente?
L’autore è promotore della campagna Global Reboot, resettiamo il sistema (www.globalreboot.org)