In Europa qualcuno ha già provato ad associare il nome di Cipro tra i casi di “brillante riuscita” di quella feroce politica di austerità che da anni inchioda l’eurozona. Ma è stato un tentativo maldestro
Con l’inizio del 2016, Cipro è uscita anche ufficialmente dalla crisi. Il ministro delle Finanze del paese Harris Georgiades ha già annunciato che il suo governo rinuncia ai 350 milioni dell’ultima tranche del debito di 10 miliardi ricevuto nel 2013. Cipro non ne ha più bisogno.
Le previsioni della Commissione Europea dicono che l’economia dell’isola ha già ripreso a sollevarsi, dopo il feroce colpo infertole con il bail-in delle banche esattamente tre anni fa. Il tasso di crescita del PIL è previsto dell’1,5% quest’anno e del 2% l’anno prossimo. La crescita in gran parte è dovuta all’ottimo andamento del turismo, ma subito dopo, al secondo posto, continuano ad esserci i servizi finanziari, cioè quelle stesse banche che avevano provocato la crisi del 2013.
A sorpresa, buona parte del traffico finanziario continua a riguardare capitali russi in entrata all’eurozona. Tre anni fa Berlino aveva scatenato una dura offensiva mediatica contro la collaborazione finanziaria tra Cipro e Mosca, accusando Nicosia di riciclare capitali sporchi degli oligarchi. Seguirono due ispezioni di MoneyVal, l’organo antiriciclaggio del Consiglio d’Europa, che assolsero l’isola ma provocarono lo spostamento dei capitali russi verso le banche del Baltico, in gran parte controllate da istituti tedeschi. Ora prevale il flusso contrario: per i russi, Cipro continua a essere il paese preferito dell’eurozona.
Alla fine dell’anno in corso, secondo la Commissione, il debito pubblico scenderà al 99,9% del Pil e il deficit al 4,9%. Il tasso di disoccupazione scenderà alla fine dell’anno al 14,5%, un calo importante rispetto al picco del 19% raggiunto nei primi due anni della crisi. Ma rimane tuttora molto lontano rispetto al quel incredibile 3-4% che regnava nell’isola in tutto il periodo pre-crisi.
In Europa qualcuno ha già provato ad associare il nome di Cipro tra i casi di “brillante riuscita” di quella feroce politica di austerità che continua a tenere inchiodata da molti anni l’eurozona. Ma è stato un tentativo maldestro ed è durato poco. La crisi cipriota, notoriamente, è stata una crisi interamente bancaria, dovuta alla scarsa capacità di controllo mostrata del governo precedente rispetto alle speculazioni bancarie con i bond greci. Un vero e proprio scandalo, con precisi responsabili politici ed economici, alcuni dei quali già in galera.
I magistrati ciprioti indagano da tempo sul comportamento del banchiere greco Andreas Vgenopoulos, all’epoca a capo della Popular Bank of Cyprus, la banca che ha maggiormente contribuito a scatenare la crisi a causa della sua eccessiva esposizione ai bond greci. Dopo tanti tentativi andati a vuoto, finalmente il 4 febbraio la giustizia greca ha accettato la richiesta dei ciprioti di poter interrogare l’indagato. La stampa cipriota, che più volte aveva accennato alla presenza di un preciso gruppo di magistrati ateniesi che si spendevano in difesa del banchiere, ha accolto con soddisfazione la notizia, sottolineando che poco tempo prima il ministro della Giustizia di Cipro Ionas Nicolaou aveva sottoposto la questione al suo omologo greco. In altre parole, Atene si è attivata e ha voluto mandare a Nicosia un segnale preciso: con il governo Tsipras l’aria è cambiata.
Archiviata quindi la sorveglianza della troika, Nicosia ha mano libera per dispiegare i suoi ambiziosi progetti in campo energetico. Il 25 gennaio si è tenuta nella capitale cipriota un incontro di vertice con la leadership di Atene e Tel Aviv. Dall’incontro è uscito un impegno concreto verso lo sviluppo della cooperazione regionale tra i tre paesi in termini strategici e in campo politico ed economico. Per rendere più concreto l’impegno, si punta verso un “sottosistema regionale di cooperazione e sicurezza” pronto ad allargarsi anche ad altri stati della regione, primo fra tutti l’Egitto, ma con contatti molto incoraggianti con la Giordania, la Palestina e –si spera- anche il Libano.
L’Egitto aveva partecipato qualche mese prima ad Atene in un vertice analogo con i ciprioti e i greci. La sua assenza dal vertice di Nicosia era dovuta alla cautela con cui la diplomazia del Cairo gestisce i rapporti con lo stato ebraico. Il Cairo non solo approva e promuove la cooperazione regionale, ma aspira anche a svolge un ruolo da protagonista.
Sia Cipro che la Grecia hanno mostrato grande attenzione affinché il veloce riavvicinamento con Israele non fosse interpretato come un cambio di rota rispetto al tradizionale sostegno verso la causa palestinese. Il messaggio sembra sia stato recepito: a dicembre, in seguito alla visita di Tsipras a Ramallah, Abu Mazen ha visitato Atene dove ha presenziato al voto unanime del Parlamento greco in favore del riconoscimento dello stato di Palestina. Secondo concordi testimonianze diplomatiche, né il Presidente palestinese né Netanyahu hanno mai mostrato fastidio per la cordialità dei rapporti intrattenuti con l’altra parte.
Al centro della cooperazione c’è ovviamente il settore dell’energia. Nelle Zone Economiche Esclusive di tutti e tra i paesi (Cipro, Israele, Egitto) sono stati trovati importanti giacimenti di idrocarburi, il cui mercato naturale di sbocco è quello europeo. Il vertice di Nicosia ha deciso di creare un comitato tecnico per studiare la fattibilità di un gasdotto sottomarino capace di trasportare le riserve fino alla terraferma greca, dove potrebbe collegarsi con il gasdotto TIP, che porterà il gas azero fino all’Italia, attraverso la Turchia e la Grecia.
Gran parte dei rilievi sottomarini si stanno già registrando, peraltro, durante i lavori in corso per un’altra importante opera, uscita rafforzata dalla trilaterale. Si chiama Euroasia Interconnector ed è un progetto greco-cipro-israeliano che ha già incassato luce verde dalla Commissione Europea. Collegherà Israele e Cipro con Creta e la lì potrà connettersi con la rete di energia elettrica europea, con una potenza in grado di raggiungere i 2.000 MW. Anche se il cavo sottomarino sarà in grado di trasportare elettricità in tutte e due le direzioni, è evidente che, una volta ultimato nel 2020, segnerà un altro passo importante nell’integrazione dei mercati energetici dei tre paesi. Apre inoltre la strada alla possibilità che i paesi produttori del Mediterraneo possano esportare energia direttamente sotto forma di elettricità e non solo come materia prima.
Al centro però rimane lo sfruttamento congiunto delle riserve energetiche sottomarine. Il progetto già stato abbozzato agli inizi del decennio, praticamente dopo l’assalto delle forze speciali israeliane alla nave turca Mavi Marmara e l’uccisione di 9 manifestanti diretti verso la Striscia di Gaza. Pochi mesi prima, la nave esplorativa della società texana Noble Energy aveva scoperto ingenti depositi di idrocarburi nel deposito sottomarino Leviathan nella Zona Economica Esclusiva di Israele e, quasi contemporaneamente, nel deposito Afrodite di Cipro.
Erano le condizioni ideali per Nicosia e Tel Aviv per incominciare una collaborazione che di fatto andava ben oltre il settore energetico. Dopo un intenso scambio di visite al livello più alto, Israele e Cipro hanno sottoscritto accordi di partnership strategica e collaborazione anche nel campo della difesa. Di fatto, gli aerei israeliani potevano condurre esercitazioni di volo sopra lo spazio aereo cipriota.
Mentre la Noble e l’israeliana Delek cominciavano a pensare all’estrazione, la questione più importante che si è posta è stata quella di come trasportare questo gas presso i futuri clienti europei. C’è la probabilità che il gasdotto sottomarino verso la Grecia si dimostri un’impresa lunga e costosa. Per questo viene attentamente studiata anche la possibilità di liquefare il gas e poi trasportarlo via nave. Per gli israeliani, costruire un impianto di liquefazione sul proprio territorio è un grande rischio, per evidenti ragioni di sicurezza. I ciprioti hanno pensato di ospitare loro l’impianto, edificabile in un triennio.
Ma la domanda di fondo all’epoca era un’altra: la stima della capacità di Leviathan è di 472 miliardi di metri cubi di gas, quella di Afrodite tra i 5 e gli 8 trilioni di piedi cubici di gas, più altre risorse nel giacimenti israeliani Tamar e Dalit. Quantità consistenti. Ma con l’abbassamento del prezzo degli idrocarburi, quanto conviene investire in mega strutture?
Tutto è cambiato con la clamorosa scoperta del giacimento Zahr alla Zona Economica Esclusiva dell’Egitto, nel settembre scorso. Il giacimento egiziano, scoperto dall’ENI dopo che altre società non vi avevano trovato nulla, ha rilanciato con forza tutto il complesso energetico del Mediterraneo orientale.
Per prima cosa, Zahr si trova vicino alla linea che idealmente divide la ZEE egiziana da quella cipriota. Nicosia ha visto quindi aumentare di colpo l’interesse per le esplorazioni nei suoi blocchi e si prepara a una nuova tornata di licenze. Società come la francese Total, fino a qualche mese prima pronte ad abbandonare gli sforzi, sono tornate sui loro passi. La BP è entrata nel capitale di Afrodite mentre ENI, in società con la coreana Kogas, non se ne era mai andata.
L’ENI ha voluto affrontare la questione dello sfruttamento e della commercializzazione in maniera organica. L’idea che Claudio Descalzi ha ripetuto a tutti i governi interessati, compreso quello italiano, è di sfruttare gli impianti per la liquefazione già esistenti in Egitto, in modo da creare un “corridoio energetico” dalla costa sud del Mediterraneo verso l’Italia e la Grecia. L’importante, per il CEO dell’ENI, è gestire tutto il complesso energetico del Mediterraneo orientale in maniera cooperativa, portando avanti progetti concordati, coerenti ed economicamente convenienti.
Il grande escluso della partita è la Turchia. Negli anni precedenti Ankara si è trovata all’angolo nel grande gioco delle esplorazioni sottomarine. Agli inizi del decennio ha tentato di rilanciare la sua con un patetico accordo con lo stato fantoccio da lei sostenuto e finanziato nei territori settentrionali di Cipro. Per circa un anno la nave esplorativa turca Barbaros ha scandagliato l’area sottomarina tra Cipro e la Turchia, senza però trovare nulla. A quel punto Erdogan ha deciso di tornare a usare le maniere forti ed ha inviato il Barbaros, accompagnato da un bel numero di fregate, a esplorare a sud delle coste dell’isola, all’interno della ZEE cipriota. Una provocazione inutile, che è stata condannata da Bruxelles e persino da Washington.
I turchi vogliono inserirsi nella collaborazione regionale in due maniere. La prima è quella di prestarsi come la soluzione più economica per il gas israeliano, costruendo un gasdotto sottomarino che, anziché espandersi verso la lontana Grecia, dovrebbe raggiungere con maggiore facilità le coste turche. E da lì connettersi alla rete di condotti che attraversa il paese. Il vicepresidente americano John Biden più volte si è dichiarato favorevole a questa soluzione, nel costante quanto disperato tentativo di Washington di tenere la Turchia ancorata all’Occidente, ad ogni costo.
Ma questa volta l’impresa è più difficile del solito. Anche se formalmente fossero ristabiliti i rapporti diplomatici tra Ankara e Tel Aviv, rimangono comunque aperti seri problemi ancora insoluti. Intanto, il progetto di gasdotto turco riguarda solo il gas israeliano, visto che né l’Egitto né la Repubblica di Cipro hanno rapporti diplomatici con Ankara. La Grecia, poi, da quasi mezzo secolo non può definire la sua Zona Economica Esclusiva nell’Egeo perché la Turchia avanza rivendicazioni su quasi la metà dell’arcipelago e si rifiuta di risolvere la controversia nelle competenti Corti internazionali.
Anche sul piano politico, la normalizzazione dei rapporti di Israele con il regime islamista turco non è facile. Pur volendo lasciare da parte la costante retorica antisemita di Ankara, rimane tuttora prevalente la volontà di Erdogan e del suo partito di ergersi come difensori dei movimenti islamisti della regione, primo fra tutti quello del Fratelli Musulmani. Il che pone l’enorme problema di Hamas, ramo palestinese della Fratellanza, acerrimo nemico degli israeliani ma anche del governo militare egiziano. Di contro, Israele mantiene da decenni ottimi rapporti di collaborazione con i kurdi, in tutte le loro componenti, compreso il PKK e i suoi alleati siriani.
L’aggressività turca verso Mosca ha ulteriormente complicato le cose. Gli israeliani non hanno alcun interesse a essere coinvolti in un confronto, anche indiretto, con i russi: Tel Aviv e Mosca hanno più volte concordato i rispetti campi di attività nella crisi siriana, con Putin a dare precise garanzie anche sul comportamento iraniano.
Il 27 dicembre scorso il giornale turco Hurriyet aveva pubblicato un’intervista all’ex direttore generale del ministero degli Esteri israeliano Alon Liel, secondo il quale “Ankara ha quattro settimane per ristabilire pieni rapporti con Israele. Passato questo lasso di tempo, gli sviluppi renderanno tale riavvicinamento superato e inutile”. Le quattro settimane erano quelle fino alla trilaterale di Nicosia del 25 gennaio. La scadenza è passata e la Turchia continua a restare all’angolo.