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Cinque piazze contro le disuguaglianze

Il principio di solidarietà e la critica alla disuguaglianza sono stati temi chiave nelle manifestazioni dei mesi scorsi, con le richieste di andare oltre l’individualismo, rilanciare lo Stato sociale, realizzare nuove politiche ugualitarie.

Molte persone sono andate in piazza per chiedere diritti, pace, una nuova cultura. Lo ricorda e lo analizza qui bene Mario Pianta (https://sbilanciamoci.info/paese-piu-povero-cinque-piazze-che-si-parlano/) qualche settimana fa. Si tratta di manifestazioni collettive, gruppi di individui che adottano un metodo pacifico di rivendicazione dei propri diritti. Sono persone che si riuniscono per denunciare pubblicamente e visibilmente condizioni di vita economiche e sociali svantaggiose e in contrasto con il bene comune. Alcuni ne sono vittime direttamente interessate, come nel caso dello sciopero generale di lavoratrici e lavoratori del 17 novembre. Altri sono cittadini che si uniscono alle richieste di vita migliore di una fascia di popolazione più debole. Altri ancora si fanno carico in prima persona della denuncia di condizioni drammatiche che non li coinvolgono direttamente, come nel caso della marcia della pace ad Assisi il 10 dicembre per il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi.

Tutti sono certamente espressione di un rifiuto della deriva di tipo individualista che sempre più frequentemente è promossa dal discorso pubblico. Abbiamo assistito negli ultimi decenni a varie tendenze sia nelle affermazioni di principio sia nelle pratiche istituzionali che puntano verso aspetti prevalentemente individualistici, con una compressione degli aspetti collettivi, precedentemente prevalenti. Una delle conseguenze più rilevanti è l’impatto sulle forme di solidarietà che si stanno radicando in Europa. Le forme culturali contemporanee di individualismo e l’economia politica del capitalismo neoliberale sostengono infatti una legittimazione delle disuguaglianze, antitetica alla solidarietà, e con un ribaltamento di quello che è stato il modello sociale europeo. La prospettiva individualistica, infatti, non è sempre stata parte delle nostre società che anzi affonda le sue radici nella solidarietà, intesa non come sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, ma come determinazione di perseguire il bene comune.

I fondamenti del modello sociale europeo, che dalla metà dello scorso secolo ha caratterizzato, nonostante l’eterogeneità dei sistemi di welfare nazionali, le forme di stato sociale più diffuse in Europa richiamano proprio la responsabilità della società nel suo insieme di produrre sicurezza economica e sociale per ogni persona, indipendentemente dalla sua posizione sociale e dai mezzi che possiede. Sono espressione di questo modello i sistemi pensionistici retributivi, i servizi sanitari universali e capillari, i servizi educativi gratuiti e di qualità. Per fare un esempio concreto, le pensioni pubbliche – garantite a tutti coloro che raggiungono una certa età – esprimono il riconoscimento di un diritto, quello alla pensione, assicurazione per la vecchiaia, che si fonda sul riconoscimento della natura della persona umana e sulla solidarietà come un valore che lega i cittadini tra loro. Nell’attuazione delle politiche pubbliche la solidarietà non è solo un principio generalizzato di orientamento morale, ma acquisisce una base giuridica di diritto. Nei decenni successivi al secondo dopoguerra il modello sociale europeo ha garantito un certo livello di qualità della vita consentendo alle generazioni successive di ritenere le proprie condizioni sociali economiche migliori di quelle della generazione precedente. Ha anche portato a una diminuzione del livello di disuguaglianze, attraverso la redistribuzione promossa dall’accesso gratuito a servizi universalistici finanziati dalla fiscalità progressiva. In sostanza, ai servizi accedevano tutti allo stesso modo, ma li pagava in proporzione maggiore chi era più ricco.

La critica neoliberale più forte a questo modello di solidarietà è stata certamente la sua inefficienza. Considera del tutto improduttivo e privo di rendimento economico il fatto che alcuni non paghino per un servizio che utilizzano. Viene anche avanzata l’idea che sia sbagliata questa forma di solidarietà. Infatti, secondo questa posizione è intrinsecamente giusto dal punto di vista etico e conveniente in termini di efficienza consentire che sia la libera interazione delle volontà individuali in un contesto concorrenziale – il mercato – a determinare chi accede a cosa, ossia cosa viene prodotto in termini di beni e servizi e come deve essere distribuito. La logica è quella dell’uguaglianza delle opportunità, tipica versione liberale dell’ugualitarismo: nessuno gode di immotivati vantaggi o di un trattamento di favore. In altri termini la vita è una gara, partiamo dalla stessa linea di partenza e chi è più bravo, chi è più abile, chi si impegna di più, si allena, lavora duramente, arriva in una posizione migliore. Insomma, bisogna meritarsi ciò che si ha.

Questa visione che mette al centro l’efficienza, la competizione e il merito porta nello spazio del mercato molto di quanto era stato sviluppato dallo stato sociale. I servizi pubblici sono stati progressivamente sottofinanziati e ridimensionati, resi in grado di rispondere solo marginalmente a quelli che erano gli obiettivi originari. D’altro canto si diffondono e crescono società private che offrono servizi essenziali nell’ambito della salute, della sicurezza, dell’istruzione a cui però possono accedere solo coloro che hanno le risorse economiche per farlo. Chi sono? I vincitori della gara, i meritevoli.

Si potrebbe concludere quindi che questo sia giusto e conveniente e i movimenti delle piazze da cui si è partiti siano solo espressioni di chi nella gara è perdente e non accetta la sconfitta. In realtà non è così. E si possono avanzare molte obiezioni. Qui ne proponiamo tre. La prima riguarda l’ingiustizia. La disuguaglianza che caratterizza la nostra società non è affatto il risultato di una gara della vita equa. I risultati non sono altro che espressione delle posizioni disuguali di partenza e ci sono molte persone che godono di immotivati vantaggi. Vantaggi che non riguardano i più svantaggiati che accedono a servizi pubblici gratuiti. L’indebolimento dei sistemi di welfare aggrava la condizione delle famiglie disoccupate o con le peggiori condizioni che di fronte all’aumento del costo della vita sono private di forme di sostegno proprio quando invece ne avrebbero più bisogno. Al contrario sono i benestanti a godere di trattamenti di favore con l’accesso esclusivo a istruzione di qualità, cure tempestive e scrupolose, migliori abitazioni e prospettive sicure sul futuro.

La seconda obiezione riguarda la convenienza. Non è razionalmente conveniente dal punto di vista economico promuovere una società con uno Stato sociale debole. L’aumento delle disuguaglianze ha un forte impatto sui conti pubblici. Al taglio delle spese per lo Stato sociale – considerate un grave peso sulle voci di bilancio – non è corrisposto, come ci si sarebbe potuti aspettare, un miglioramento rilevante del deficit dello Stato. Continuano infatti a essere spesi molti denari pubblici ma in altri capitoli di spesa. Sono i costi che derivano dall’aumento delle disuguaglianze: maggiore diffusione di problemi sociali, aumento della criminalità, diffusione di un senso di sfiducia e di malessere. In sostanza non è vero che nei paesi con meno disuguaglianze si ha un maggiore deficit a causa dell’insostenibilità della spesa sociale sui bilanci pubblici.

La terza obiezione è che chi manifesta in piazza non lo fa per un interesse personale o perché appartiene agli sconfitti. Le piazze si sono riempite di persone che in un’analisi costi-benefici sarebbero più comprensibilmente rimaste a casa a adottare strategie individuali di successo. Sono occupati che senza sciopero non avrebbero rinunciato a una parte della loro retribuzione, ma più efficacemente avrebbero cercato un’occupazione con migliori condizioni. O ancora sono le persone che non hanno nessun interesse a camminare per svariati chilometri per un conflitto bellico che dista molti chilometri dalle proprie case e ha poche possibilità di vederli coinvolti direttamente. Sono individui non razionali secondo la logica del neoliberismo. Sono persone che hanno aspettative di protezione sociale, di benessere, di pace per tutti, non solo per loro stessi. Sono persone che rifiutano la legittimazione delle disuguaglianze attraverso la chiave interpretativa del merito e chiedono le condizioni che consentono di guardare al futuro con fiducia e speranza.

Le piazze degli ultimi due mesi rappresentano allora un segnale – non isolato e non sporadico – di richiesta di una forma diversa di ugualitarismo. La richiesta di considerare uguali le persone nella loro dignità umana e partendo dai loro bisogni fondamentali. Questo significa considerare tutte le diversità che caratterizzano i singoli in una prospettiva collettiva. È l’ugualitarismo che ritiene illegittime le disuguaglianze che emergono in conseguenza di scelte e azioni che riflettono le caratteristiche ascritte – genere, età, nazionalità, famiglia di origine – di cui la responsabilità non è più individuale. È invece evidente la richiesta che il governo torni prioritariamente ad assicurare il bene comune, nella prospettiva del bene effettivo di tutti i membri della comunità civile, sia quelli in posizione di maggioranza sia quelli di minoranza.