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Chiedi alla polvere di Civitavecchia

Civitavecchia è così ripiombata in un passato che pensava di aver superato. L’impianto è tornato a bruciare carbone quasi a pieno regime e i cittadini sono preoccupati. Temono che il ritorno delle carboniere sia il segnale che la decarbonizzazione prevista per il 2025 potrebbe slittare almeno di una decina d’anni. Estratto del libro

Da quando, alla fine di gennaio del 2020, il governo guidato da Giuseppe Conte ha approvato il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) che ha deciso la chiusura di tutte le centrali a carbone in Italia entro il 2025, gli arrivi si erano diradati e, di conseguenza, l’aria di Civitavecchia ne aveva beneficiato. L’Enel aveva optato per una riconversione dell’impianto dal carbone al gas, in attesa di un futuro passaggio alle energie rinnovabili, ma aveva incontrato l’opposizione di comitati e associazioni ambientaliste.

La decisione sembrava irreversibile e la compagnia elettrica appariva irremovibile, forte anche delle prescrizioni del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, in cui si dice che il carbone sarà rimpiazzato sia con le fonti rinnovabili, sia attraverso «la realizzazione di unità termoelettriche addizionali alimentate a gas, necessaria anche in considerazione dell’incremento delle quote di rinnovabili nella generazione elettrica per il mantenimento dell’adeguatezza del sistema». Il 22 febbraio 2022 la società proprietaria della centrale di Torrevaldaliga Nord ha fatto il punto sul piano di abbandono del carbone, ricordando che la capacità installata è scesa dai 6.000 MW del 2015 ai 4.700 del 2021, e che la produzione di energia è diminuita dai 36 TW del 2015 ai 10,5 del 2021, «in linea con il percorso di decarbonizzazione per arrivare a zero emissioni di CO2 nel 2040». Non ha detto però di aver rinunciato all’idea di passare al metano, lasciando che a farlo, il giorno dopo, fosse il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.

“Non ci sarà nessuna riconversione a gas. Il risultato è definitivo. È una notizia importante che arriva per il territorio di Civitavecchia e per tutta la regione, in relazione agli obiettivi di decarbonizzazione che l’Europa ci assegna e che come Lazio vogliamo raggiungere. Sono contento perché abbiamo sempre creduto nella forza dell’iniziativa politica e che il sostegno alle giuste istanze avrebbe prodotto risultati. Grazie a questa novità ora possiamo rilanciare la sfida del superamento del carbone, concentrandoci sulle alternative che da tempo stiamo discutendo, come le energie rinnovabili”, ha detto l’ex segretario del Partito Democratico nella conferenza stampa convocata per annunciare la clamorosa novità.

Civitavecchia diventerà il prototipo della transizione energetica in Italia, con una conversione radicale dal carbone a un parco eolico offshore, il primo galleggiante in Italia. La notizia ha conquistato le prime pagine dei giornali. «Civitavecchia vi sembrerà troppo piccola per assumerla come simbolo di un grande successo, invece non lo è per due ragioni: quanto si è ottenuto qui può avere un valore generale molto importante per tutta l’Italia» hanno scritto sul «manifesto» Luciana Castellina e l’ambientalista Massimo Serafini, uno dei promotori del referendum antinucleare del 1987, sostenendo che «a questa decisione si è arrivati perché c’è stata una mobilitazione dal basso» di cittadini, associazioni ambientaliste e sindacati. Nel giro di poche ore gli entusiasmi sono però scemati.

All’alba della mattina seguente, con un messaggio video preregistrato il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina. La guerra, con il corollario delle sanzioni al governo di Mosca e i rischi di un taglio delle forniture dalla Russia, ha rimesso in discussione le politiche energetiche in Europa, gli obiettivi della transizione ecologica e più in generale gli equilibri geopolitici globali. Sul vecchio continente hanno cominciato ad addensarsi nubi non molto diverse da quelle che vedeva all’orizzonte Carlo Levi nell’autunno del 1939, esiliato sulla spiaggia bretone di La Baule, a pochi passi da Saint-Nazaire. Appena ventiquattr’ore dopo, in un’informativa urgente alla Camera dei deputati sull’attacco russo, con una conversione a trecentosessanta gradi il primo ministro Mario Draghi ha ventilato la riapertura provvisoria delle sette centrali a carbone italiane «per colmare eventuali mancanze nell’immediato». 

Di fronte all’emergenza, i progetti di riconversione sono passati in secondo piano. Dalla centrale di La Spezia, spenta alla fine del 2021, a quelle sarde di Fiume Santo e Portovesme, passando per Brindisi, Fusina a Venezia e Monfalcone in Friuli, lo spettro del carbone si è riaffacciato sui sette impianti italiani, considerati superati dal nuovo Green deal europeo e per questo con la produzione di energia in costante calo. Da allora sono aumentate il numero e la frequenza del passaggio delle navi carboniere all’orizzonte del mare di Civitavecchia. «Stanno facendo le scorte a causa dell’incertezza nell’Est Europa», dice Petrarolo. La produzione di elettricità in breve tempo è aumentata del 25%, e di conseguenza le emissioni. Civitavecchia è così ripiombata in un passato che pensava di aver superato. L’impianto è tornato a bruciare carbone quasi a pieno regime e i cittadini sono preoccupati. Temono che il ritorno delle carboniere sia il segnale che la decarbonizzazione prevista per il 2025 potrebbe slittare almeno di una decina d’anni. «Temiamo che la nostra possa essere una vittoria di Pirro» dice Petrarolo.

Le sue parole sono risultate quasi profetiche. La mattina del 13 ottobre, i lavoratori dell’Ansaldo di Genova hanno bloccato l’aeroporto cittadino, che è stato costretto a chiudere per qualche ora. Da alcuni giorni, in tutta la città si susseguivano blocchi e cortei. L’azienda, controllata all’88% dal ministero dell’Economia attraverso la Cassa depositi e prestiti – le quote rimanenti sono di proprietà della cinese Shanghai Electric – produce macchinari per l’energia e gli operai temevano per la loro sorte. La società aveva disdetto tre commesse già firmate con l’Enel per la conversione delle centrali di Brindisi, Civitavecchia e La Casella a Piacenza, ma erano state fermate dopo la decisione del governo di proseguire con il carbone. Il dietrofront ha azzerato il lavoro dei 2.300 metalmeccanici genovesi, più altri 600 delle ditte esterne e dell’indotto, che da un giorno all’altro si sono trovati a rischiare il licenziamento. I sindacati hanno denunciato che ci sarebbero state 200.000 ore di lavoro in meno e hanno accusato il governo per aver bloccato la riconversione delle centrali. Dopo uno scontro con la polizia e alcuni contusi, la società per placare le proteste ha annunciato una possibile ricapitalizzazione che avrebbe evitato il fallimento e la cassa integrazione per gli operai. Nessuno ha però parlato di nuove commesse per le centrali da riconvertire. Negli stessi giorni, l’Enel ha comunicato alla Regione Lazio di aver interrotto la procedura di Valutazione d’impatto ambientale per la conversione della centrale a turbogas, confermando di aver abbandonato il progetto. Una buona notizia mitigata dall’annuncio contestuale che l’impianto avrebbe continuato a funzionare con il carbone fino al 2025. Poi, con il passaggio all’eolico, l’energia che si sarebbe persa sarebbe stata compensata dall’aumento della produzione della vicina centrale di Montalto di Castro, questa sì alimentata a gas.