Se negli Usa non ci sarà un accordo sul limite massimo del debito, ne potrebbero conseguire l’avvitamento del sistema finanziario e la caduta del dollaro come moneta di riferimento
Lo stallo nella discussione sull’innalzamento del limite del debito americano apre scenari preoccupanti per le economie occidentali. Fino a qualche giorno fa il mercato non aveva mostrato eccessivi segni di nervosismo: i tassi di interesse sui titoli pubblici erano rimasti a livelli estremamente bassi: il 2,9% per i titoli a 10 anni. Questo tuttavia non sta a indicare che gli investitori ritengano scarso il rischio di default. Come sempre nelle crisi, c’è chi rimane con il cerino in mano e chi si arricchisce. Già da tempo infatti fervono i preparativi: Pimco, il più grande fondo obbligazionario, ha cominciato fin da marzo a vendere US Treasuries allo scoperto, mentre JP Morgan Chase riporta che negli ultimi tempi gli istituti finanziari hanno cominciato a spostarsi dal lungo su titoli con scadenza a 7 giorni. Infine le grandi imprese americane, memori dei costi inflitti dal collasso dei mercati finanziari seguito al fallimento della Lehman Brothers, stanno accumulando montagne di liquidità, rinviando gli investimenti (e dunque anche la ripresa del reddito e dell’occupazione). I segnali di nervosismo si stanno accumulando: la scivolata del dollaro, l’aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici a breve e l’impennata dei premi di assicurazione contro il rischio di default.
Nel frattempo, le principali agenzie di rating hanno annunciato che procederanno a un declassamento del valore del debito americano nel caso che non si raggiunga un accordo: mentre Moody’s ha messo fin da aprile le lancette su “prospettiva negativa”, in previsione appunto di un mancato accordo, Standard & Poor avverte che abbasserà il rating da AAA a D (il valore più basso). Vale la pena soffermarsi a riflettere sulla razionalità di un sistema che considera normale, o congruente con la logica del mercato, attribuire a un titolo il massimo – la tripla A – un giorno, e D – equivalente a spazzatura – il giorno dopo. Una logica, cioè, secondo la quale il valore del titolo non è definito dalla solvibilità prospettica del paese che lo emette, quale rappresentata dalla sua forza economica, finanziaria, militare, bensì dal valore decretato dall’agenzia di rating.
Ma che impatto avrebbe un default? Ben Bernanke, il governatore della Federal Reserve, ha dichiarato che sarebbe “una enorme calamità finanziaria”, capace di far precipitare l’economia americana in una nuova crisi. Se l’aumento dell’incertezza indotto dall’impasse nell’accordo sul debito può provocare un aumento del costo del credito, e dunque maggiori oneri finanziari per lo stato, le famiglie e le imprese, un declassamento del debito, con le norme attuali, potrebbe portare a una paralisi dei mercati finanziari. Le banche, che usano i titoli del debito pubblico come collaterale per i prestiti con la BC, si vedrebbero infatti chiusi i canali di finanziamento. Ma l’onda d’urto potrebbe andare ben oltre. Come ha ricordato un analista della JP Morgan Chase “il prezzo dei titoli del debito pubblico sono usati come riferimento in molti altri mercati finanziari. Qualcosa come 4.000 miliardi di dollari di titoli pubblici (su un totale di 14.270 alla fine di marzo) sono usati come collaterale nel mercato dei futures, dei derivati, dei pronti contro termine, mercati cioè che rappresentano una fonte cruciale di finanziamento per le imprese finanziarie. Non si avrebbe dunque solo un aumento del costo del credito, ma un credit crunch su tutti i mercati finanziari.
Le crisi recenti, dalla crisi della Lehman Brothers prima e da quella della Grecia poi, ci hanno dolorosamente ricordato come il sistema finanziario sia strettamente interconnesso: non esiste una crisi “isolata”, il contagio è assicurato. Dunque, quali le ripercussioni internazionali? Se il declassamento del debito Usa portasse a una caduta della domanda di titoli pubblici, ne seguirebbe una caduta del valore del dollaro. Ne verrà minato lo status di valuta di riserva? Dipende da cosa faranno i detentori ufficiali del debito, in primis Cina e Giappone che detengono, insieme, quasi il 50% del debito pubblico Usa in mani estere (vedi tabella). Quando, nell’aprile scorso, Standard & Poor abbassò la valutazione del debito pubblico Usa da “positiva” a “negativa”, la reazione delle due Banche Centrali asiatiche è stata assai prudente: di supporto pieno, il Giappone, di invito alla prudenza, la Cina. Questo atteggiamento è certamente dettato soprattutto dal loro tornaconto. Sebbene infatti la Cina possa muoversi verso una diversificazione delle riserve, è prudente farlo gradualmente, per non causare un deprezzamento del valore delle proprie riserve in dollari, e comunque non creare panico sul mercato.
Anche le altre banche centrali hanno dichiarato che continueranno ad acquistare Treasury Bills quando, il 4 agosto, vi sarà la prossima rilevante asta di titoli pubblici, offrendo dunque un sostegno al dollaro, almeno a breve. Il risultato finale, tuttavia, dipenderà da chi uscirà vincitore nel gioco fra le autorità monetarie e i “mercati”, e, come ormai sappiamo bene dalla crisi dell’euro, non è affatto scontato.
Già, e l’euro? Quali conseguenze possono derivarne dalla crisi del debito pubblico americano? Vi sono diversi possibili scenari. Quello più drammatico prevede che l’intervento delle autorità americane non riesca a evitare la crisi finanziaria, che travolgerebbe anche l’area dell’euro, con i paesi periferici sempre più in balia delle agenzie di rating. Vi è però una variante: se la crisi innescasse una fuga dal dollaro da parte degli investitori privati verso valute di riserva alternative, la moneta europea, e forse con essa anche il traballante piano di salvataggio messo faticosamente insieme dai governi europei, potrebbero essere salvati. C’è tuttavia un terzo scenario possibile. Il declassamento dei titoli degli stati – che, come è bene ricordare, si sono indebitati per salvare le banche – ne ha minato non solo il valore, ma la fiducia stessa che in essi veniva riposta, quali titoli privi di rischio: l’investimento ideale per “vedove e orfani”, per intenderci. È su questi titoli, e sulla fiducia in essi riposta, che si basa la stabilità dell’intera struttura finanziaria: essi entrano infatti nel capitale proprio che le banche devono tenere a garanzia del passivo, e formano, come si è detto, il collaterale per tutte le operazioni di credito. Più nulla è ormai sicuro, e la caduta della fiducia polverizza i risparmi e trascina con sé le banche e l’economia intera. Se tutto volge al peggio, è allora possibile che il mercato, nella disperata ricerca di un’ancora, riscopra il valore dei “fondamentali” e torni a guardare con favore alla posizione speciale che gli Stati uniti occupano nell’economia mondiale: i TB, e con essi il dollaro, potrebbero allora ritornare a svolgere la funzione di bene rifugio di ultima istanza.
È singolare che le sorti della finanza e del mondo occidentale siano lasciate nelle mani dei “mercati”, e che l’unica ricetta sia quella di tagliare il deficit, costi quel che costi, salvo poi infierire nuovamente quando si scopre che la mancata crescita aggrava la posizione finanziaria. L’estrema precarietà della situazione che è venuta creandosi sta spaventando anche tradizionali campioni del liberismo: la riduzione del debito – ammoniscono l’Fmi e l’Economist – deve essere un’operazione graduale e, data la condizione attuale di recessione, va spostata nel medio periodo. Ma le prediche passate hanno trovato orecchie attente, anche se forse non disinteressate, che vogliono ora mettere in pratica quanto imparato. Il che non promette niente di buono.
Debito pubblico Usa al marzo 2011 (miliardi di $)
Totale |
14.270 |
|
Tenuto dal pubblico |
9.657 |
|
Di cui: privati |
8.229 |
|
interno |
3.226 |
|
estero |
4.479 |
|
Di cui: Cina |
1.152 |
|
Giappone |
907 |
|
UK |
333 |
|
Altri enti governativi |
4.613 |
Fonte: www.Economist.com