Il progressivo scollamento tra credito e massa monetaria è, secondo molti economisti, una delle cause principali della Grande Crisi
Oggigiorno è molto diffusa l’idea secondo cui le banche centrali sarebbero più potenti che mai. Neil Irwin, autore del libro The Alchemists: Three Central Bankers and a World on Fire, rispecchia il sentimento di molti quando descrive i governatori della Federal Reserve, della Bce e della Banca d’Inghilterra come “i tre uomini più potenti del mondo”. Allo stesso modo Mario Draghi viene spesso descritto come “l’uomo più potente d’Europa”. Ma è veramente così? È innegabile che chi controlla le leve della politica monetaria dispone di un potere enorme (di gran lunga superiore a quella di qualunque politico): nientedimeno che il potere di creare denaro dal nulla. È un potere tale che nell’immaginario comune esso trascende i confini della comune realtà per sfiorare quelli della magia, titillando le nostre fantasie (o paure) più recondite; non a caso Irwin chiama i sopracitati tre banchieri centrali “gli alchimisti”. In effetti, chi dispone di una tale facoltà – quella appunto di creare denaro in un soffio – parrebbe avere nelle sue mani il potere di decidere il destino di intere economie. Se così fosse, i nostri banchieri centrali starebbero facendo veramente un pessimo lavoro: a rigor di logica, a loro dovremmo imputare sia la devastante crisi del 2008 che la debolissima ripresa post-crisi.
E infatti, anche oggi – come negli anni trenta – molti economisti di tradizione liberista imputano la crisi finanziaria alle politiche “troppo espansive” perseguite dalla Federal Reserve (e, secondo alcuni, anche dalla Bce) negli anni precedenti alla crisi del 2000. Secondo questa tesi, le banche centrali avrebbero deliberatamente tenuto i tassi di interesse più bassi del dovuto per promuovere la crescita economica e l’occupazione (come se questa fosse una cosa sbagliata, se anche fosse vero), trascurando l’inflazione degli asset finanziari e contribuendo così alle varie bolle immobiliari negli Usa e in Europa. Oggi come ieri, però, questi economisti hanno torto, anche se non per i motivi che uno potrebbe credere. Le ragioni sono in parte ideologiche, nel senso che gli economisti della scuola liberista-monetarista considerano negativo (a torto) qualunque intervento dello stato in economia. Ma perlopiù sono concettuali, nel senso che le loro teorie si basano su una visione fallace della moneta, e in particolare del rapporto tra politica monetaria e credito.
Le banche centrali, infatti, non sono le uniche istituzioni che possono creare denaro dal nulla. Lo stesso – e in misura molto maggiore – fanno le banche private. Molta gente, quando pensa al denaro che è in circolazione, pensa alle monete e alle banconote che ha nel portafoglio. Ed è comprensibile, visto che l’unico rapporto concreto che abbiamo col denaro lo abbiamo attraverso il contante. Ma oggi il contante – che solo le banche centrali hanno il diritto di creare “dal nulla” – rappresenta una piccolissima frazione del denaro in circolazione. Un’altra piccola parte è rappresentata dalle riserve che le banche commerciali tengono in dei conti speciali presso le banche centrali, e che usano per effettuare pagamenti tra una banca e l’altra. Le riserve, come il contante, possono essere create (sempre “dal nulla”) solo dalle banche centrali. Il resto – sarebbe a dire, la stragrande maggioranza – del denaro in circolazione è rappresentato dal credito bancario (o moneta bancaria). Nell’eurozona, ad esempio, quest’ultimo costituisce il 91 per cento di tutta la massa monetaria.
Fin qui non abbiamo detto nulla di particolarmente controverso. Quando parliamo del rapporto che intercorre tra base monetaria e moneta bancaria – e tra depositi e prestiti –, però, le cose cominciano a farsi interessanti. In ambito mainstream è convinzione comune che le masse monetarie siano controllate dalla banca centrale. Secondo la “teoria quantitativa della moneta” – o “teoria della riserva frazionaria” – la sequenza è la seguente: le banche centrali possono stampare denaro e con esso comprare titoli, privati o pubblici, dando così alle banche commerciali, o allo Stato, nuova moneta. Inoltre, agendo sulle riserve obbligatorie delle banche, possono variare la capacità degli istituti di credito di concedere prestiti, controllando così l’emissione della moneta bancaria, attraverso quello che viene chiamato “moltiplicatore monetario”. In sostanza, secondo la teoria quantitativa della moneta, i depositi precedono i prestiti, e le banche non sono altro che un intermediario tra i risparmiatori che depositano denaro e coloro che chiedono i prestiti.
Nel mondo reale, però, la creazione di moneta bancaria segue un processo diametralmente inverso a quello sopraelencato: sono infatti i prestiti a creare la moneta e non viceversa. E le banche commerciali da dove ottengono la moneta per i prestiti? Per quanto possa suonare strano alle orecchie di molti, la risposta è che, a livello aggregato, la creano “dal nulla” (proprio come le banche centrali); si limitano cioè a battere dei tasti al computer, e così facendo fanno “apparire” dei soldi (che prima non esistevano) sul conto corrente di un individuo o di un’impresa, incrementando lo stock di broad money. Pertanto, a differenza di quanto comunemente si crede, sono i prestiti a creare i depositi e non viceversa. Le banche non sono perciò un intermediario tra i risparmiatori che depositano denaro e coloro che chiedono i prestiti, e dunque non sono vincolate nel concedere prestiti dall’ammontare del denaro precedentemente depositato o dalle riserve depositate presso la banca centrale.
Ovviamente questo ha implicazioni enormi per la politica monetaria, poiché implica che le banche centrali non sono in grado di controllare direttamente la quantità di moneta che viene immessa nell’economia, che dipende invece dal rapporto domanda-offerta tra le banche e chi richiede i prestiti, ma possono solo influenzarlo indirettamente (in teoria) attraverso la modifica del tasso di interesse al quale rifinanziano le banche con la moneta legale, che a sua volta dovrebbe influire su quello effettivamente applicato dalle banche ai clienti (aumentando o riducendo la domanda).
La verità, però, è che anche questa cinghia di trasmissione è ormai saltata. A partire dagli anni settanta, infatti, si è verificato un progressivo scollamento tra credito e massa monetaria, e dunque tra credito e politica monetaria: in poche parole il credito – già “endogeno” di suo, come abbiamo visto –, libero dai vincoli regolatori imposti nel dopoguerra e moltiplicato potenzialmente ad infinitum dall’introduzione di complessi strumenti finanziari come la cartolarizzazione, ha cominciato ad acquistare un’autonomia sempre maggiore dalla politica monetaria delle banche centrali.
Secondo un numero crescente di esperti, è questa la vera causa della crisi finanziaria del 2008 – e non la politica di “soldi facili” delle banche centrali. Come ha dichiarato di recente senza troppi giri di parole Adair Turner, membro del Financial Policy Committee, l’organismo di vigilanza finanziaria britannico: “La crisi finanziaria è accaduta perché non abbiamo limitato il sistema di creazione del credito e della moneta della finanza privata”.
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