Che cosa è possibile fare sulla tassazione sulle imprese? Per aumentare il gettito e l’equità più che aumentare le aliquote serve intervenire sul recupero dell’evasione e dell’elusione.
Esiste la possibilità di redistribuire il carico delle imposte dirette senza una maggiore “visibilità” degli imponibili? Noi riteniamo che redistribuzioni rilevanti possano effettuarsi solo attraverso la riduzione dell’evasione e dell’elusione verso le percentuali degli imponibili potenziali rilevabili nei grandi paesi europei, cosa mai avvenuta dall’unità d’Italia ad oggi. In questo intervento analizziamo la tassazione diretta (inclusa l’Irap) delle imprese per mettere in luce la difficoltà di modifiche significative ‘ceteris paribus’.
Partiamo dall’analisi dei dati sul gettito derivante dall’imposizione sugli utili delle imprese. La Tabella 1 mostra come dalla tassazione dei redditi delle imprese di tutti i tipi e di tutti i settori di attività siano stati ricavati più di 45 miliardi di euro nel 2012[1], mentre il prelievo per Irap, originariamente commisurato al valore aggiunto di impresa, abbia fornito circa 21 miliardi di gettito. La Tabella 1 consente anche di evidenziare alcune caratteristiche strutturali: la bassa quota di gettito assicurata dai circa 3 milioni di soggetti Irpef, pressoché costante nel corso del tempo, e la prevalenza dell’Ires da cui derivano circa i 3/4 del prelievo sui redditi di impresa (da circa 1 milione di soggetti).
Dall’analisi del Grafico 1 emerge, inoltre, che nel corso degli anni la quota di gettito derivante da IRES e IRAP rispetto al totale delle imposte dirette, per vari motivi (inclusi gli effetti della crisi economica) è andata riducendosi, passando da valori superiori al 30% (37% nel 2007) al 29% del 2012 (Grafico 1)[2].
Grafico 1: Peso Irap e Ires sul totale delle imposte dirette
Fonte: ISTAT
È possibile invertire questa tendenza e aumentare il contributo delle imprese alle entrate complessive?
Si potrebbe pensare all’aumento delle aliquote legali, ma questa via è secondo noi poco praticabile per due ragioni principali. La prima legata alla vivace competizione fiscale internazionale. Come si vede dal Grafico 2 c’è stata una diminuzione costante delle aliquote legali sui profitti delle società di capitali in Europa, dal 35% nel 1995 al 22,9% nel 2014. L’Italia ha inseguito questa dinamica, partendo dal 53,2% nel 1996 per arrivare al 31,4% nel 2008, un livello che rimane comunque di circa 9 punti superiore alla media della UE-28.
Grafico 2: Andamento delle aliquote nominali sui redditi delle società (media aritmetica per UE-28)
Fonte: Eurostat “Taxation Trends in Europe”, 2014.
Per i gruppi multinazionali la concorrenza fiscale infatti si esercita considerando le aliquote nominali, che orientano la localizzazione di ricavi e costi in modo da minimizzare l’onere tributario complessivo per imposte sugli utili. Le politiche economiche finalizzate ad attrarre capitali dall’estero tendono quindi ad utilizzare aliquote nominali in modo più o meno trasparente, come d’altronde i recenti casi Apple, Google e Amazon in Irlanda e in Lussemburgo insegnano. In assenza di cooperazione tra gli stati – ovvero di armonizzazione dei regimi – è molto probabile che si inneschi un processo di competizione fiscale al fine di attrarre capitali (Altshuler e Goodspeed, 2002 e Devereux et al., 2008) che porta a una diminuzione del gettito nei paesi ad alta tassazione. L’integrazione finanziaria ha quindi fatto si che la competizione fiscale operi come un vincolo esterno che limita la capacità dei singoli governi di determinare autonomamente la struttura delle aliquote, con effetti rilevanti in termini di disegno complessivo della tassazione d’impresa.
Esiste poi una seconda ragione, specificamente italiana, per cui la manovra delle aliquote legali non sembra convincente. In Italia esiste infatti un numero anomalo, ampio e costante, di imprese in perdita che determina una concentrazione del prelievo sul numero limitato di soggetti che dichiarano imponibili positivi. Realizzare una redistribuzione del carico tributario operando sulle aliquote avrebbe quindi effetti limitati in quanto la manovra escluderebbe un numero rilevante di imprese[3].
La Tabella 2 mostra come costante e rilevante (in termini percentuali) sia il dato relativo alle società di capitali in perdita o con utili nulli (oltre il 35%). Minore è la quota di società di persone e imprese individuali in perdita (sempre inferiore al 20%); queste ultime tuttavia dichiarano in media profitti di modesta entità. La tabella evidenzia infatti che nel 2012 le società di capitali hanno dichiarato in media imponibili per quasi 240 mila euro, mentre per le imprese individuali sono stati inferiori a 20 mila euro. A parte i valori assoluti del 2012 (influenzati dalla crisi) colpisce la stabilità dei valori nell’arco del quindicennio osservato, considerando che si tratta dei valori nominali degli imponibili delle sole imprese che dichiarano utili.
Tabella 2: Percentuale di imprese in utile e ammontari di reddito dichiarati (migliaia di euro)
Fonte: MEF, Analisi Statistiche sulle dichiarazioni dei redditi
Questi dati confermano che l’evasione e l’elusione da parte delle imprese sono molto diffuse nel nostro paese. Il dato infatti appare strutturale, non influenzato dagli andamenti congiunturali, a significare uno scarso legame tra l’andamento effettivo delle attività economiche e i profitti dichiarati. Da qui occorre partire per individuare strategie di riequilibrio del carico tributario, che devono a questo punto necessariamente riguardare un processo di (graduale) emersione degli imponibili effettivi delle imprese.
Per le imprese individuali e le società di persone con meno di 7,5 milioni di fatturato, si può far ricorso agli “studi di settore”. Originariamente proposti per limitare l’evasione delle piccole imprese, si sono dimostrati nel tempo inefficaci. La definizione degli imponibili “forfettari”, sulla base di accordi con i rappresentanti di categoria, ha eliminato i “timori” dell’accertamento. In Francia, ad esempio, gli analoghi strumenti (redatti dagli economisti delle Direzioni fiscali) danno luogo a risultati “segreti”, noti solo agli accertatori che possono utilizzarli nel confronto con il contribuente sottoposto a verifica.
Una “migliore” gestione degli studi di settore potrebbe consentire di costringere i contribuenti a dichiarare valori più vicini alla realtà dei risultati aziendali, senza necessariamente abbandonare la semplificazione del metodo di accertamento e il mantenimento di elementi di “normalità” (o forfettizzazione) nella definizione dell’imponibile.
D’altra parte, la possibilità di ricorrere a imponibili meno facilmente sottraibili al Fisco era una delle motivazioni (non la principale) dell’introduzione dell’Irap nel nostro ordinamento. Questo tributo infatti ha componenti di difficile o non conveniente occultamento (il valore aggiunto distribuito in interessi e retribuzioni). Ma, proprio per questo, la spinta allo “svuotamento” del tributo è stata forte ed efficace sin dall’anno successivo alla sua introduzione; attraverso il ricorso a varie deduzioni, l’imponibile è stato progressivamente allontanato dal Valore Aggiunto dell’impresa, facendo perdere al tributo le caratteristiche di neutralità (che ne avevano suggerito l’introduzione) e riducendo notevolmente la platea dei soggetti che versano l’imposta (Bardazzi, Di Majo, Pazienza, 2006; Crespi, Di Majo, Pazienza, 2013). Il processo di erosione, legato a una particolare avversione dei contribuenti a questo tipo di imposta, ha determinato una concentrazione del gettito su un numero limitato di imprese contribuenti: a titolo di esempio si può ricordare che nel 1998 oltre il 95% delle imprese era contribuente effettivo dell’ Irap. Nel 2012 il 62% delle società di capitali ha versato l’Irap e il 57% l’Ires: il processo di avvicinamento dei contribuenti effettivi dei due tributi si è quasi concluso. La recente eliminazione della componente costo del lavoro dall’imponibile tende a far sopravvivere l’Irap come una addizionale di Ires e Irpef. ll Grafico 3 mostra come l’andamento dell’imposta sia molto più discontinuo dell’aggregato di riferimento e se ne sia distaccata a partire dal 2007.
Grafico 3: Andamento del gettito Irap e del Valore Aggiunto totale (1998=100)
Fonte: Istat
Va poi ricordato che l’Irap è un’imposta regionale, che consente il prelievo nelle regioni dove le imprese svolgono la loro attività. Di conseguenza, le multinazionali, se svolgono attività produttive nel nostro paese sono almeno tenute al pagamento dell’Irap per compensare il paese per i servizi che consentono loro la produzione (infrastrutture, formazione…), mentre possono scegliere di minimizzare le imposte sugli utili attraverso la localizzazione della residenza fiscale.
Lo spazio per politiche di aumento del gettito dei tributi qui considerati sembra quindi molto ristretto: In assenza di sostanziali cambiamenti nei comportamenti dei contribuenti meno fedeli, ogni aumento graverebbe sui contribuenti più leali con il Fisco, con possibili effetti negativi sulle loro scelte economiche relative alla produzione e all’occupazione. Senza una vera presa di coscienza delle distorsioni provocate dall’evasione “di massa” è difficile immaginare efficaci politiche tributarie sia in termini di aumento del gettito sia in termini di redistribuzione del prelievo esistente. Questa insolita caratteristica del sistema tributario, che divide i contribuenti in “evasori e tartassati”, dovrebbe finalmente, dopo oltre un secolo e mezzo di esistenza dello Stato, essere affrontata se si volesse ottenere un prelievo più equo e meno distorsivo.
Riferimenti
Altshuler R., Goodspeed T. (2002), Follow the leader? Evidence on European and US tax competition, Departmental Working Papers, 200226, Rutgers University, Department of Economics.
Bardazzi R., Di Majo A., Pazienza M.G. (2006), L’Irap: un’imposta ancora virtuosa?, Studi e Note di Economia, n.1, 61-92.
Crespi F., Di Majo A., Pazienza M.G., (2013), Le riforme dell’imposizione diretta sulle imprese italiane, Economia dei Servizi, vol. 2, p. 109-126.
Devereux M.P., Lockwood B., Redoano M. (2008), Do countries compete over corporate tax rates?, Journal of Public Economics 92, 1210-1235.