Che fine ha fatto il sogno europeista? Il nichilismo tecno-capitalista ha prodotto forme di eteronomia e assoggettamento, privando gli individui di ogni idea di futuro, di autonomia e di responsabilità. Per uscire da questa “sedazione sociale” urge ritrovare le mappe dell’Utopia. Ma cercandole senza ricorrere al navigatore satellitare e senza confidare nei motori di ricerca […]
Che fine ha fatto il sogno europeista? Il nichilismo tecno-capitalista ha prodotto forme di eteronomia e assoggettamento, privando gli individui di ogni idea di futuro, di autonomia e di responsabilità. Per uscire da questa “sedazione sociale” urge ritrovare le mappe dell’Utopia. Ma cercandole senza ricorrere al navigatore satellitare e senza confidare nei motori di ricerca
Ventisei milioni e mezzo di disoccupati in Europa. La disoccupazione giovanile al 23,8% come media europea ma in Italia al 38,5%. Sempre n Italia, disoccupazione al 12,2%, il massimo dal 1977, mentre anche Confindustria rivede al ribasso – da meno 1,1 a meno 1,9% – le stime sul pil del 2013. Pochi dati, per fotografare una realtà drammatica.
Ovvero: un impoverimento di massa in Europa imposto in nome di una pura astrazione numerica (pareggio di bilancio, parametri debito/deficit-pil), ma ugualmente ideologica, ovvero inattaccabile dai dati di realtà e dalle confutazioni della storia, anche l’ideologia neoliberista vivendo in una propria surrealtà immaginata ma poi soprattutto imposta come vera. Conseguenza di tale ideologia (o di tale religione capitalistica secondo Benjamin, contro la quale servirebbe un sano laicismo e una sana laicità): il portarsi a niente dell’Europa: di se stessa, del sogno europeista, dell’economia europea da troppo tempo in recessione; uno scendere, deliberatamente e ostinatamente lungo un piano inclinato nichilista, pesantissimo sia in termini sociali che di democrazia sostanziale (meno diritti, potere oligarchico) – rimuovendo dall’orizzonte culturale e politico il fatto che si potesse (ma si può ancora) fare diversamente e meglio se solo si rileggesse la storia della crisi del 1929 e del new deal rooseveltiano. Eppure, questa realtà drammatica e socialmente perversa sembra non riuscire a smuovere la società europea, incapace di re-agire avendo ormai interiorizzato il proprio ruolo di vittima (sacrificale) della crisi.
Questa società – ma esiste ancora una società? – non produce alcuna rivoluzione (ormai cancellata dall’immaginario politico), ma neppure la rivendicazione di un riformismo radicale e quindi doverosamente opposto a quelle riforme strutturali (liberalizzazioni, privatizzazioni, soprattutto flessibilizzazione del mercato del lavoro, riduzione dei diritti sociali e quindi anche politici), invocate come un mantra dall’Europa merkeliana, draghiana e barrosiana, ma che sono in verità solo la prosecuzione del neoliberismo con altro nome e in altre forme. Servirebbe invece un riformismo radicale per creare un diverso rapporto (diverso, ma soprattutto radicalmente rovesciato) tra capitale e lavoro, tra mercato e ambiente, tra algoritmi e vita, tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo al servizio della società – come scritto in Costituzione) e politica (la tecnica regia secondo Platone che deve tornare urgentemente ad orientare in termini di senso e di scopo le altre tecniche, soprattutto l’economia – mentre da almeno tre decenni (in realtà da molto di più) l’unica tecnica regia che tutte le altre governa è proprio l’economia).
No, nulla di tutto questo accade. La società è come annichilita, implosa su se stessa. Balbetta qualcosa. Cerca di sopravvivere tra lavoro precario, discount, riduzione dei consumi, ma in questo modo – perdendosi nell’oggi, incapace di re-agire e soprattutto di immaginare – non fa che assoggettarsi ancora di più alla biopolitica neoliberista e alla sua strutturale e continua espropriazione di futuro. A quel neoliberismo di oggi, fatto di austerità, impoverimento, disoccupazione, colpa e penitenza per avere vissuto al di sopra dei propri mezzi, come ieri si era adattata alla precedente fase (in verità davvero molto seduttiva, cui era quasi-impossibile resistere) del neoliberismo del godimento fatto di consumismo, vivere al di sopra dei propri mezzi, edonismo e narcisismo, irresponsabilità per il futuro. Neppure le sinistre osano il cambiamento. Il Presidente Napolitano poi lo teme sopra ogni altra cosa. Neppure il sindacato riesce nell’intento; neppure i movimenti che nascono (ma muoiono in fretta) un po’ ovunque. Questo mentre il vertice europeo del 27 e 28 giugno ha mancato un’altra occasione per pensare in grande, avendo destinato alle vittime giovani della crisi briciole di euro (appena 8), mentre per salvare le banche (la causa della crisi) sono stati spesi migliaia di miliardi. E mentre il governo Letta approva un piano per il lavoro davvero piccolo piccolo. Siamo cioè in presenza di frammenti di indignazione e di impegno: gli scioperi, le manifestazioni, le proteste di nicchia. Ma nulla di più. L’impegno si scontra contro il muro di gomma delle oligarchie. Perché dunque non si produce cambiamento, né riforma?
Prima ipotesi, forse virtuosa ma minoritaria. È un solitario passare nel bosco di molti singoli, come il ribelle di Jünger, rivendicando la libertà di dire no, perché il ribelle è “deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata”. Oppure – seconda ipotesi, la più praticata e la più facile – ci si limita a cadere nella regressione populista e qualunquista (Grillo in Italia, altri in Europa), tra rassegnazione e antipolitica, tra rancore da bar e autocompiacimento da blog.
In realtà vi sarebbe una terza ipotesi da considerare, questa sì politicamente virtuosa: quella di immaginare il cambiamento e poi cercare di realizzarlo partendo da una rivolta del pensiero come invocata ad esempio dall’ultimo (e intrigante) saggio di Mario Galzigna, appunto Rivolte del pensiero (Bollati Boringhieri); per uscire dalla disperanza, da quell’atmosfera collettiva fatta non solo di scoramento quanto (e peggio) di assuefazione alla sottrazione di futuro. Una sottrazione contro cui tuttavia un pensiero in rivolta – insorgente, libertario e spaesante rispetto alla realtà e sovvertitore di questa stessa realtà – “può preparare il terreno per il cambiamento”, perché solo “un pensiero costruito sulle rivolte e sugli antagonismi – anche se disseminati, eterogenei, dispersi e molecolari – può riaprire il tempo e restituirci il futuro”. Convinti, come osservava l’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, che “è meglio sbagliare ed esplodere che prepararsi al nulla”. Al nulla, o a questo – aggiungiamo – meta-nichilismo tecno-capitalista ormai egemone e al suo sotto-nichilismo europeo.
Ma praticare questo pensiero, positivo e innovativo perché radicale – che cioè rivendica una differenza dai non-pensieri omologanti e produttori di indifferenza – e riprendersi l’idea di futuro è difficile se capitalismo & apparati tecnici li hanno sottratti da tempo a individui e società. E non per un’imposizione di legge ma per la modifica – sovversiva ed etero-diretta, soft e impercettibile (quindi difficile da riconoscere: riconoscimento che è invece la necessaria premessa per poter poi contrastare la sua guerra di posizione dentro e contro la società e gli individui attuata dal tecno-capitalismo per la conquista dell’egemonia) – dei saperi di organizzazione della vita individuale e collettiva. Bisognerebbe allora e per prima cosa diventare consapevoli – con un processo illuministico di rischiaramento e insieme parresiastico – dei meccanismi che ci condizionano e ci assoggettano in modo quindi etero-diretto, delle forme di biopolitica dominanti che governano la vita intera di individui e società, dei soft power secondo Nye – soft power (”la capacità di ottenere ciò che si vuole mediante l’impostazione di un programma d’azione, la persuasione e l’attrazione positiva”), che in realtà non sono altro (basterebbe rileggere Propaganda, di Edward Bernays) che le vecchie pratiche di propaganda e di manipolazione del consenso, ma con un nuovo nome. Detto altrimenti, bisognerebbe prendere finalmente atto che è il capitalismo come sapere/potere e come biopolitica che ci ha espropriati del futuro avendo fatto con-fondere mercato e società, mercato e democrazia e soprattutto avendo addestrato a dover consumare tutto sempre più in fretta: prima le merci poi, tracimando dall’economia alla società, anche i valori, la cultura, il tempo e lo spazio, le relazioni e gli affetti umani, il senso della durata e del costruire e quindi: il futuro; mentre la rete – ultima forma tecnica in ordine di tempo divenuta forma sociale e per di più ormai globale (il richiamo è ad Anders e alla sua critica della tecnica come apparato) – ci porta a vivere nello stesso solco nichilista del capitalismo, con saperi simili e congrui fatti di brevità, istantaneità, tempo irreale, simultaneità, ma soprattutto individualizzando e isolando gli individui per poi totalizzare meglio in sé le parti prima separate, per cui dobbiamo essere soli ma connessi (e individualizzazione e totalizzazione sono l’essenza del potere moderno, non tanto politico quanto economico e tecnico). Producendo persino, per favorire questa totalizzazione mediante individualizzazione, un nuovo feticismo di massa, quello appunto del dover essere connessi.
Ne è uscita una nuova forma di etero-nomia e di assoggettamento, certo diversa da quelle religiose o ideologiche del passato ma anch’essa negatrice, forse più di quelle, di ogni auto-nomia individuale e sociale. Contro questa etero-nomia occorre dunque recuperare quella cosa che permetta l’auto-nomia e che si chiama immaginazione pro-gettuale e magari la vecchia utopia, possibile solo “fuori dai vincoli della ripetizione”, cercando “una nuova proliferazione di significati e di eccedenza di senso” (ancora Galzigna), per rimettere insieme gli antagonismi molecolari pure esistenti ma ancora sterili culturalmente e politicamente. Utopia il cui desiderio e la cui ricerca nascono solo se vi è la compresenza (Bauman, da ultimo) di due condizioni: la prima, l’insoddisfazione per la realtà esistente (e questa c’è); e poi, la convinzione di potercela fare a cambiare la realtà (e questa invece manca).
Gli uomini in rivolta si limitano ancora a dire no, dimenticando (Camus) che un uomo in rivolta deve soprattutto dire sì e lo deve dire “fin dal suo primo muoversi”. In questa Europa è possibile solo la logica dello scontro che non deve diventare conflitto&pro-getto, l’unico meccanismo di azione sociale per il cambiamento invece capace di trasformare quegli uomini senza qualità tanto amati dal potere in uomini con molte qualità e quindi capaci finalmente di dire sì.
Nulla di quello che dovrebbe accadere – il rovesciamento delle politiche neoliberiste e dei saperi/poteri tecno-capitalistici – sta dunque accadendo. E la causa – prima che nelle oligarchie, nei governi tecnici e nelle larghe intese – è nell’azione biopolitica e nelle discipline (in senso foucaultiano) dello stesso tecno-capitalismo, nel loro avere agito in profondità nella società in quanto saperi/poteri di relazione e integrazione, nell’avere infine vinto anche la lotta di classe contro il proletariato. Il dover essere sempre connessi; la velocizzazione/intensificazione del tempo e del lavoro; il lavorare come un dover collaborare con l’impresa; la cancellazione delle differenze (sinistra/destra, bene/male, giusto/ingiusto, lavoratore/imprenditore, consumatore/brand) e del dialogo, privilegiando il monologo collettivo (ancora Anders) con tutti che ripetono le stesse cose di tutti senza saper davvero immaginare in auto-nomia il nuovo e il diverso; la perdita della privacy, con la morte della soggettività; la precarizzazione del lavoro e della vita: tutte pedagogie e discipline che hanno svuotato di senso e di futuro l’individuo (isolandolo, falsamente individualizzandolo) perché fosse invece possibile una sua crescente integrazione (appunto: la totalizzazione) con l’apparato di cui deve fare parte (mercato, impresa, rete, stato), con la società sempre meno aperta e sempre più sedotta dalla chiusura comunitaria (i localismi, il comunitarismo di rete d’impresa e di brand, il comunitarismo nazionalistico), dove le metafore ‘biologiche’ (il corpo sociale) e ‘tecniche’ (l’apparato, la rete) si confondono – ed ecco le pedagogie della condivisione e del fare sciame in rete, della community, del siamo tutti sulla stessa barca, della wikinomics), imposte da un pilota automatico (se si crede nella tecnica o nel mercato o in Mario Draghi o in Giorgio Napolitano) o dall’istinto. Comunque e sempre: etero-nomia.
È stata una grande opera di sedazione sociale mediante incorporazione di ognuno nell’organizzazione tecno-capitalista. Che per funzionare al meglio deve eliminare ogni possibile resistenza e ogni possibile conflitto interno. Per questo era necessario che gli individui perdessero ogni idea di futuro e di utopia, di autonomia (nel senso di Kant) e di responsabilità (nel senso di Hans Jonas). E questo è accaduto. Urge allora ritrovare le mappe dell’Utopia (e se è vero che le utopie hanno prodotto disastri, un disastro ancora maggiore lo sta producendo la loro assenza).
Ma cercandole – queste utopie e queste mappe – senza ricorrere al navigatore satellitare. E senza confidare nei motori di ricerca.