Anche nelle zone agricole più prospere del Nord le condizioni di lavoro e di vita della forza lavoro immigrata, anche regolare, è vicina alla condizione di schiavitù. Lo denuncia il Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto e lo conferma la magistratura. Leggi sull’immigrazione e prefetture non aiutano.
Il 10 dicembre scorso, mentre il Paese era sconvolto dalla tragedia di Calenzano, la spaventosa esplosione del deposito di carburanti con il corollario di morti che ne era conseguito, da Alba in provincia di Cuneo, rimbalzava la notizia del ritrovamento dei corpi di due giovani migranti in un casolare abbandonato in località Gamba di Bosco. L’effetto era quello di un fulmine a cielo sereno, anche perché i defunti erano conosciuti dalla locale rete solidale. Oltretutto la vicenda non poteva essere liquidata con la solita impudenza figlia della bolgia tossica sui migranti: in quel caso, non erano “clandestini”, ma titolari di regolare permesso di soggiorno.
Ci si dovrebbe chiedere perché mai i due giovani subsahariani, 25 anni l’uno e 28 l’altro, dovessero ripararsi in un rudere abbandonato, in un contesto sociale ricco come il cuneese, per poi morire asfissiati dal monossido di carbonio sprigionato dal braciere con il quale cercavano di riscaldarsi.
Senza nessuna intenzione inquisitoria, ma solo per provare a esplorare le possibili cause di una simile tragedia, occorrerebbe tenere presenti tre coordinate: al livello locale, la dimensione nazionale, il solco europeo.
Cinque mesi prima della tragedia, in piazza ad Alba c’era stata un’importante manifestazione, catalizzata dalla FLAI provinciale e regionale, per dire no al caporalato e allo sfruttamento sempre più radicati nei campi e nei vigneti delle Langhe. La cronaca rilancia un quadro locale alquanto deprimente: condizioni di schiavitù, lavoratori annichiliti, sfruttati, talvolta pestati. Alla conferenza-stampa di una recente operazione di polizia giudiziaria contro la piaga del caporalato, il procuratore di Asti sosteneva che il quadro appurato dagli inquirenti fosse solo “la punta dell’iceberg”. L’eufemismo parla da sé: il marciume è molto più esteso di quanto sembri. Del bacino stanziale di sofferenza occupazionale di 8/10 mila nell’economia primaria del Piemonte, svettano Cuneo e Asti quali province più permeate dagli abusi a danno dei lavoratori, come evidenziato dal VII Rapporto agromafie e caporalato.
Ecco, un’agricoltura prospera in cui interi segmenti finiscono per usare a proprio vantaggio le condizioni inique imposte alla manodopera. E’ risaputo che quelle terre piemontesi attraggono ogni anno migliaia di “transumanti dell’agricoltura” in cerca di occasioni di lavoro che sanno di trovare in loco, in base al ciclo biologico delle colture. Proprio come i due asfissiati di Alba.
La seconda coordinata da esplorare è quella dell’accoglienza dei migranti, la sua impalcatura, le sue regole. Verrebbe spontaneo chiedersi come mai i due non fossero inseriti in qualche schema di accoglienza. Succede semplicemente che il sistema di accoglienza sbarra l’ingresso o espunge dai propri dispositivi chi ha un reddito superiore anche di un solo centesimo all’importo di € 6mila. Un indirizzo assurdo che il ministero dell’Interno impartisce alle prefetture, con l’ingiunzione di agire di conseguenza. La cifra che ne emerge è che i migranti beneficiari di misura sociale di vitto-alloggio devono necessariamente lavorare in nero, pena l’espulsione dall’accoglienza qualora si raggiunge la sanzione stabilita.
Un’assurdità che assume i contorni di una disposizione di legge ma che, in verità, è figlia di un’interpretazione tendenziosa dell’impianto normativo sull’accoglienza, sulla scorta della Direttiva UE di riferimento, recepita nell’ordinamento domestico con il Decreto Legislativo 142 del 18-08-2015. Nelle sue pieghe, la norma contempla all’articolo 23, tra i motivi di revoca dell’accoglienza, “l’accertamento della disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici sufficienti”. Un assunto dal quale è scaturita un’interpretazione letterale della disposizione medesima. In pratica, se il fruitore di accoglienza matura un reddito superiore anche di un solo euro all’importo dell’assegno sociale (più o meno 6.000 euro), viene allontanato ipso facto dalla struttura. La conseguenza è intuibile: per evitare la scure, si deve semplicemente lavorare in nero.
Una pratica assurda che seguono pedissequamente le prefetture in tutta Italia, scegliendo di ignorare un passaggio successivo dello stesso articolo 23 che specifica come “nell’adozione del provvedimento di revoca si tiene conto della situazione” dell’interessata/o, precludendo da ogni ipotesi di allontanamento ad esempio “le persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, (…)”.
Nell’esperienza di tutela concreta contro simile applicazione fredda della norma, ci si è scagliati contro un provvedimento di allontanamento adottato dalla prefettura di Brindisi nei confronti di una pluralità di migranti colpevoli di aver lavorato in agricoltura, con regolare contratto, con tanto di reddito accertato. Posto di fronte all’argomentazione della FLAI, alla luce di quanto contemplato in combinato disposto dall’articolato Decreto Legislativo di recepimento della Direttiva Accoglienza, il prefetto fu costretto ad annullare, in autotutela, la misura adottata dai suoi uffici.
Al netto delle disposizioni di legge, è necessario strutturare schemi di accoglienza per i lavoratori che si spostano da un distretto agricolo all’altro, seguendo appunto il ciclo delle colture. Lo suggeriscono troppi drammi di persone carbonizzate, asfissiate o assiderate in ripari di fortuna, in ogni parte del Paese.
Jean-René Bilongo è il presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto