Il mesto semestre/L’Italia «non chiederà un cambio delle regole ma un cambio di priorità». Nel quadro però della stessa architettura monetaria e fiscale restrittiva
La presidenza semestrale dell’Ue, che l’Italia si appresa a ricoprire dal primo luglio, è una carica perlopiù simbolica. È per questo che le roboanti promesse di «cambiamento» che accompagnano ogni nuova presidenza vanno prese con una manciata di sale. Si veda la recente dichiarazione del ministro degli Esteri, Federica Mogherini, secondo cui i prossimi mesi non saranno di transizione ma «l’inizio di una nuova fase per l’Ue» in cui «dobbiamo puntare sulla crescita, su misure per l’occupazione e allo stesso tempo rafforzare il ruolo dell’Ue verso i paesi vicini e più in generale la politica estera comune».
Forse «più in generale» di così era impossibile. Quando si passa dal generale al particolare, però, il tono cambia radicalmente, e dagli annunci in grande stile si passa alle ossequiose promessa di continuità. Sui famigerati vincoli di bilancio, per esempio, è arrivata qualche giorno fa la rassicurazione di Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari Europei, che ha ribadito che nel corso del semestre l’Italia «non chiederà un cambio delle regole ma un cambio di priorità». Che probabilmente si tradurrà nella concessione di un minimo di «flessibilità» in più rispetto al raggiungimento degli obiettivi di consolidamento fiscale previsti dal Fiscal Compact, su cui pare che Renzi abbia incassato anche il sostegno della Merkel. E forse nell’esclusione di alcuni investimenti dal calcolo del deficit. Nel quadro però della stessa architettura monetaria e fiscale iper-restrittiva tenuta finora. Una sostanziale adesione allo status quo emerge anche dal documento presentato dal governo italiano in vista del Consiglio Europeo che si chiude oggi, in cui la via indicata per il rilancio della crescita e dell’occupazione continua ad essere quella delle sempreverdi «riforme strutturali», di un’ulteriore liberalizzazione del mercato dei servizi e di una maggiore «competitività». La chiusura dell’accordo di libero scambio Europa-Usa (Ttip) viene inoltre indicata come una delle priorità del governo. Pochi riferimenti alla profonda crisi sociale in cui versa il continente (e in particolare l’Italia), con l’eccezione – rara nota positiva – del timido sostegno al piano europeo per la lotta alla disoccupazione sponsorizzato dal Commissario Ue per le politiche sociali, László Andor. Il resto sono vaghi appelli alla necessità di «pensare fuori dagli schemi, essere inventivi ed esplorare nuove strade».
Quello che il governo Renzi propone sono interventi di natura cosmetica, laddove servirebbe invece un ripensamento radicale di tutta l’architettura dell’unione monetaria. Se lo volesse, Renzi in questo momento avrebbe il capitale politico – non solo in patria per dare una sterzata, se non alle scelte politiche dell’Unione, almeno al discorso pubblico europeo. Sul tema dell’austerità, per esempio, è in corso uno scontro anche in seno all’élite, tra chi vuole perseverare sulla strada dell’iper-rigidità fiscale e monetaria (governo tedesco, Commissione Europea, ecc.) e chi invece considera le politiche attuali un pericolo per la tenuta del sistema stesso. Ed è su Renzi che questi ultimi – tra le cui fila si possono annoverare Hollande e Schulz ma anche il Financial Times, l’Fmi e lo stesso Commissario Andor – stanno puntando. Insomma, se il premier volesse sfruttare il semestre europeo per rimettere in discussione le regole su cui si fonda il regime di austerità (e non solo i tempi della loro applicazione) potrebbe contare sul sostegno di pezzi importanti dell’establishment. La domanda dunque è: lo vuole veramente?