Ultime notizie dai Nuovi Grandi. Tentativi di convergenza tra i due paesi asiatici. Mentre gli Stati uniti cercano di contenere sul piano economico, politico e militare il colosso cinese
La Cina si colloca sempre più al centro della scena economica e politica asiatica e mondiale. Il suo Pil pro-capite è ormai di quattro volte quello indiano, mentre nei primi anni ottanta essi erano uguali (Boillot, 2012); il Pil complessivo ha superato quello giapponese nel 2010 se consideriamo per il calcolo il criterio dei prezzi di mercato, mentre lo ha fatto molto prima se utilizziamo invece il criterio della parità dei poteri di acquisto.
Sempre con il criterio della parità dei poteri di acquisto la Cina avrebbe poi già raggiunto gli Stati Uniti secondo alcuni, o lo farebbe entro un numero di anni molto ridotto (tra il 2015 e il 2020) secondo altri.
Secondo altre previsioni, da prendere peraltro con molta cautela, nel 2030 l’economia cinese potrebbe essere più grande di quella statunitense ed europea messe insieme. Si tratterebbe di un rovesciamento totale dei rapporti di forza nel mondo.
Le reazioni di Usa e Giappone
Gli sviluppi citati hanno ovviamente messo da tempo in allarme gli Stati Uniti, ma anche l’India e il Giappone. Gli Stati Uniti hanno apparentemente deciso di cercare di contenere sul piano economico, politico e militare il potenziale rivale, impresa peraltro molto complicata. Essi cercano in ogni caso di coinvolgere nel loro gioco le altre due grandi potenze asiatiche.
Un esempio persino grottesco di questo tentativo di contenimento appare il progetto Usa di una Trans Pacific Partnership (TPP), un’ipotesi di integrazione commerciale cui potrebbero, volendo, partecipare tutti gli stati che si affacciano su tale oceano, tranne la Cina (Piling, 2013).
In effetti, tra i criteri di esclusione dall’alleanza ci sono chiaramente delle clausole anti-Cina. Tra di esse la previsione che i singoli stati partecipanti non dovrebbero essere dei manipolatori della loro valuta; ma in realtà il paese asiatico ha aumentato il valore dello yuan rispetto al dollaro del 40% negli ultimi otto anni, mentre il Giappone, che farà invece parte della coalizione, lo ha diminuito del 25% in soli otto mesi. Un altro criterio stabilito nel progetto è che i paesi partecipanti devono essere dei regimi democratici, mentre sono peraltro inclusi nell’alleanza il Vietnam, paese autoritario almeno quanto la Cina e il Brunei, paese integralista islamico (Piling, 2013).
Intanto il Giappone si trova in una fase di grandi cambiamenti, spinti dalla reazione alla stagnazione economica di lungo termine del paese, ma anche proprio dalla possibile rivalità con la Cina. Si va configurando una politica aggressiva che minaccia di far tornare alla luce la durezza politica del Giappone imperiale; il nuovo governo sembra persino rimangiarsi la condanna espressa a suo tempo per un passato di aggressione e di stragi. Tutto questo irrita molto la Cina, oltre che la Corea del Sud.
Sul terreno economico la politica di forte espansione monetaria e di svalutazione dello yen sembrano segnare qualche successo, forse temporaneo, ma essa mette in difficoltà i suoi vicini, mentre sulle sorti del paese è sospesa la mina di un debito pubblico ormai al di fuori di ogni misura e che potrebbe scoppiare entro pochissimi anni. Peraltro va ricordato che la Cina è il primo partner commerciale del paese ed assorbe quasi il 20% delle sue esportazioni, mentre anche gli investimenti giapponesi in Cina sono molto rilevanti.
I problemi e i dilemmi dell’India
C’è da tempo un rilevante contenzioso tra India e Cina per quanto riguarda i loro rispettivi confini geografici, nonché, a detta degli indiani, per il troppo amichevole sostegno fornito dai cinesi al Pakistan, principale nemico dei primi. Oggi Pechino sembra comunque aperta ad un dialogo anche molto serrato e a tutto campo con lo stato vicino.
L’India si trova veramente ad un bivio ed appare esitante. La gran parte delle sue classi dirigenti pende culturalmente e psicologicamente verso gli Stati Uniti, che cercano peraltro da tempo di attirare il paese nella loro orbita. Ma i loro interessi economici spingerebbero invece fortemente in direzione del rafforzamento dei legami con la Cina, paese che gli indiani vedevano, sino a poco tempo fa, come un rivale nella gara economica per la supremazia; ad un certo punto essi speravano anche di superarlo, mentre oggi devono constatare che il compito appare ormai impossibile.
A partire da una decina si anni fa si erano incrociate, tra gli analisti occidentali ed indiani, tre diverse ipotesi sullo sviluppo rispettivo di India e Cina (Boillot, 2012).
La prima valutazione sottolineava come il potenziale istituzionale dell’India fosse superiore a quello della Cina, in relazione alla presenza di una struttura di mercato e di una democrazia politica, mentre la Cina si trovava di fronte ad un regime autoritario, poco favorevole nel tempo, secondo tale ipotesi, allo sviluppo. La seconda sosteneva che sarebbe stato il fattore demografico che avrebbe giocato a favore dell’India, permettendole una crescita più rapida del rivale nei successivi tre decenni. L’ultima tesi metteva invece in rilievo come in India mancassero le condizioni di base per un decollo durevole dell’economia, in ragione in particolare della sua struttura sociale e dei forti vuoti nelle sue infrastrutture e nel suo sistema educativo, mentre tali ostacoli erano minori nel caso dell’altra potenza asiatica. Si è visto alla fine quale delle tre fosse la visione più corretta.
In ogni caso, un radicato mito neoliberale ha accompagnato nel paese e nel tempo una visione estremamente conservatrice della modernizzazione della società indiana e comunque il regime di crescita in atto si è organizzato quasi esclusivamente a profitto delle classi medie superiori urbane.
L’incontro tra i due primi ministri
Anche su tale sfondo ha avuto luogo in queste settimane l’incontro a New Delhi tra i due primi ministri dei rispettivi paesi, Li Kequiang e Manmohan Singh. È stato il primo viaggio all’estero del nuovo primo ministro cinese, ciò che sottolinea l’importanza, anche simbolica, accordata ai rapporti con l’India. Il viaggio è avvenuto soltanto poche settimane dopo degli incidenti di frontiera tra i due paesi, incidenti che avevano fatto salire la tensione che sul tema dei confini è abbastanza alta da tempo.
Singh ha cercato di dissipare tale tensione dichiarando tra l’altro che il mondo era abbastanza grande per soddisfare le aspirazioni alla crescita di ambedue i popoli, mentre Li ha fatto di tutto per proiettare un’immagine pacifica del suo paese e per affermare in quale alta considerazione esso teneva l’India (Bobin, 2013). Il premier cinese ha anche sottolineato che gli interessi comuni dei due paesi erano molto più rilevanti dei punti di disaccordo.
Lo stato dei rapporti economici attuali e di quelli potenziali è indicato dal fatto che il commercio tra i due paesi è fortemente aumentato in questi anni, passando dai 2,1 miliardi di dollari nel 2001-2002 ai 67,8 miliardi nel 2012-2013, con prospettive di un’ulteriore forte crescita. Tale commercio è però notevolmente squilibrato a favore della Cina ed è fortemente asimmetrico: la Cina esporta soprattutto dei prodotti industriali, mentre importa sostanzialmente delle materie prime. Per altro verso, la Cina è il secondo partner commerciale dell’India, ma l’India rappresenta soltanto il 12° partner della Cina.
Durante gli incontri di maggio sono stati firmati degli accordi per la costruzione di infrastrutture, per lo sviluppo di zone industriali, per l’interscambio tecnologico, nel settore energetico, in agricoltura e per quanto riguarda le risorse idriche. Si stanno intanto portando avanti le discussioni sul varo di un grande accordo commerciale.
Indubbiamente i due paesi avrebbero da guadagnare molto sul piano economico da un riavvicinamento, che potrebbe contribuire anche a fare in parte da contraltare alla crisi economica dell’Europa e all’insufficiente dinamismo degli Usa.
In particolare, l’India potrebbe ottenere una parte dei capitali e del know-how che servirebbero per lo sviluppo delle infrastrutture e del settore delle telecomunicazioni, mentre va registrato che è già in atto un rilevante movimento da parte delle grandi imprese indiane per ottenere dei finanziamenti importanti presso le principali banche cinesi.
I capitali e il know-how cinese potrebbero essere utili anche per contribuire a sviluppare un’industria indiana ancora molto debole, mentre la Cina potrebbe trarre vantaggio dal migliore know-how indiano in alcuni comparti del settore dei servizi, ancora relativamente poco sviluppati in Cina.
Ma l’India dovrebbe ridurre gli ostacoli agli investimenti esteri cinesi e la Cina facilitare di più le esportazioni indiane. Le imprese del paese di mezzo si sarebbero recentemente proposte di sviluppare circa 66 miliardi di dollari di investimenti in India, ma solo 500 milioni sono stati realizzati sino ad oggi per gli ostacoli burocratici posti dai loro interlocutori (The Economist, 2013). Ma anche le imprese indiane trovano delle difficoltà in Cina.
Conclusioni
Un avvicinamento tra i due colossi asiatici accelererebbe certamente la centralità in via di costruzione dei paesi emergenti e in particolare dell’Asia nello scacchiere economico mondiale ed esso aiuterebbe molto i due paesi, ma specialmente l’India, a sviluppare la sua economia, mentre contribuirebbe a rassicurare i cinesi sul loro timore di un accerchiamento. Gli ostacoli politici a tale intesa appaiono peraltro rilevanti anche se superabili.
Per la Cina una questione simile si pone anche nei suoi rapporti con la Russia. L’apertura alla prima in particolare degli enormi spazi siberiani porterebbe ad ambedue i paesi prospettive di sviluppo enormi, ma anche in questo caso la diffidenza politica dei russi rispetto all’ingombrante vicino frena tutto. Il futuro appare per molti versi aperto.
-Bobin F., Pékin veut apaiser ses relations avec New Delhi, Le Monde, 22 maggio 2013
-Boillot J.-J., Inde-Chine: Le defi post-mondialisation liberale, L’Economie politique, n. 56, ottobre-dicembre 2012
-Piling D., It won’t be easy to build an “anyone but China” club, www.ft.com, 22 maggio 2013
–The Economist, Parsnips unbuttered, 25 maggio 2013