Pubblichiamo parte del testo scritto da Andrea Baranes come appendice al Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi, un volume pubblicato dalla casa editrice minimum fax in collaborazione con Sbilanciamoci
Troppo debito?
Nella prima metà degli anni Novanta il governo Berlusconi annunciava un nuovo miracolo italiano fondato sulla crescita e lo sviluppo, prometteva tagli delle tasse per cittadini e imprese, investimenti pubblici per trasformare il paese. A novembre 2011 il governo si dimette sotto il peso degli interessi da pagare, tra conti pubblici che non quadrano e nubi sempre più minacciose di possibili default. La pressione fiscale aumenta, a partire dall’Iva, assistiamo a tagli generalizzati di tutte le spese pubbliche mentre i soldi per gli investimenti e lo «sviluppo» sono un miraggio sempre più distante. Il nostro paese è uno dei principali problemi dell’Unione Europea. Cos’è successo allora in questi diciotto anni? Perché nel 1994 l’Italia era sì un paese con un forte debito e diversi problemi, ma, così ci veniva raccontato, con ottime prospettive, mentre ci ritroviamo nel 2011 con l’acqua alla gola e in balia delle tempeste finanziarie? L’argomento che ci viene ripetuto è che l’Italia del 2011 è schiacciata da un rapporto tra debito e prodotto interno lordo che sfiora il 120% e sta strangolando la nostra economia. Bene. Qual era allora la situazione nella prima metà degli anni Novanta? Tra il 1993 e il 1995 il rapporto tra debito e Pil in Italia superava il 120%. Occorre quindi analizzare meglio le cause politiche, sociali, industriali ed economiche che contribuiscono all’attuale rapido declino del nostro paese.
Le motivazioni reali
Ancora all’inizio del 2011 il nostro governo si vantava del fatto che la crisi del 2007-2008 avesse risparmiato l’Italia e della solidità dei conti pubblici, delle banche e del sistema produttivo. La crisi al contrario c’era, ed era in primo luogo legata al dogma economico della continua crescita dei consumi e del Pil. Se diminuiscono produzioni e consumi, oltre alle ripercussioni sul mondo del lavoro e su quello imprenditoriale, diminuisce il Pil. Al diminuire del denominatore aumenta il rapporto debito/Pil, e quindi i conti pubblici peggiorano. Non solo. Riprendiamo in esame questo rapporto che riveste oggi un ruolo così fondamentale. Al numeratore troviamo il debito pubblico, che, con qualche approssimazione, è costituito dalla massa di titoli di stato (Bot, Cct, Btp e altri) in circolazione in Italia, a cui si sommano i debiti delle amministrazioni locali e altre voci. Su questo debito l’Italia paga un interesse. Se il governo emette un Bot al 2%, su 100 euro di titolo ne dovrà pagare 2 di interessi. È allora chiaro che tanto più alti sono gli interessi da pagare tanto più le risorse del pubblico dovranno andare a rimborsare gli interessi sul debito, e non potranno essere utilizzate per altri scopi, dall’istruzione alla ricerca al welfare. Semplificando il discorso, le risorse a disposizione dello stato sono principalmente le tasse pagate da cittadini e imprese. Se lo stato ogni anno ha delle entrate che crescono più rapidamente degli interessi sul debito, quest’ultimo è in qualche modo sostenibile. Una parte delle risorse aggiuntive saranno destinate a ripagare il debito e i suoi interessi, il resto potrà andare a politiche pubbliche. Al contrario, se il Pil non cresce e non vengono messe nuove tasse, non aumenta nemmeno il gettito fiscale. In queste condizioni gli interessi sul debito crescono e continua ad aumentare il debito, peggiorando ulteriormente il problema. Questo anche senza considerare che, essendo una parte rilevante del debito italiano in mani straniere (principalmente banche e fondi di investimento), la mole crescente di interessi comporta un progressivo impoverimento dell’Italia nel suo insieme. All’inizio degli anni Novanta l’economia italiana, il Pil, cresceva, mentre gli interessi da pagare sul debito pubblico erano relativamente bassi. Nel 2011 ci troviamo nella situazione opposta. Questa spiegazione contabile non è però che una delle motivazioni. A questo problema se ne lega un altro, ancora più pesante e che discende direttamente dalla crisi finanziaria: gli interessi aumentano a un ritmo incontrollabile. L’Italia deve oggi emettere titoli di stato con rendimenti sempre maggiori, il che peggiora ulteriormente i conti pubblici. Sono due le motivazioni che spiegano questo veloce aumento degli interessi sul debito: da una parte il costo dei piani di salvataggio della finanza messi in campo dai governi dopo la bolla dei mutui subprime esplosa nel 2007, dall’altra la dimensione di una finanza speculativa in grado di scommettere contro interi paesi.
La crisi del 2011
L’attuale crisi discende direttamente da quella che nel 2007-2008 ha travolto la finanza internazionale dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti. Solo i giganteschi piani di salvataggio realizzati dai governi e dalle istituzioni pubbliche hanno permesso di salvare il sistema finanziario dalla crisi di cui esso stesso era in massima parte responsabile. Stime prudenziali parlano di almeno 14.000 miliardi di dollari versati dal pubblico al settore finanziario privato. Da una prospettiva speculare, negli ultimi anni un debito enorme è stato quindi trasferito dalla finanza privata al pubblico.
Il travaso di ricchezza dal lavoro alla finanza
Come è nato questo gigantesco debito? Per capirlo bisogna risalire alle radici dell’attuale crisi finanziaria. Da oltre un trentennio il sistema produttivo occidentale è entrato in una fase di sovrapproduzione. Questa, assieme alla possibilità delle imprese di delocalizzare la produzione verso i paesi dove sono minori i costi del lavoro, ha portato a una compressione dei salari. Questo processo ha comportato un gigantesco spostamento della ricchezza dai salari e dal lavoro verso le rendite e i profitti finanziari. In Italia, nell’ultimo ventennio dello scorso secolo 120 miliardi di euro sono passati dai lavoratori ai profitti. In altre parole, i lavoratori e i cittadini si sono trovati progressivamente più poveri, mentre le imprese immettevano sul mercato sempre più prodotti. Come risolvere questo paradosso? Come vendere sempre più automobili, più telefonini e più prodotti a persone sempre più povere? La soluzione è in apparenza molto semplice: favorendo l’indebitamento delle famiglie, delle imprese e degli stati per mantenere artificialmente alti i consumi, per drogare la crescita economica. È questa la spiegazione ultima della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti. Il settore immobiliare rappresenta una parte sostanziale della ricchezza e del Pil statunitense. Occorre allora costruire e vendere sempre più case per fare aumentare il Pil, che in accordo con il dogma economico fondato sulla crescita deve aumentare continuamente. Le leggi che hanno aperto la porta ai mutui subprime davano la possibilità alle banche di erogare dei mutui anche ai clienti senza reddito, senza lavoro e senza garanzie economiche. Strumenti finanziari sempre più rischiosi e incomprensibili permettevano alle stesse banche di scaricare questi debiti sui mercati finanziari, tramite un processo noto come cartolarizzazione dei mutui (e di qualunque altro prestito). In pratica una montagna di debiti è servita a drogare i consumi per mostrare una ricchezza economica e una crescita inesistenti, perché nella realtà le persone erano sempre più impoverite dal progressivo trasferimento delle ricchezze verso il mondo finanziario. Per riassumere, la finanza è stata il mezzo per mantenere alta la domanda di consumi, e nello stesso momento è stata un fine, garantendo tassi di profitti sempre più elevati ai grandi capitali. Le due cose sono strettamente legate: di fatto il 5% più ricco della popolazione diventa sempre più ricco e utilizza il surplus di reddito che non viene consumato per erogare prestiti al 95% della popolazione. Detta in maniera ancora più semplice, la finanza prestava ai cittadini, con i dovuti interessi, i soldi che le aveva sottratto. E quando i soldi sottratti sono diventati troppi, quando i redditi si sono polarizzati eccessivamente verso i più ricchi, il giocattolo si è rotto e la montagna di debiti è franata. Negli Stati Uniti, negli anni Settanta, l’1% più ricco della popolazione deteneva il 9% dei redditi, mentre nel 2007 la quota era salita al 23,5%, esattamente la stessa percentuale del 1928, alla vigilia della Grande Depressione. La ricchezza del 5% più ricco della popolazione è passata dal 22% del 1983 al 34% del 2007 così come è passata dal 24% del 1920 al 34% del 1928. Sembra proprio che oltre una certa soglia di disuguaglianza la società vada incontro a una crisi sistemica e a una vera e propria disgregazione per eccessiva concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi….
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