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Basteranno tutti i soldi del mondo?

Stati Uniti, Giappone, Cina, Gran Bretagna, Germania e altri paesi stanno stanziando somme enormi contro la crisi. Ma i conti difficilmente torneranno

Per provare a superare la crisi si stanno stanziando somme enormi in molti paesi, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, al Giappone ed alla Cina, ma sorgono grandi dubbi, tranne che per quest’ultimo paese – e per pochissimi altri, come la Germania o il Brasile-, sulla fattibilità finanziaria di tali programmi.

Siamo convinti e lo abbiamo già scritto su questo stesso sito, che quella in atto non è, al fondo, una crisi finanziaria o principalmente finanziaria, anche se poi essa si è manifestata fortemente sotto forma finanziaria. Il nucleo centrale delle difficoltà sembra debba essere ricercato nel fatto che il motore stesso della crescita economica, negli Usa come in Gran Bretagna, sia scoppiato. La crescita dell’economia poggiava su di una politica di consumi crescenti da parte delle famiglie, finanziati da un livello di indebitamento in forte aumento; questo, in relazione alla ripartizione a loro danno dei frutti della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica e, in particolare, al ridimensionamento del peso del fattore lavoro rispetto a quello del capitale nella composizione del pil. Parallelamente, aumentavano enormemente anche i debiti del sistema finanziario che, tra l’altro, si è ridotto nel tempo ad una vera e propria bisca, dove si giocava per di più con i soldi degli altri.

Ma anche se la crisi ha il suo cuore nelle difficoltà dell’economia reale, i vincoli dati dalla situazione e dalle prospettive dell’area finanziaria condizionano e condizioneranno comunque in maniera molto pesante i problematici tentativi di uscirne. Si deve, tra l’altro, partire dal fatto, ormai indubitabile, che almeno i sistemi bancari statunitense e britannico sono in uno stato di virtuale fallimento. Ora, da questo punto di vista, va preliminarmente ricordato come senza il salvataggio e una adeguata ristrutturazione del sistema finanziario la riforma dell’economia reale non abbia neanche una possibilità su mille di realizzarsi. Inoltre ed in ogni caso, pensiamo che solo con estrema difficoltà l’area finanziaria, pubblica e privata, sarà nei prossimi mesi ed anni in grado di generare tutte le risorse necessarie per far uscire in maniera soddisfacente dalle difficoltà l’economia reale; saranno probabilmente necessarie soluzioni molto drastiche.

Il caso statunitense

Consideriamo a questo proposito soltanto il caso Usa. Elenchiamo a questo proposito alcuni elementi della situazione:

– il salvataggio delle banche richiederà, oltre ai 350 miliardi di dollari già spesi sul fronte della Tarp, una somma ulteriore valutabile tra uno e diversi trilioni di dollari. In effetti, le cifre relative alle perdite sin qui dichiarate dalle banche a livello mondiale sembrano arrivare sino a 1,4 trilioni di dollari; ma esse sono, come è noto, molto inferiori alla realtà. Una stima complessiva del gennaio 2009 (Roubini, Parisi-Capone, 2009) parla ormai di 3,6 trilioni, mentre da altre fonti si teme che alla fine la dimensione effettiva del disastro possa andare anche molto al di là. Almeno la metà delle perdite vanno attribuite alle banche statunitensi. Lo stesso Roubini valuta così che ci sia bisogno di nuove immissioni di capitale nelle stesse per una cifra che si può collocare tra 1,0 e 1,4 trilioni di dollari.

Ma bisogna anche aggiungere che le stime citate non prendono in considerazione un’altra, fondamentale, fonte di perdite. Negli scorsi anni ci sono state molte ed importanti fusioni bancarie, a prezzi spesso molto gonfiati. Esse hanno portato nell’attivo di bilancio delle banche aggregatrici il valore dell’avviamento, ovvero della differenza positiva tra il prezzo pagato per gli istituti comprati e il loro valore contabile. Ma con dei prezzi di mercato delle banche ora pari si e no al 10-20% di quello registrabile meno di un paio di anni fa, il valore dell’avviamento si è nella realtà sostanzialmente azzerato. Questo significa che ci troviamo di fronte ad un’altra grande fonte di perdite che, per le sole banche statunitensi, può essere stimata in circa 400 miliardi di dollari (Gros, 2009).

Non si può quindi, tra l’altro, chiedere alla gran parte delle banche, nell’attuale situazione, di prestare di più alle imprese ed ai privati: esse non sono semplicemente in grado di farlo e, per altro verso, comunque in un periodo come questo prestare dei soldi diventa un esercizio di frequente molto rischioso.

Una parte del problema, ma solo una parte, può essere preso in carico dalle banche centrali, almeno di alcuni paesi. Negli Stati Uniti è all’opera per aiutare ad alleviare i problemi anche la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC). Ma il buco appare per il momento quasi senza fondo. Va incidentalmente sottolineato che il nuovo piano di salvataggio del sistema finanziario messo a punto da Geithner appare, almeno dalle informazioni sino ad oggi disponibili, sostanzialmente e largamente inadeguato;

– per quanto riguarda poi la spesa per una possibile nuova partenza del sistema economico, se si vuole ottenere un impatto significativo essa dovrà collocarsi, secondo diverse fonti, almeno intorno agli 800 miliardi di dollari all’anno, circa il doppio di quanto si accinge a spendere Obama e lo sforzo, per essere efficace, dovrebbe protrarsi più a lungo di quanto ufficialmente previsto. Come qualcuno ha osservato, il piano del nuovo presidente Usa, nella sua forma originaria, appare “troppo piccolo, pieno di sprechi, non focalizzato sui punti chiave” (Wolf, 2009, a). Le nuova versione messa a punto dalla Camera dei Rappresentanti e dal Senato peggiora ulteriormante le cose. In ogni modo, per il 2009 si stima che il deficit di bilancio potrebbe collocarsi almeno intorno ai 1500-1600 miliardi di dollari, contro i 470 circa del 2008;

-tutto questo senza considerare i possibili interventi sul settore sanitario e su quello della sicurezza sociale;

-bisogna anche ricordare che, con l’aggravarsi della situazione, molti settori industriali stanno chiedendo o chiederanno l’aiuto dello stato, negli Stati Uniti come altrove. Dopo le banche e l’auto, bisognerà intervenire per la componentistica per l’auto, l’edilizia, l’acciaio, il tessile, mentre le stesse imprese della Silicon Valley stanno già cominciando a dire che non ce la fanno più a sostenere la concorrenza.

Accenniamo infine, venendo brevemente al quadro internazionale, soltanto a due cose. Intanto ricordiamo che, per aiutare i paesi finanziariamente più deboli, il Fondo Monetario Internazionale avrebbe bisogno in questo momento di circa 1000 miliardi di dollari, a fronte di una disponibilità di circa 250. Inoltre, se esaminassimo il caso della Gran Bretagna, ci renderemmo conto che la situazione appare ancora più intricata e irta di difficoltà di quella statunitense.

E’ stato così stimato ( Oakley, 2008) che, durante il 2009, i governi dei paesi ricchi, per far fronte ai bisogni, dovranno emettere nuovi titoli di stato per circa 3 trilioni di dollari. Il corrispondente valore per il 2008 è stato di circa 1 trilione. Per quanto riguarda i soli Stati Uniti, alcune stime specifiche parlano di 2,2 trilioni di dollari, sempre per il 2009. In ogni caso, le nuove emissioni del 2008 e del 2009 del paese supereranno certamente come valore complessivo quelle effettuate nei 27 anni precedenti messi insieme (The Economist, 2009).

Qualcuno potrebbe obiettare che il peso delle emissioni pubbliche sui mercati potrebbe essere molto attenuato dal fatto che le imprese private e le altre istituzioni, in relazione alle difficoltà in atto, dovrebbero nel 2009 collocare sui mercati meno titoli che nell’anno precedente; ma si tratta di possibilità che le cifre delle emissioni di gennaio non sembrano confermare e va anche considerato che, d’altro canto, gli stessi organismi hanno invece bisogno, per andare avanti, di molte nuove risorse. Per un altro aspetto della questione si veda più avanti. Uno studioso (De Cecco, 2009) avanza anche l’ipotesi che una parte molto consistente dei programmi di intervento degli Usa e degli altri paesi sarà in realtà spalmata finanziariamente sui prossimi anni e peserà quindi in maniera moderata sull’anno in corso. Ma bisogna anche ricordare che molti investitori, falcidiati dale perdite in borsa e da quelle sui mercati immobiliari e delle materie prime, avranno meno soldi a disposizione e forse anche minore voglia di spendere i fondi residui.

Breve e lungo termine

Questa enorme massa di possibili emissioni comporta diversi problemi nel breve e nel lungo termine.

La prima questione immediata riguarda la possibilità stessa di trovare tutti gli investitori disposti a sottoscrivere tale montagna di carta mentre, tra l’altro, si cerca invece in queste settimane di aprire irresponsabilmente le ostilità verso il principale creditore attuale e potenziale degli Stati Uniti, la Cina. In ogni caso, i principali sottoscrittori “storici” dei titoli di stato Usa, la stessa Cina, il Giappone, i paesi petroliferi, alle prese con i loro problemi interni e con la contrazione in atto del volume del commercio internazionale e dei prezzi del petrolio, avranno, con tutta la loro possibile buona volontà, presumibilmente minori risorse finanziarie a disposizione.

La seconda ha a che fare con dei possibili effetti di spiazzamento di tali emissioni sui mercati internazionali. Il potenziale effetto di crowding out riguarda intanto la minaccia che la richiesta di risorse finanziarie da parte del settore pubblico possa mettere in difficoltà il sistema delle imprese, che potrebbero trovare a questo punto ancora più complicato reperire i fondi di cui avranno bisogno nel corso di un anno che si annuncia già di per se molto difficile. Un’altra minaccia fa riferimento alla possibilità che le emissioni degli stati ricchi sui mercati finanziari spiazzino quelle dei paesi emergenti, che hanno già, per altri versi, alcuni grandi problemi.

Nel medio- lungo termine le difficoltà non appaiono certo minori. Nessuno sino ad oggi ha ancora indicato chi pagherà i costi della crisi e quali caratteristiche avrà il piano di rientro nell’arco di tre-cinque anni ed oltre.

Dal punto di vista dello stato Usa, nei prossimi anni la quadratura complessiva dei conti si potrà trovare o in un forte innalzamento dei tassi di inflazione –che appare di solito il modo almeno apparentemente meno doloroso di risolvere il problema-, e/o in un rilevante aumento della pressione fiscale –mentre il piano Obama prevede per il 2009 una sua riduzione e non è neanche programmato di aumentare le aliquote per i contribuenti più abbienti. Appare contemporaneamente difficile pensare che non si debba almeno arrivare ad un rilevante aumento dei tassi di interesse sul prestito sovrano statunitense e restare per altro verso tranquilli per quanto riguarda la stessa sorte del dollaro, che appare in prospettiva molto in difficoltà.

Conclusioni

In conclusione, può darsi che gli aspetti finanziari dei piani di stabilizzazione e rilancio non siano stati presi in considerazione in modo adeguato. Gli importi di spesa sopra ricordati non sembrerebbero in realtà finanziariamente sostenibili sulla base delle ipotesi sinora avanzate ed avviarsi per tale strada potrebbe comportare dei rischi molto grandi e che potrebbero spingere il mondo verso una crisi ancora più grave.

Alla fine, appare molto difficile, almeno sulla base dei vincoli posti dai piani sinora presentati (Wolf, 2009, c)–niente nazionalizzazioni, tutela dei creditori, degli azionisti e dei manager delle banche, nessuna ulteriore richiesta di altri soldi alle Camere-, varare dei programmi di intervento che tendano alla ripresa dell’economia nelle dimensioni attualmente immaginate; tutto quello che si potrebbe forse cercare relisticamente di fare sarebbe di provare a contenere la inevitabile caduta entro limiti almeno relativamente moderati, scegliendo con estrema cura le aree prioritarie di intervento. In caso diverso, chi l’ha detto che gli stessi stati non possono andare in default?

Almeno per quanto riguarda il settore bancario, lo storico conservatore Niall Ferguson (Ferguson, 2009) propone un piano di copertura alternativo drastico e che considerebbe, tra l’altro, la possibilità di tagliare per legge i debiti delle banche; così, ad esempio, si potrebbero ridurre del 20% quelli verso i possessori di obbligazioni. Tale proposta, pur nella sua drammaticità, avrebbe se non altro il merito di affrontare il problema complessivo in maniera coerente, anche se lascerebbe gli attuali azionisti e manager al comando degli istituti, cosa invece secondo noi da mettere in discussione. G. Soros, in alcuni suoi interventi recenti (Soros, 2009), aggiunge a sua volta un’ipotesi ancora più drastica e per altro verso anche più rischiosa. Si tratterebbe, come nella proposta precedente, di tagliare i debiti accumulati, ma, contemporaneamente, di ricapitalizzare le banche e di accrescere il livello di stampa di moneta. Con le conseguenze e i problemi che ne seguirebbero.

Il mondo si trova forse di fronte ad un problema enorme. Ma naturalmente speriamo fortemente di essere smentiti dai fatti.

Testi citati nell’articolo

-De Cecco M., Se il re dollaro non fosse più moneta di riserva, La Repubblica, Affari & Finanza, 9 febbraio 2009

-Ferguson N., Beyond the age of leverage: new banks must arise, The Financial Times, 3 febbraio 2009

-Gros D., Another Trillion-dollar hole, The Wall Street Journal, 11 febbraio 2009

-Oakley D., Emerging economies face rush for credit, www.ft.com, 28 dicembre 2008

-Roubini N., Parisi-Capone E., RGE monitor estimates 3.6 trillion loan and securities losses in the U.S., www.rgemonitor.com, 22 gennaio 2009

-Soros G., Ecco le cinque mosse per salvare l’economia, la Repubblica, 11 febbraio 2009

The Economist, Too much of a good thing, 6 febbraio 2009

-Wolf M., Why Davos Man is waiting for Obama to save him, The Financial Times, 4 febbraio 2009, a

-Wolf M., Why Obama plan is still inadeguate and incomplete, www.ft.com, 13 gennaio 2009, b

-Wolf M., Why Obama new Tarp will fail to rescue the banks, The Financial Times, 11 febbraio 2009, c