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Basta trasferimenti alle imprese, servono investimenti pubblici

Le imprese italiane possiedono un patrimonio tra i più elevati del Gruppo dei 7. Il 20 per cento più ricco delle famiglie possiede 6 trilioni di euro, pur nel ristagno dell’economia da Covid-19. Da il manifesto.

Di fronte alla recessione innescata dalla pandemia la domanda globale va sostenuta con robuste iniezioni di spesa pubblica, ancorché in disavanzo. Devono potenziarsi gli ammortizzatori sociali. Ciò vale in specie per chi senza cassa integrazione perderebbe il lavoro, per chi non lo ha ovvero era “in nero”, per i poveri come pure per chi – piccoli imprenditori e autonomi compresi – non era povero ma ha visto il suo reddito scemare e dispone di poco risparmio.

Lo Stato può spingersi sino a garantire parte dei prestiti che le banche accordano, in particolare alle imprese. Le banche devono però pur sempre acquisire dati veridici sul merito di credito dei richiedenti. Andrebbero inoltre temporaneamente sollevate dal rischio penale legato ai casi di fallimento degli affidati, che saranno frequenti, e delle revocatorie fallimentari.

Vi è, tuttavia, un limite da non superare. E’ quello di trasferire alle imprese private medio-grandi risorse pubbliche addirittura a fondo perduto e/o nella forma di capitale di rischio – le perdite sono praticamente certe! – fra l’altro lasciando il controllo e la gestione in mano agli attuali azionisti e amministratori. Una nuova IRI è irrealizzabile. Lo Stato deve sostenere la domanda, coprire la Cassa integrazione, aiutare chi ha bisogno. Il capitale compete ai proprietari delle imprese.

Non è solo questione di moral hazard. Eletto a sistema, il cadeau che il mondo degli affari addirittura pretende dallo Stato collide col paradigma allocativo su cui si fonda un’economia di mercato capitalistica. In media, lungo un quarto di secolo gli azionisti e gli amministratori privati italiani hanno realizzato profitti e utili, anche lauti. Le imprese hanno potuto ridurre i debiti al di sotto del 40% delle passività di bilancio. Si sono avvalse di bassi salari, di una spesa pubblica incontrollata nelle forniture, negli appalti, nei contributi, dell’evasione ed elusione delle imposte. Hanno esportato capitali, persino illegalmente. Soprattutto, lungo un quarto di secolo la più gran parte degli azionisti e amministratori ha investito poco e male nelle proprie imprese. Sia pure con meritevoli eccezioni e a differenza di altre fasi storiche, le imprese non hanno innovato, hanno lasciato che la produttività – del lavoro e totale dei fattori – ristagnasse, hanno continuato a confidare in qualche deus-ex-machina.

Oggi i capitalisti italiani sono chiamati a far leva, più che sui trasferimenti statali, sui loro patrimoni, che sono cospicui e per superare le attuali difficoltà andrebbero investiti nell’azienda. La categoria “famiglie” dei conti finanziari – che comprende gli averi dei proprietari dei 4,4 milioni di imprese nostrane (in media con meno di quattro addetti, il bar all’angolo) – possedeva alla fine del 2017 un patrimonio netto di 9,7 trilioni di euro (per il 54% “reale”, per il 46% “finanziario”), pari a quasi quattro volte il debito pubblico e oltremodo concentrato (l’indice di Gini nel 2016 era stimato in 0,61). Nonostante il ventennale ristagno dell’economia, in rapporto al reddito disponibile (8:1) una tale ricchezza resta la più elevata fra i paesi del Gruppo dei 7.

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