Le più recenti forme di organizzazione del lavoro – imposte dalla “sharing” e gig economy – rendono necessario un ripensamento delle politiche sui tempi di lavoro
La cronaca degli ultimi mesi ha riportato al centro del dibattito pubblico il nesso che lega i processi di innovazione tecnologica e le dinamiche del mercato del lavoro, attualizzando tendenze che stanno modificando alla radice gli assetti produttivi e i modi di produzione capitalistici. Elementi comuni collegano le vertenze dei lavoratori di Almaviva, in seguito al piano di ristrutturazione produttiva e agli esuberi del personale addetto ai call center, le proteste dei tassisti contro il colosso della sharing economy Uber e le rivendicazioni dei lavoratori impiegati nella Grande Distribuzione. Un elemento che svolge un ruolo centrale nel ricollocare le specificità settoriali in un terreno unitario è legato alla rapida ascesa dei colossi dell’economia digitale e al ruolo di avanguardia del processo produttivo esercitato dagli oligopoli privati. Amazon, Uber, AirBnb non sono semplicemente leader nei settori del trasporto o degli alloggi, ma sono gli attori che stanno modificando la geografia degli assetti produttivi, agendo nella direzione di un’ unificazione dei processi di lavoro e dell’organizzazione della produzione. Ed è in quest’ottica che vanno collocate le tensioni che si producono nei confini della catena globale del lavoro, a partire dall’intensificazione dei ritmi, dall’iper sfruttamento della forza lavoro impiegata e dal massiccio ricorso alle innovazioni tecnologiche come leva di ristrutturazione della produzione e di indebolimento dei conflitti produttivi. Il ricorso massiccio a forme di intermediazione di manodopera, come nel caso delle cooperative spurie, risponde all’esigenza di abbattere il costo del lavoro e collegare l’intera filiera produttiva al comando dei monopoli. La frammentazione del processo produttivo con l’esternalizzazione del ciclo di produzione svolge quindi la funzione di eludere le forme tradizionali di controllo sull’organizzazione del lavoro e di riunificare l’intero ciclo di produzione alle esigenze imposte dai vertici della catena.
Le proteste dei tassisti contro il processo di uberizzazione del trasporto privato è emblematico della capillarità della trasformazione in corso, che attaccando le forme tradizionali di produzione sul piano dei costi e dell’organizzazione del servizio (maggiore disponibilità di orario, migliore reperibilità, vantaggi sulle tariffe) spinge fuori dalle dinamiche del mercato interi settori. In questa prospettiva il ruolo delle tecnologie è funzione del controllo monopolistico del mercato, che riducendo le resistenze delle forme tradizionali di organizzazione della produzione, modifica il rapporto tra produzione e consumo, determinando i prezzi e le forme degli scambi commerciali. Un nesso, quello tra produzione e consumo, che resta in secondo piano nelle analisi correnti, ma che svolge invece un ruolo centrale nel cogliere le trasformazioni in corso. Una questione che apre a due considerazioni principali. La prima attiene alla dimensione centrale del consumo, come dimensione prevalente nella logica di accumulazione capitalistica. Le economie digitali, la velocità dello scambio commerciale, l’ampia diffusione di dispositivi informatici è funzionale a rispondere alle esigenze di immediatezza del consumatore. Come è stato notato dietro la logica dell’economia on demand si nasconde l’asservimento della produzione alla logica del consumo. A questa prima tendenza si aggiunge il nesso tra l’impoverimento della domanda di beni e servizi e la perdita in termini salariali e di tutele normative del lavoratori che producono quei beni e servizi. I consumatori delle piattaforme come Uber o gli acquirenti che si rivolgono ad Amazon lo fanno in ragione non solo della velocità dello scambio ma della riduzione del costo del servizio acquistato. In questo quadro produzione e consumo conservano un nesso inestricabile, che contiene in sé un potenziale di trasformazione degli assetti dominanti.
La riduzione dell’orario e controllo sulla domanda di lavoro
Nel dibattito corrente si tende ad individuare una relazione causale tra innovazione tecnologica e riduzione dei posti di lavoro. Un assunto che allo stato attuale appare quantomeno discutibile e caratterizzato da un alto livello di problematicità. Se infatti appare indubbio che la robotizzazione di intere fasi di produzione, largamente standardizzabili, produca una perdita netta di posti di lavoro, gli assetti produttivi e le dinamiche del mercato del lavoro appaiono largamente segnati dalla segmentazione e polarizzazione della domanda di lavoro. Da una parte la richiesta di lavoro si dirige verso lavoratori dotati di alte competenze in grado di rispondere alla specializzazione produttiva, dall’altra si assiste ad una domanda a bassa qualificazione e legata ad attività a scarso valore aggiunto. L’introduzione di nuove tecnologie che consentono di raggiungere ampi margini di produttività implica, quindi, una riorganizzazione del processo di lavoro, determinando a valle fasi di sfruttamento intensivo della forza lavoro. Un fenomeno che risulta particolarmente evidente nei settori che collegano la produzione al consumo come la grande distribuzione o il settore del delivery, ultimamente balzato agli onori della cronaca con i casi dei fattorini di Foodora e Carrefour. Il processo di lavoro condensa una tensione tra alcune fasi altamente automatizzate, in cui il lavoro vivo viene incorporato in macchinari o piattaforme digitali, e fasi caratterizzate dall’intensificazione dei ritmi e delle forme di controllo sui tempi di lavoro.
In questo quadro, il terreno dell’organizzazione del lavoro acquista centralità nel determinare il ciclo di accumulazione e la combinazione dei fattori di produzione fissi (capitale) e variabili (lavoro). Il controllo sulla domanda di lavoro diventa sempre più determinante per vincolare le strategie di investimento delle aziende, a partire dall’uso della tecnologia e dal controllo sul processo di lavoro. Un tema che richiede un ripensamento delle politiche sui tempi di lavoro, che sottraendo alle aziende la piena disponibilità nella definizione delle forme e dell’intensità dei processi produttivi, consentirebbe di agire direttamente sul differenziale tra profitti e salari. Infatti, misure di riduzione del tempo di lavoro affiancate ad una riforma del diritto del lavoro, che elimini la giungla dei contratti atipici in favore di un contratto unico a tempo indeterminato, avrebbero il merito di garantire margini di autonomia ai lavoratori nella contrattazione dell’organizzazione del lavoro, riducendo il comando unilaterale delle aziende sulle condizioni di lavoro. Una prospettiva che richiede l’introduzione per via legislativa di una durata settimanale dell’orario di lavoro, accompagnata da una maggiorazione fiscale sul ricorso agli straordinari, in modo da uniformare le condizioni di lavoro nei vari settori produttivi e arginare la tendenza alla frammentazione del processo produttivo in un’ottica di risparmio del costo del lavoro. Politiche di redistribuzione dell’orario avrebbero inoltre il merito di liberare il tempo della riproduzione sociale dal dominio del mercato, rispondendo ad un bisogno di autonomia che si estenda dai confini del lavoro produttivo a quello della società.