Panzieri, Marx, Mao e Lenin. L’inchiesta operaia e l’esperienza nel sindacato. A pochi giorni dalla scomparsa ripubblichiamo un’autointervista di Vittorio Rieser
Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali le eventuali figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?
Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dell’esperienza dei Quaderni Rossi?
Inchiesta e conricerca: quali sono, secondo te, le differenze e le analogie, le ricchezze e i limiti dell’una e dell’altra?
Ci furono delle dispute tremende fin dall’inizio su questo. In un seminario a Meina (a cui tra l’altro Panzieri non venne perché era fuori dall’Italia) ci fu uno scontro tra quelle che venivano chiamate l’inchiesta dall’alto e l’inchiesta dal basso, che era sostenuta da Romano e da altri. In realtà, secondo me anche quella era una disputa abbastanza astratta, tra due metodi sociologici. La conricerca è il metodo fondamentale, ma vuol dire disporre di una forza organizzata, va bene se la fai con degli operai che stai organizzando o che sono organizzati e quindi si lega strettamente a una pratica di lotta; noi non eravamo in condizioni di fare questo, tanto meno quando poi eravamo da soli, ma anche il sindacato era in una fase in cui alla Fiat non era in grado di organizzare la lotta. Fra l’altro, noi giustamente (e questa è stata una scelta comune) abbiamo fatto l’inchiesta non solo con i pochi operai legati alla FIOM, ma attraverso canali vari si trattava di raggiungere operai ordinari: con quelli non potevi fare conricerca perché non avevi un progetto comune. Eravamo in una situazione in cui poi di fatto venne adottato un metodo di ricerca tradizionale, il che non significa che quello sia il metodo migliore. E’ per questo che dico che la disputa era astratta, perché quando hai la possibilità di fare conricerca è chiaro che è questo il metodo migliore, però se sei all’esterno di una situazione e l’inchiesta è il primo strumento di presa di conoscenza di quella realtà ovviamente devi ricorrere a metodi tradizionali, non nel senso di fare questionari quantitativi (quando puoi farli vanno bene anche quelli), ma devi usare con il dovuto senso critico dei metodi tradizionali di ricerca. Allora, anche grazie a Panzieri, eravamo frequentati e potevamo attingere a sociologi e studiosi importanti, da Pizzorno a Momigliano a Gallino, che venivano ai nostri seminari. Devo dire che un elemento risolutore fu Gallino, il quale di fronte alle nostre dispute elaborò un’esemplare analisi marxista della situazione di classe e di tutto il resto, e in qualche modo ci fece fare un salto in avanti. Adesso Gallino è un po’ ritornato a questo, il suo percorso è stato vario, le ultime cose sono di nuovo di quel tipo.
Da come tu affronti il problema dell’inchiesta e della conricerca emerge il nodo di che soggettività ci si trova. Come avete affrontato in quel periodo la questione della soggettività all’interno del gruppo dei Quaderni Rossi e in una dimensione più ampia di settori di classe? C’è infatti un grosso interrogativo: è stato posto il problema della soggettività all’interno di questo progetto politico oppure no?
È stato posto, però qui vanno proprio distinte due fasi. Inizialmente è stato affrontato in modo sostanzialmente unitario, tenendo conto che in tutto questo periodo, almeno fino al ’62, noi ci misuravamo con la Fiat, non ancora con la situazione di classe complessiva. Nella fase prima dell’esplodere delle lotte alla Fiat c’era una soggettività perlomeno conflittuale della classe operaia, verificavamo su cosa si sviluppava e quali erano gli ostacoli alla sua traduzione in lotta. Quindi, questo era il livello di allora, e sin qui la cosa ha funzionato. Il problema è diventato molto più avanzato quando, già prima del ’62, ma soprattutto in quell’anno sono esplose le lotte, anche alla Fiat, e comunque la lotta di classe ha raggiunto livelli alti pure nel resto d’Italia, dove non era una novità. Dunque, a quel punto c’era il problema se affrontare il tema della soggettività sul piano di classe complessivo, che rapporto c’era con la strategia politica ecc.: lì noi non siamo stati all’altezza. Da un lato, quelli che poi hanno dato vita a Classe Operaia secondo me hanno dedotto idealisticamente una soggettività della classe operaia anticapitalistica, che andasse al di là del piano del capitale, che non aveva fondamenti reali, portava direttamente sul piano ideologico. Quelli come me che in questo non credevano, a quel punto si riducevano però a fare le pulci al sindacato, cioè a partire da quello che era il dato di fatto delle lotte sindacali e a fare una continua critica da sinistra a queste lotte sostenendo che la soggettività della classe operaia avrebbe richiesto una strategia più avanzata e più adeguata. Panzieri scomparve troppo presto perché, secondo me, lui avrebbe avuto una capacità di sintesi. La rottura con i compagni che poi hanno dato vita a Classe Operaia l’ha decisa lui, pur essendo stato quello che li conosceva meglio ed era loro più vicino: quindi, respingeva radicalmente quelle posizioni, considerava la visione di Tronti idealistica, più alla Bruno Bauer che alla Karl Marx. Però, Panzieri forse avrebbe avuto una capacità di sintesi. Di fatto, poi a quel punto queste due anime si sono mosse su terreni molto diversi: noi abbiamo continuato a fare le pulci al sindacato, a organizzare gruppi di sinistra di lavoratori, per esempio all’Olivetti, che facevano una battaglia nel sindacato, mentre Classe Operaia sapete meglio di quanto possa dire io che percorso ha seguito.
C’è un interrogativo che si pone sul nodo tra soggettività e progetto. O la soggettività viene intesa come qualcosa di dato, che c’è e quindi come tale mette in campo una sua caratterizzazione, una sua forza, una sua capacità di essere contro, e può essere un’ipotesi; oppure l’altra potrebbe essere che comunque la soggettività ha una sua dimensione di formazione e di sviluppo all’interno di un percorso. In quest’ultimo caso, come la categoria del progetto entra in rapporto con la questione della soggettività?
Su questo io do una risposta adesso, ma non so dire allora. Torno ai miei itinerari formativi: rispetto ai grandi pensatori e leader politici del marxismo, io ho cominciato con Marx attraverso Panzieri, poi sono arrivato a Mao dopo, quando Raniero era già morto, diciamo all’epoca delle rivoluzione culturale, e da lì sono giunto anche a Lenin. Quindi, la risposta che do è di tipo maoista: la soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di costruito dall’avanguardia, dal partito. La soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e però molto spesso è disorganica, contraddittoria, che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa. Secondo me, dal punto di vista teorico l’impostazione maoista resta l’unica valida, perché in Lenin c’è un’accentuazione kautskiana molto forte sul ruolo dell’avanguardia, mentre la risposta di Mao è la più realistica.
Nello specifico della situazione italiana, ma anche più in generale nella tradizione comunista (forse con qualche diversità proprio per la dimensione maoista), il procedere dei percorsi dà sempre luogo a dei gruppi (siano essi piccoli o grandi), in cui poi il rapporto dialettico e di crescita nella critica e nel confronto tra posizioni non convergenti dà luogo a fratture. Ad esempio, in Italia ciò è stato un grande handicap per le possibilità di sviluppo di un progetto politico: se si guarda alla storia dagli anni ’50 in poi le dimensioni di certi tipi di proposta di trasformazione o rivoluzionaria sono sempre attraversati da storie di frantumazione in gruppi che però, mentre si frammentano, sicuramente motivati da differenze teoriche e di percorsi, in realtà abbandonano quello che è uno dei problemi grossi, ossia il come si accumula una forza per avere un progetto che sia in grado di contare. Forse Mao ha, almeno in parte, avuto la capacità di rompere e poi riutilizzare in una sintesi diversa. Mentre il progetto dei capitalisti riesce comunque a utilizzare le proprie differenze per poi arrivare ad una sintesi che lo porta in avanti in termini di progetto, come mai, secondo te, da parte di chi cerca di costruire delle alternative a questo sistema non c’è mai stata la capacità di utilizzare le differenze nella visione di una sintesi progettuale?
C’è comunque il fatto che la situazione è disuguale perché il capitalismo ha il potere, che deve conservare e gestire, e questo è un poderoso fattore di sintesi: ovviamente quando tu sei fuori e lotti contro non hai questo elemento. Dopo di che ci sono dei fattori poltico-culturali: nel Partito Comunista ha pesato una logica staliniana ma prima ancora leninista, cioè una logica di rottura e di settarismo, non nel senso solo spicciolo ma proprio teorico. Mentre nei paesi a dominanza socialdemocratica i gruppi di estrema sinistra spesso avevano caratteristiche leniniste o addirittura staliniste, in Italia, essendoci un grosso partito comunista, pochi gruppetti hanno avuto caratteristiche staliniste o anche solo leniniste ortodosse. Lì, però, secondo me c’era il fatto che i gruppetti erano comunque dominati da intellettuali di sinistra, nei quali la logica della rottura era basata non tanto su uno schema teorico rigido e settario, quanto sull’amore per le proprie idee, quindi sul litigio. Il radicamento di classe che comunque era limitato più la tendenza degli intellettuali a litigare, a essere pronti a sacrificare l’organizzazione per difendere una propria idea, faceva sì che non ci fosse un senso di responsabilità verso la classe, perché non si aveva un rapporto così forte da essere richiamati a questo. In più c’era il fatto che si era in una dimensione di ricerca. Il tema che ha percorso la storia dei Quaderni Rossi ma anche dopo era: quali possono essere le vie di una rivoluzione nei paesi di capitalismo avanzato. Quindi, si era in una dimensione di ricerca, non si aveva qualche cosa di consolidato da difendere e su cui dire “a partire da questo ci confrontiamo”: invece, ogni ipotesi diversa di ricerca portava a costruire la piccola organizzazione che la seguiva. Per quanto riguarda la storia del Partito Comunista Cinese ciò può essere vero per la prima fase, ma quando poi Mao riesce a vincere la dialettica interna non è più di tipo staliniano. Prima gli avversari vengono in certi casi consegnati alla polizia di Chiang Kai-shek o cose di questo tipo. Dopo di che il problema si ripresenta dopo la presa del potere e Mao ha questa intuizione geniale che poi si manifesta nella rivoluzione culturale, ossia il fatto che le contraddizioni interne al partito vanno affrontate a livello di massa, traducendole fino al livello della guerra civile, perché poi la rivoluzione culturale fu per certi versi una guerra civile. Da un lato era un’intuizione geniale, però alla fine è stata sconfitta. Quindi, sul come affrontare questo tema in condizioni di dittatura del proletariato probabilmente non c’è risposta possibile. Mao ci provò, e questo significava quindi una lotta insieme molto più dura però con una logica non burocratica: non era un processo, magari di eliminazione fisica sì ma non ad opera dello Stato, quindi emergevano momenti di lotta armata all’interno proprio nella società. Ciò è certamente diverso da qualsiasi altra cosa, purtroppo poi non ha però funzionato neanche questo.
Hai già citato alcune figure particolarmente importanti nei tuoi percorsi formativi: complessivamente, quali sono i tuoi numi tutelari?
Di fatto ho citato Panzieri, Marx, Mao e Lenin. Probabilmente ce ne sono tante altre, ma è una cosa a cui non ho mai pensato. Le altre sono figure che hanno inciso sotto aspetti diversi: visto che bene o male io come mestiere ho fatto il sociologo, ci sono una serie di autori di riferimento che, anche se indirettamente, poi incidono pure sull’azione politica, nel senso che provi a fare pezzi di analisi della società o pezzi di inchiesta, però non c’entrano, sono su un altro livello. Per esempio, Max Weber è un riferimento importante, con implicazioni anche politiche: le cose che lui diceva sulla nascente Unione Sovietica erano profetiche e offrono strumenti per una lettura critica della società sovietica non di tipo anticomunista. Io poi, anche per ragioni pratiche, sono un intellettuale molto ignorante, per cui non ho letto mica tanto: però, qualche volta uno ha degli autori particolari, tipo appunto Weber o Herbert Simon (che è morto l’anno scorso), quindi due o tre riferimenti all’interno di quella che si può chiamare la scienza sociale borghese. Marx distingueva l’economia borghese, cioè Ricardo, dall’economia volgare: anche Panzieri, nell’ultima cosa che fece, un seminario nel ’64, distinse tra la scienza sociale borghese, con elementi di verità importanti, e poi buona parte della letteratura sociologica che è di tipo volgare.
Quali sono stati i tuoi percorsi successivi alla fine dell’esperienza dei Quaderni Rossi?
Che rapporto c’è tra la tua formazione politica e quello che è poi stato il tuo percorso professionale?
Il problema è che le mie scelte professionali sono sempre state subordinate a quelle politiche. Per fare un esempio, io volevo laurearmi in Storia perché mi piaceva, poi mi sono laureato in Sociologia in quanto ciò serviva per l’inchiesta alla Fiat e queste cose qui. Successivamente, per un po’ sono stato assistente volontario di Gallino, con il movimento del ’68 sono andato via dall’università, insegnavo alla scuola serale perché questo andava benissimo con i turni alla Fiat, in quanto noi facevamo la riunione alle 14.30 all’uscita del turno, poi io alle 19 andavo a scuola, finivo alle 22.30 e arrivavo in tempo per il secondo turno. Successivamente sono andato ad insegnare a Modena per ragioni di nuovo organizzativo-politiche, in quanto, avendo responsabilità nazionali in Avanguardia Operaia, dovevo potermi spostare: la scuola serale aveva un gran vantaggio dal punto di vista degli orari, ma non potevo muovermi da Torino. In più AO era interessata alla facoltà di Modena proprio come luogo di elaborazione. Per cui io sono andato lì sostanzialmente per “meriti politici”: siccome quelli che insegnavano lì erano compagni, erano stati vicini ai Quaderni Rossi o addirittura dentro, come Salvati, e avevano un po’ la coda di paglia perché non avevano fatto il movimento del ’68 e invece avevano fatto carriera in università, mi hanno preso. Quindi, mi sono inserito all’università perché era più compatibile con la mia militanza, dopo di che il mio impegno politico è scomparso e sono rimasto lì. Però, quando poi sono stato stabilizzato e quindi la cosa è diventata possibile, nell’89 mi sono fatto mettere in distacco sindacale lavorando all’IRES CGIL qui a Torino, e adesso sono in pensione. Dunque, la mia carriera professionale non ha una sua logica, anche se a un certo punto mi sono trovato a fare il professore universitario in sociologia. Come diceva un compagno mio collega: gran brutto mestiere il professore di università, ma sempre meglio che lavorare! A quel punto la logica era quella.
Secondo te, c’è o c’è stata una specificità torinese nelle lotte e nella militanza?
Nella militanza non so, nelle lotte sì. Cito due aspetti. Una era una specificità che si riflette proprio nella storia del sindacato torinese, per esempio negli anni ’70. Torino ha avuto una rottura di continuità nell’organizzazione operaia più drastica che qualsiasi altra città: anche a Milano negli anni ’50 la CGIL andò indietro, gli scioperi magari non riuscivano, ma c’era un elemento proprio di continuità organizzativa e non c’era una cesura così grossa. Quindi, il sindacato torinese doveva ricostruire da zero il suo rapporto con la classe. Anche nei periodi di lotta alla Fiat, il primo sciopero non riusciva mai, quindi era sempre una scommessa. In Emilia si aveva una situazione in cui il 90% degli operai era iscritto al sindacato, sapevi che lo sciopero riusciva, spesso non lo facevi, nelle vertenze aziendali a volte non c’era bisogno di farlo perché il padrone sapeva già che lo sciopero sarebbe riuscito. Quindi, ciò non era dovuto a particolari posizioni “di destra” del sindacato, ma al fatto che tu andavi lì con la piattaforma, lui sapeva che lo sciopero sarebbe riuscito e non c’era bisogno di farlo. A Torino è sempre stato molto diverso: non a caso i delegati sono nati qui, in quanto il sindacato di Torino ha dovuto riproporsi il problema dell’organizzazione e del rapporto con le masse, non ha potuto semplicemente coltivare quello che già c’era, rafforzandolo solo. Quindi, le lotte hanno queste caratteristiche meno routinarie: a volte, anche nei periodi di forza, hai degli scioperi che non riescono, e a volte hai invece la classe operaia che scavalca il sindacato. L’altro elemento che riguarda la Fiat, e non Torino in generale, anche se poi influenza il resto, è la composizione di classe, quello che è stato chiamato l’operaio-massa. Già allora ma soprattutto adesso io tendo probabilmente ad avere una visione eccessivamente critico-riduttiva della soggettività dell’operaio-massa. Allargo un po’ il discorso. Avendo avuto la fortuna di occuparmi di Fiat con il sindacato fin dagli anni ’50 ho potuto misurare il salto di soggettività: andando ai cancelli e parlando quando distribuivo i volantini si capiva ciò che dal ’68 in poi si è manifestato a Torino, ti accorgevi proprio dell’emergere di una coscienza di classe, di una spinta anche antagonistica, dunque c’era una conoscenza molto quotidiana. Però, spesso in questo c’era un fondo qualunquista, del tipo che gli accordi, qualsiasi fossero, erano tutti uguali: la Fiat ha fatto degli ottimi accordi, ma venivano tendenzialmente considerati un bidone, l’idea che i sindacati fossero un po’ venduti non è mai scomparsa del tutto. Tra l’altro anche la qualità dei dirigenti operai emersi dalle lotte alla Fiat è rimasta bassa, salvo per i casi in cui hanno incontrato degli strumenti di formazione: spesso però queste situazioni, guarda caso, riguardavano operai relativamente più qualificati. Noi abbiamo fatto un po’ di formazione con i nostri operai, il sindacato la faceva ma anche in modo abbastanza superficiale, però all’interno di questo c’era per esempio tutto il gruppo che si era raccolto attorno a Ivan Oddone, uno psicologo del lavoro che è stato il primo che fin dagli anni ’60 con la CGIL ha impostato la lotta contro la nocività, l’analisi dei nuovi fattori di nocività legati all’organizzazione taylorista del lavoro e ha contribuito all’idea dei delegati in una forma moderna. Gli operai che hanno lavorato con lui avevano livelli molto elevati di coscienza politica. Però, c’era un elemento pesante dell’operaio-massa che era un limite. Alleggerisco quanto ho detto con un aneddoto, perché appunto del termine operaio-massa io ho sempre un po’ diffidato, anche se è efficace. Un compagno sindacalista, Gianni Marchetto, sostiene di avere l’itinerario opposto a quello che per la classe operaia teorizza Toni Negri: in quanto giovane immigrato ha cominciato come operaio sociale, scioperava solo per spaccare i vetri; poi è diventato operaio-massa, cioè operaio dequalificato in una grande fabbrica; infine, è diventato operaio di mestiere. Quando gli si chiede che esperienza ha avuto dell’operaio-massa, lui risponde: “quando ero segretario della lega di Mirafiori ne ho conosciuti due: Massa Giacomo, che era della manutenzione e iscritto al sindacato, e Massa Giuseppe, che era uno combattivo delle carrozzerie non iscritto”. E poi da lì chiede: “come vi spiegate che a Mirafiori il turno A ha sempre scioperato meglio del turno B malgrado avessero ovviamente la stessa composizione di classe? Perché la soggettività del singolo operaio c’entra, perché in uno c’erano certi operai e nell’altro certi altri”. Questo è un contributo teoricamente importante per il rapporto tra composizione di classe e soggettività.
Che cosa ci dici di Cesare Del Piano, che è stata una figura sicuramente significativa a Torino?
Del Piano io non l’ho conosciuto molto direttamente, quindi lo conosco più per sentito dire. Torino fu uno dei rari casi in cui non solo ci fu l’unità dei metalmeccanici, che c’era dappertutto, ma ci fu l’unità delle confederazioni e su una linea estremamente avanzata: basti pensare all’autoriduzione delle bollette, considerata uno scandalo anche nella CGIL nazionale, che a Torino fu fatta. Sostanzialmente l’unità tra i tre sindacati voleva dire Del Piano e Pugno, quindi CISL e CGIL. Dunque, Del Piano è una figura straordinaria, credo che ci sia una monumentale biografia su di lui. Era proprio un cattolico sindacalista, di quelli che per onestà da un lato e lucidità di idee dall’altro arrivava poi alle posizioni più avanzate. Quindi, è stato un fattore decisivo, prima nel dare una sponda ai sindacati di categoria, ma poi proprio per il fatto che Torino è uno dei pochi casi in cui c’è stato anche il tentativo (più convinto che altrove) di fare i consigli di zona. Dunque, lì è proprio una situazione in cui ha pesato l’influenza e il ruolo di Del Piano, anche perché era un’autorità indiscussa nel sindacato, ha avuto un ruolo molto importante.
Da questa ricerca si può ricavare un’interessante ipotesi. Da una parte l’operaismo è andato avanti proponendo una lettura socio-economica completamente nuova dell’entrata ritardata dell’Italia nel taylorismo-fordismo rispetto ad un PCI e ad un Movimento Operaio completamente impantanati nelle teorie del ristagno e dei monopoli. L’operaismo, dunque, ha rotto con una certa tradizione individuando nell’operaio-massa una figura nuova non solo per un percorso anticapitalista, ma anche nell’ipotesi dirompente di una classe contro se stessa, contro il lavorismo, lo scientismo, il tecnicismo, lo sviluppismo su cui si è formata la tradizione del Movimento Operaio. Dall’altra parte, però, non è riuscito a rielaborare nuovi obiettivi e un progetto politico che fosse adeguato a quella lettura dirompente. Romano sostiene che l’operaismo si è mosso all’interno di un particolare poligono, in parte riuscendo ma in parte fallendo nel tentativo di fare i conti con i suoi vertici, rappresentati dalla politica e dal politico (intesa come gestione e come progetto di trasformazione), dalla cultura (quanto l’operaismo ha criticato la tradizionale figura dell’intellettuale organico e la concezione esclusiva della cultura umanistica?), dagli operai e dall’operaietà (intesa nell’interrelazione tra soggettività collettiva e soggettività individuale, cose molto o del tutto trascurate), dalla questione generazionale (per la composizione sia delle esperienze politiche sia dei giovani operai).
Sono d’accordo. Vorrei sottolineare, ma credo che questo sia scontato, che l’operaismo dei Quaderni Rossi non è mai stato operaismo riferito agli operai in senso stretto. Penso a Romano, il quale fin dall’inizio (parlo ancora dei Quaderni Rossi) propose di usare al posto di “operai” il termine “produttori”: la cosa scandalizzò molto Panzieri. Al di là del termine, c’era il fatto che l’attenzione di uno come Romano, ma anche la mia, è sempre stata all’insieme del lavoro dipendente. Lui poi aveva un amore particolare per i quadri intermedi, ha fatto le interviste con loro nella prima inchiesta Fiat, da cui veniva fuori una figura che è un intreccio di contraddizioni. Quindi, era un operaismo non gretto, non del tipo che se uno non aveva la tuta blu non ci interessava.
Come affronteresti tu il nodo della politica e del politico, categoria che oggi resta di centrale attualità?
È un discorso che necessita di un grande approfondimento che parta dall’analisi della situazione attuale. Però, è da tanto che io non penso in termini organicamente politici, le mie riflessioni sono individuali: diverso è quando uno milita in un’organizzazione e allora in ogni momento cerca di interpretare quello che succede e collegarlo ad una strategia.
Questa intervista è stata realizzata il 3 ottobre 2001
Ricordo di Vittorio Reiser di Bianca Beccalli dal manifesto del 24 maggio 2014: