La “tecnopolitica europea” ci ha liberato dal berlusconismo, ma ci instupidisce con il soft power di Monti. Serve uno sguardo di lunga durata
A ragione Alberto Asor Rosa ha lanciato l’allarme e chiesto una sosta di riflessione. Siamo di fronte a novità formidabili, figlie di svolte e derive di lunga durata. Per contrastarle o padroneggiarle bisogna accumulare una nuova «saggezza» con riflessione e lavoro di lunga lena, da condurre per «decenni» e con adeguata organizzazione. La ramazza della «tecnopolitica europea», del «financapitalismo» ci ha liberato dell’immondizia berlusconiana, ma ci instupidisce ora «avanti ai fari abbaglianti» di Mario Monti, al soft power delle sue «lacrime e sangue», di ricette rinforzate dall’assenza di alternative. A dispetto di un paese non domo, che con vari scossoni ha sospinto Berlusconi nell’angolo, la politica e la sinistra italiana si dispongono inermi al fascino e alle seduzioni del «rospo». Nel tracciare la rotta spicca il magistero di una presidenza della Repubblica, forse non intenta a dilagare in spazi impropri, quanto obbligata a colmare i vuoti prodotti dal disfarsi del sistema politico e dai non possumus del berlusconismo, ultima incarnazione di una «storica incongruenza» italiana, somma di egoismi refrattari a discipline e conformismi continentali.
L’eccezione e la regola
Meno convincente è l’aura di eccezionalità che spira tra le righe del suo argomentare. A tratti, come tanti nelle settimane scorse, evoca uno «stato di eccezione», la straordinarietà di eventi e processi, della «decisione». In generale, lo sguardo è fisso sul teatro nazionale, sempre unico ed eccezionale, sia che si sottolinei l’ennesima manifestazione del «caso italiano», sia che si esalti il potere di «anticipazione» delle nostre vicende. Per spiegare ricorre a paragoni storici con altri periodi e figure: l’interregno di Luigi Luzzatti. Altri ha accennato alla fatale meteora di Heinrich Brüning.
Ne siamo sicuri? Ma da quanto tempo non ci sono più lo Stato, la politica, l’autonomia: la sovranità, insomma, del tempo che fu? E non solo in Italia. Cos’è la Francia di Sarkozy, cui si affiancherà la Merkel in campagna elettorale? Certo, si vedrà se l’innovazione o l’azzardo funziona. Intanto, nessuno – forse Marine Le Pen – grida allo scandalo, ai tedeschi arrembanti, les Boches! La Grandeur è in soffitta per decisione o presa d’atto unanimi. Non siamo forse tutti in Europa alle prese con la lezione del Belgio? Un paese dilaniato da strappi secessionisti, ma rimasto senza governo per più di un anno, appeso senza tracolli alla respirazione artificiale garantita dalla macchina comunitaria. Vale ancora l’etichetta dell’eccezione, quando parliamo delle ricette di Monti? Ma non sono dettate ormai da un ventennio dalla cogenza della Costituzione scolpita nei trattati di Maastricht e sempre confermata da tutti, tra scossoni politici e referendari, con convenzioni e trattati a Amsterdam, Nizza, Lisbona, fino al fiscal compact dei nostri giorni, vagliato e varato, nel disinteresse generale, già da Commissione e Parlamento europei, ancor prima dei diktat di Angela Merkel’ E l’assenza di alternative non ha anch’essa oltre vent’anni? Vogliamo, senza allungare il brodo, dettagliarne la storia a sinistra? Cosa sono oggi Labour e SPD dopo le cure amorevoli di Blair-Brown e Schröder? Per l’Italia si leggano pagine e progetti della Bicamerale. Soprattutto là dove, a scanso di equivoci, scolpivano direttamente in Costituzione «la politica economica e monetaria» dettata dai trattati europei. E per l’altra sinistra, si legga la dichiarazione di voto con cui nel 1998, prima di ritornare all’opposizione, si acconciava a ratificare il patto di stabilità contenuto nel trattato di Amsterdam. E dove nasce l’ultimo Napolitano? Nell’abbandono del comunismo migliorista? Forse. Sicuramente anche dall’esaltazione di alcuni tratti più tipici del PCI. Magari di un internazionalismo primigenio, risciacquato dopo l’89 nelle acque dell’europeismo. O di una riproposizione della funzione nazionale dei comunisti, convinta che per fare ora veramente gli italiani, per tenerli assieme, bisogna che divengano compiutamente europei.
Vent’anni or sono
Per prendere le misure a Monti, in realtà, bisogna aguzzare lo sguardo, dargli profondità, e magari rammentarsi che il grido di Asor Rosa non è una novità assoluta. Anzi. Già in altri tempi, all’alba di quest’ultimo ventennio, un grido analogo si levò di fronte ad altri affondi presidenziali, ad altri tecnici – Carlo Azeglio Ciampi – chiamati a reggere e traghettare il paese in Europa, nel silenzio e nella mancanza di iniziative della sinistra, con l’astensione all’epoca del PDS. Anche per protesta contro di essa e l’asfissia dei partiti Pietro Ingrao si dimise dal PDS e chiamò, già allora, ad un lavoro di costruzione di nuovi fondamenti. E qualcosa iniziò. Ne nacque allora la riflessione a quattro mani con Rossana Rossanda consegnata in un volume, Appuntamenti di fine secolo, e nel tentativo, abortito, di analisi e iniziative addirittura europee. E’ bene sgombrare subito il campo da ogni farsesca tentazione di sminuir tutto in uno storico deja vu. Ma sarebbe suicida non riconoscere la tragedia di una sinistra china a investigare su un nuovo delitto senza riconoscere il serial killer all’opera, alle prese con analisi e appuntamenti già mancati una volta, esausti copioni di recite già celebrate.
E’ utile forse allora ricordare che Appuntamenti di fine secolo prendeva le mosse da un carteggio che appuntava le sue righe iniziali sulla «questione del debito pubblico italiano», sulla sua «patologia» e sulle forme in cui essa era finita nei comandamenti di Maastricht. Ecco il debito pubblico, una chiave indispensabile per comprendere Monti e le dinamiche di lungo periodo che gli hanno dato forza crescente. Per troppo tempo si è visto in esso e nella crescita irresistibile della spesa pubblica la naturale dinamica di una società in declino, vittima dei suoi egoismi corporativi e delle cure clientelari amministrate dalla DC o, peggio, dalla consociazione catto-comunista. Pochi analisti hanno affondato davvero il bisturi nelle scelte compiute all’inizio degli anni Settanta. Allora – mentre il mondo era scosso nei suoi piloni portanti: dollaro e petrolio – l’Italia fu costretta a chinare il capo nella tempesta delle monete. La bancarotta fu evitata nel 1974 con l’apporto finanziario del FMI e con l’oro italiano dato in pegno alla Bundesbank del tempo. Dietro l’apparente non governo a deriva DC, di fronte ad una dialettica sociale e sindacale sempre più vivace, la Banca d’Italia di Guido Carli aveva da tempo deciso di sanare in modo particolare «la ferita» subita dall’economia italiana con la «decadenza del sentimento della disciplina sociale»: aveva scelto di «alimentare il circuito della spesa nella misura necessaria a finanziare scambi che si svolgono a prezzi sempre più alti» (Banca d’Italia, Relazione sull’anno 1970)
La contesa con Carli
All’unisono, nelle loro memorie, Guido Carli e Mario Monti fanno ascendere a quella scelta l’inizio di un reciproco dissidio. Le critiche di Monti a Carli e al suo «dirigismo creditizio», al suo pilotaggio della «spesa pubblica in disavanzo», valsero all’economista milanese crescente notorietà e il ruolo di capofila critico nell’establishment e nell’intellighentzia del tempo. Più in ombra rimase la sapiente gestione da parte di Carli del doppio registro di spesa pubblica lasca, accompagnata da periodiche svalutazioni della lira, specie dopo la conquista del punto unico di scala mobile. Si forniva generosamente corda all’impiccato: la competitività dell’industria veniva ricreata artificialmente, mentre il resto dell’organismo sociale si spappolava per egoismi corporativi e rincorse competitive alimentati da una spesa pubblica in continua dilatazione.
Carli avrebbe provveduto poi a Maastricht a riregolare la dinamica del sistema e sanare quel dissidio. Allora, edotti dal lavorio ai fianchi compiuto dalla Trilateral e dalle teoriche della governabilità, si scelse, in concorde discordia con i tedeschi della Bundesbank allarmati da Kohl e dalla sua unificazione con il marco alla pari tra Est e Ovest, di mettere una mordacchia permanente alla nuova Europa, di affidarla ad esecutivi e eurocrazie, di stirare spesa pubblica e Welfare nelle presse dei criteri di convergenza e del successivo patto di stabilità.
Inizia allora il volo di Mario Monti, come figura più rappresentativa di quell’atto creativo che metteva capo all’Euro e alla BCE, all’UE e ai suoi inediti comandamenti. Limpidi sono nella sua figura i tratti distintivi del neoliberismo anglosassone o dell’ordoliberismo di stampo tedesco: un orientamento pragmatico, ma tenace, che non demonizza più lo Stato e il suo intervento. Semmai lo esalta come amplificatore della competitività e regolatore della dialettica sociale. Nella sua biografia, come di parte grandissima dei ministri che lo attorniano e che egli ha scelto, spiccano nette non tanto le stimmate apicali dell’università e dell’alta burocrazia di Stato, ma di quel «processo decisionale multiburocratico», che – per dirla con Sabino Cassese – si è incistato al confine tra stato e istituzioni sovranazionali. In quella zona grigia si produce una osmosi continua in cui si «comunitarizzano» le funzioni nazionali e «nazionalizzano» quelle comunitarie. La primazia poi fornita al mercato in una unificazione sovranazionale prodotta per concorrenza tra sistemi normativi e giuridici produce il resto: prevale lo «Stato minimo», quello più leggero, che predica meno attriti, elasticità, arrendevolezza.
Noblesse d’État
Tratti tipici solo dell’Italia? E dei nostri tecnici, allenati gestori, negli ultimi vent’anni, di agende di lavoro pubbliche e private? No, basti per tutti il riferimento alla Francia e alle sue solide tradizioni stataliste. Cosa ne è oggi degli énarques, della noblesse d’État allevata nelle Grandes Écoles di grido e tradizione, dedita al maneggio compulsivo di pubblico e privato, alla fantasiosa pratica del pantouflage: il comodo mettersi in pantofole trascorrendo indifferentemente, tra pubblico e privato in una commistione sempre più fitta di ruoli, cariche e consulenze. Di questi traffici si nutre la nuova classe politica europea, oltre che della consunzione di ogni principio di rappresentanza sociale e politica, del tramonto definitivo della democrazia di massa.
Oggi a vent’anni e passa dal primo volo dell’Unione Europea il grido di Asor Rosa ci coglie come trapassati in un altro mondo. Non siamo riusciti a prendere nemmeno le misure del Monti che fu e già siamo chiamati a misurarci con la sua reincarnazione, con il nuovo ciclo aperto dal fiscal compact. Oggi il globo – mutato radicalmente nel metabolismo tra Nord e Sud, Est ed Ovest – si è riassestato su nuovi cardini: nel Pacifico e non più in Atlantico. La stagione della «guerra al terrorismo», in cui l’unilateralismo americano aveva pensato di disporsi per eternarsi, si è chiusa con un rinculo di storiche proporzioni. Ma ad archiviarla definitivamente ci prova, e a fatica, il solo Obama. L’Europa a stento e a tratti si dispone sulle sue orme. Emblematica la vicenda tutta dei rivolgimenti arabi o quell’accenno di dialogo, quel guatarsi guardinghi ma attenti che si è instaurato tra Obama e Occupy Wall Street. Anche qui non v’è nulla di simile sul Vecchio Continente, in nessuna delle sue terre.
L’Euro e i suoi comandamenti sono da tempo oggetto di dileggio e preoccupazione non più solo di premi Nobel e della dirigenza americana. Per gironi meno blasonati, la somministrazione quotidiana del rating da parte delle agenzie ammonisce senza sosta sulle illusioni mortali della via penitenziale allo sviluppo più o meno socialmente virtuoso, più o meno frugale. McKinsey e Standard & Poor’s ci dicono che la lotta al debito non funziona se fatta solo di tagli, se non mobilita i popoli, ma li mette alla frusta.
Un potere corrosivo
Imperterrito l’euro corrode welfare dei popoli e legittimità delle élites, scassando armature sociali collaudate. E’ dubbio però che la stretta ulteriore promossa con il fiscal compact segni solo il trionfo della Merkel e l’indebolimento di Monti. Tutt’altro. In quella rigida scansione di regole e soglie, nella piena, compiuta e non più zoppa, costituzionalizzazione del «vincolo esterno» sta l’esaltazione, ad altissima cifra politica, del tecnico Monti, il segreto della sua forza politica. A patto naturalmente di conquistare una visione larga della scena europea, libera da ogni ingenua e meccanica trasposizione tra degrado delle condizioni sociali, marcescenza del pantano politico e procedere della crisi. La recessione potrà senz’altro approfondirsi con i suoi danni incommensurabili ma non è detto che si tramuti in crisi del sistema o dell’euro. Ancor più se a sinistra si continuerà ad indugiare nella catastrofica attesa del collasso, in un attendismo che non fa che amplificare lo iato tra le possibilità offerte dallo scontento e la capacità di metter capo ad una fattiva mobilitazione, alla configurazione di un reale blocco riformatore. Da questo punto di vista il panorama è desolante, ancor più laddove l’attizzarsi delle contese elettorali dovrebbe stimolare ad afferrare il toro per le corna. Ne ci si aiuta, provando ad assolversi dalle proprie mancanze e imputando tutto alla prepotenza tedesca e di Angela Merkel. Anzi, guardando all’allestimento delle scene elettorali proprio il panorama tedesco è quello più promettente.
Rispetto al millimetrico e allusivo riposizionamento, pieno di reticenze, di Hollande, in Germania si prova a mettere con più decisione i piedi nel piatto. L’ultimo documento di SPD e Verdi, il protocollo in 12 punti offerto a dicembre come contributo a tutta la sinistra europea (lo si può leggere parzialmente tradotto su www.nens.it), disegna con tratti decisi la scena e le poste europee, e non solo tedesche. Vi si contesta con una nettezza altrove sconosciuta la pretesa della Merkel e dei suoi di imporre risanamenti a senso unico, con «i compiti a casa» degli Stati cicala, dei PIGS. Perseverare su questa strada può portare solo ad ingessare colpevolmente UEM e UE, fino allo scasso e al suicidio finali. All’ordine del giorno è un mutamento di strada indirizzato non tanto a colmare i vuoti lasciati a Maastricht, ma a raddrizzare la barca sbilenca lì attrezzata e poi via via puntellata. Nella «storia dell’Europa di oggi vi è la possibilità solidale di un nuovo inizio»
Non si afferra il bandolo del caso italiano né di nessun altro paese europeo senza uno sguardo maturo sull’Europa tutta e le sue sfide, se non si prova nemmeno ad immaginarsi lievito di nuove speranze su scala continentale, se non si azzarda un atto di igiene mentale: schiodare intanto nella propria testa l’Europa dalla costituzione monetaria in cui è stata ripetutamente trafitta.
Una versione più breve di questo intervento è stata pubblicata sul Manifesto del 15 febbraio 2012 con il titolo “Per capire Monti bisogna guardare lontano”