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Al di là del muro della burocrazia

Riflessioni sul triangolo democrazia-burocrazia-partitocrazia a partire da due libri appena usciti: “Coltivare Partecipazione” e “I custodi della bellezza”. Con esempi di alternative sia alla semplificazione e sia al modello “autoritativo”.

Due libri usciti in contemporanea in ottobre 2020, partendo da ottiche diverse ma convergenti, ci fanno entrare nel cuore di alcune importanti e innovative esperienze di democrazia partecipativa in atto negli ultimi anni in Italia e ci fanno toccare con mano che un buon governo del territorio (efficace, equo e saggio) è possibile, purché non ci si metta di mezzo la burocrazia. Voi direte: “Bella scoperta!”. La scoperta è che esistono anche in Italia, seppure ancora ai margini del sistema politico, i metodi e le competenze per mettere in atto un’altra idea di Pubblica amministrazione, inclusiva invece che escludente, dialogica invece che labirintica, amica della concretezza invece che astratta e soporifera. Le esperienze e considerazioni che stanno alla base di questi testi mostrano con chiarezza sia per i loro successi che per gli ostacoli che incontrano, che senza la collaborazione fra abitanti interessati alle sorti dei loro territori e le varie amministrazioni dello Stato non si va da nessuna parte, e che tale collaborazione è possibile unicamente a patto di una drastica sburocratizzazione. Non si tratta di passare dal pubblico al privato, ma di rinvigorire la società civile ridando spazio e forza a forme di democrazia più articolata e meno partitocratica. Non si tratta di “riformare” la burocrazia, si tratta di sbarazzarsene.

Il sociologo Michel Crozier, che dopo Max Weber è probabilmente lo studioso che ha più contribuito all’analisi del fenomeno burocratico, ha sostenuto due aspetti che qui ci interessano. Primo, che essendo la burocrazia una organizzazione incapace di auto-correzione, l’unico modo per mettere in discussione il suo modo di operare è attraverso delle drammatiche crisi. Si tratta non di riformare, ma di re-inventare. Secondo, che gran parte dei progetti sfornati dall’ENA (la prestigiosa scuola di PA francese) pur tecnicamente ineccepibili, rimanevano sulla carta per mancanza di capacità di recepire il punto di vista di tutti i soggetti interessati nei territori interessati.

Ora, a proposito di “rimanere sulla carta”, cito uno stralcio da un articolo di Massimo Giannini su La Stampa del 4 ottobre 2020: “Nel 2014 il governo Renzi vara il progetto “Italia Sicura” contro il dissesto idrogeologico, che prevede 9,8 miliardi  di investimenti; tre anni dopo ne risultano spesi cento milioni. Nel 2018 il Conte Uno segue a ruota, con l’apposita struttura di Missione al ministero dell’Ambiente, poi la Cabina di Regia “Strategia Italia” poi la prima legge di bilancio con 14,4 miliardi  ai comuni “per la messa in sicurezza degli edifici e del territorio” nel periodo 2021-2034 e infine il Dpcm “Proteggi Italia” del 20 febbraio 2019 con altri 10,9 miliardi per la “mitigazione del rischio idrogeologico”. Cosa è cambiato?  Chi ha visto i cantieri?  Dove sono le opere? ” etc. 

I due libri di cui parliamo si basano su esperienze di progettazione partecipata e di cura del territorio diverse dal modo di operare della burocrazia e dal modo di pensare tipico di chi non riesce a concepire delle alternative o si accontenta di alternative fasulle. Perché, pensateci bene: se sono più di trent’anni che ogni governo promette di “semplificare” il funzionamento della PA e stiamo sempre peggio.. forse  il modo corrente di inquadrare la questione è esso stesso parte del problema. O no ? Penso sia proprio così. E quindi per apprezzare pienamente questi contributi credo sia utile leggerli in controluce rispetto i luoghi comuni di cui siamo prigionieri. 

Le due ottiche complementari che i due volumi illustrano sono quella della Democrazia Deliberativa (in Coltivare Partecipazione) e quello dei “Patti di Collaborazione” fra cittadini e PA, che comportano lo sbaraccamento almeno per quel che riguarda i contenuti del patto, del modello autoritativo del diritto pubblico sostituito da una pubblica amministrazione inclusiva e capace di dialogo (in I custodi della bellezza). Relativamente a quest’ultima opera devo precisare che uno dei motivi della mia profonda stima e ammirazione per il suo autore, il docente di diritto amministrativo Gregorio Arena, fondatore di Labsus Laboratorio per la Sussidiarietà, è che è riuscito a mettere in moto un processo che io chiamo di “sbaraccamento della burocrazia”, che nessun parlamento finora ha mai neppure provato a mettere a fuoco, e che si è espanso quasi in sordina, senza farsi troppo notare, arrivando a coinvolgere delibere dei consigli comunali di più di 200 città. Una rivoluzione felpata e nonviolenta che ha ancora tanta strada da fare, ma che può essere come un buco nella diga.  Sta a tutti noi evitare che i nemici della democrazia ci infilino il dito. 

Non è facile aiutare la opinione pubblica ad appassionarsi a queste nuove prospettive. Il farlo, richiede una doppia visione: le nuove ottiche se prese sul serio, permettono di prendere le distanze dalle gabbie mentali che ci tengono prigionieri. Le principali gabbie, o miti, che grazie a queste esperienze possiamo evidenziare sono le seguenti: A. La semplificazione (opposta al complesso); B. la priorità dei regolamenti (opposta alla priorità dei principi e dei valori);  C. l’ astratto e il generale (opposto al concreto e unico); D. il ragionamento dialettico come viatico per le soluzioni (opposto al dialogico aperto alla esplorazione dei mondi possibili). 

Il primo e fondamentale mito da decostruire è quello della semplificazione, l’idea onnipresente che la struttura burocratica “va semplificata.” In realtà il motivo per cui è sempre più complicata è che poggia su basi già terribilmente semplicistiche, che la rendono congenitamente inadatta a interagire con la complessità. Uno dei principi di fondo della teoria dei sistemi complessi recita: se parto dal complesso arrivo al semplice, se parto dal semplice arrivo al complicato. Quindi bisogna non semplificare, ma “complessificare” (diverso da “complicare”, che è quello che normalmente si fa); l’amministrazione va ridisegnata da cima a fondo in direzione di un tipo di organizzazione che sa dare spazio alla complessità, che sa operare con e nella complessità. Questa è la prima mossa, che trascina con sé la necessità di decostruire anche tutti gli altri miti che ci tengono ingabbiati.  

Userò un paio di casi fra quelli illustrati nel libro Coltivare Partecipazione per evidenziare cosa comporta e in cosa si materializza  la costruzione di una PA come organizzazione affidabile nella sempre più complessa società del XXI secolo. Il primo è un progetto intitolato “Acque, sentieri, beni comuni” promosso dal Comune di Camaiore. Il secondo riguarda l’operato di una giuria dei cittadini del Comune di Buonconvento sulla proposta di installazione di alcuni impianti di biogas nel territorio comunale, in una zona di grande pregio paesaggistico. Man mano che procederò nella descrizione metterò fra parentesi la lettera (A B C D) che corrisponde qui sopra alla “gabbia” implicata.

A  Camaiore l’amministrazione pubblica ha deciso di costruire un “modello di custodia attiva del territorio” basato sulla collaborazione sui temi della tutela delle acque, dei boschi e in generale la manutenzione del territorio fra tutti i cittadini più sensibili e attenti a questi aspetti e i settori della amministrazione che si occupano di ambiente. L’importanza in Italia di un approccio del genere credo non sfugga a nessuno, ma per passare dalle parole ai fatti è necessario riconoscere che è un obiettivo molto complesso che richiede un apparato organizzativo praticamente opposto a quello della burocrazia. E infatti in questo caso si decide di affidare questo incarico a un apparato di pratiche alternativo, che si chiama “democrazia deliberativa”, i cui operatori e operatrici si chiamano “facilitatori” e sono delle figure terze e imparziali la cui missione è sintetizzabile nel restituire alla società civile la capacità di dialogare e affrontare positivamente e creativamente le divergenze (A). 

Compito della facilitatrice e dei suoi collaboratori è istituire dei contesti di mutuo apprendimento ogni volta tagliati su misura del problema specifico e della situazione, grazie ai quali tutti gli attori locali interessati possono collaborare alla elaborazione di una soluzione riconosciuta da tutti (o dalla stragrande maggioranza) come affidabile, che funziona per davvero (B). A questo fine non è sufficiente convocare delle riunioni, bisogna, a partire da un primo nucleo di volontari, chiedere chi sono le persone note per la loro passione per il territorio, andare a scovarle, ascoltarle, conquistare la loro fiducia, costruire una mappa con tutte le preoccupazioni e segnalazioni anche divergenti, e su queste basi costituire un gruppo di cittadinanza attiva aperto, ma facendo attenzione che tutte le diverse e divergenti posizioni siano presenti (A).

Ma come si fa a conquistare la fiducia di  abitanti che proprio perché sensibili e attenti ai problemi della manutenzione del territorio, sono totalmente sfiduciati? Bisogna ascoltare la loro personale esperienza, le loro osservazioni e proposte con estremo rispetto e considerazione. Bisogna comunicare loro che nel progetto in atto, si partirà dall’insieme delle osservazioni ed esperienze concrete, circostanziate, e si lavorerà col metodo delle proposte positive, imparando da tutte le buone pratiche esistenti, per elaborare delle soluzioni e progetti di mutuo gradimento. Al posto della selva oscura dei “regolamenti”, i cittadini attivi guardano da un lato al loro territorio e dall’altro direttamente ai valori e principi della Costituzione e in particolare quell’ art 118 (Nuovo Titolo V, ultimo comma, 2001) che ha introdotto il diritto dei cittadini a occuparsi del bene comune: “Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”(B). 

Il movimento, che stabilisce che l’impegno dei cittadini sui temi ambientali viene favorito da un approccio progettuale guidato dai valori piuttosto che dai regolamenti ha le sue radici già negli anni ’70 del secolo scorso (ricerca-azione, Tavistock Institute) ma oggi è a tutti gli effetti l’approccio  raccomandato con sempre maggiore insistenza e precisione anche dalla Unione Europea che stabilisce che sempre più spesso i problemi più urgenti e vitali di governo del territorio, richiedono diagnosi localizzate, l’adattamento delle politiche alla unicità delle conformazioni geologiche, sociali, economiche, culturali, ambientali e una cura e monitoraggio costante. Tutti provvedimenti gestibili efficacemente unicamente ricorrendo a forme alternative di PA e dando voce e protagonismo agli abitanti di quei territori (A B C) .   

Il compito dei facilitatori è il contrario di quello del burocrate, consiste nel mettere gli abitanti interessati all’ambiente in cui vivono in comunicazione fra loro in un contesto di mutuo apprendimento e di esplorazione a 360 gradi sia dei problemi che delle loro possibili soluzioni, ricorrendo a tutti gli esperti e professionisti che si ritengono necessari.  Il principio di base è che gli abitanti obbligano gli esperti a fare i conti con la concretezza e con l’urgenza delle situazioni. Gli abitanti, in un approccio di DD, obbligano i professionisti ed esperti a scendere sul campo e prendere in considerazione gli aspetti unici e caratteristici del luogo, che se trascurati provocano il fallimento dell’intervento (A B C D). Li costringono a trasformarsi da professionisti escludenti a professionisti inclusivi e riflessivi e a loro volta gli abitanti imparano moltissimo, prima di tutto a fare domande pertinenti e ad ascoltare le risposte, in un processo di continua esplorazione ed ampliamento degli orizzonti. 

Mettiamo che la situazione di partenza sia il drenaggio di un fiume, per cui esistono i fondi, ma la cui attuazione è bloccata da mesi (o da anni) a causa del sovraccarico degli uffici deputati a rilasciare il nulla osta. In un approccio deliberativo, il gruppo costituito ad hoc, composto da abitanti, funzionari e politici locali, può rivolgersi a una equipe di professionisti indipendenti per tutti gli accertamenti e pratiche di fattibilità necessarie, senza rimanere ostaggio del malfunzionamento burocratico. Al potere politico rimane il doppio compito di impegnarsi come uno degli attori in gioco e di dare o meno il benestare finale con obbligo di circostanziata motivazione. Ugualmente per gli appalti. Non c’è migliore garanzia di trasparenza e monitoraggio su come vengono impiegati i finanziamenti dell’intero processo, meccanismi di appalto compresi, degli sguardi incrociati dei rappresentanti dei cittadini su quanti soldi a chi, quando, come, dove e perché. Per i custodi delle gabbie, per i quali la certezza del diritto è garantita dalla non commistione con la complessità del mondo reale, tutto ciò è anatema (B), costoro paventano che un approccio come quello appena descritto sia l’inizio del caos, del dominio dell’arbitrio del più forte e più furbo. 

La verità è esattamente il contrario. E’ nella misura in cui le persone sono costrette a rapportarsi le une alle altre come una sommatoria di ego isolati, come succede nelle nostre assemblee e riunioni politiche, e nei rapporti fra cittadini e uffici della PA, che i cittadini quando si incontrano sono sospettosi e litigiosi e la dinamica di gruppo viene dominata dalla necessità di difendersi e schierarsi. E’ nella assenza della capacità di iniziative positive comunitarie, che i boss delle varie cosche possono intimidire e comandare ed è grazie alla difesa dei “segreti di ufficio”, che gli speculatori possono far valere il governo delle tangenti.  

La democrazia deliberativa consiste nel costruire delle forme di rappresentanza politica ad hoc, diverse sia dalla democrazia rappresentativa parlamentare classica che dai referendum e a loro complementari. E’ una rappresentanza che non ha come scopo mettere una ideologia od opinione contro l’altra, ma far emergere dalla diversità l’intelligenza collettiva, con un mandato di equità sociale. Ormai c’è amplia evidenza che quando viene offerta la possibilità di interagire in contesti dialogici, basati sulle regole del confronto creativo, i cittadini sono felici di dare il loro contributo.  Le regole del confronto creativo, tipiche della democrazia deliberativa, promuovono la creatività ma rispetto alle abitudini ed epistemologia dominanti si presentano come contro intuitive, come tutt’altro che “spontanee” e quindi funzionano grazie a una strutturazione molto precisa, fatta di leadership facilitativa, valori e dinamiche relazionali che consentono ad esponenti di interessi e posizioni anche antagoniste, di ascoltarsi, dialogare, collaborare nella ricerca di soluzioni inedite di mutuo gradimento (D).

Unica condizione per partecipare è l’impegno a rispettare le regole dell’ascolto attivo, la moltiplicazione delle opzioni e la co-progettazione positiva e creativa e il facilitatore o facilitatrice è il garante che tale impegno sia onorato. Quella dei facilitatori è a tutti gli effetti una nuova professionalità, basata sulla conoscenza delle dinamiche di gruppo, sul dialogo multiattoriale e la gestione positiva e creativa dei conflitti. E’ una figura garante di un procedimento basato sui principi di una organizzazione affidabile in un ambiente complesso. Il burocrate non solo non ha queste competenze, ma se per caso gli capita di volerle praticare rischia di essere punito; è prigioniero sia delle sue competenze che della sua incompetenza. L’approccio della “democrazia deliberativa” è l’opposto della moltiplicazione dei commissari, i quali a parole sono onnipotenti, ma poi quando si passa alla implementazione, sono prigionieri e bloccati come gli altri nelle maglie della burocrazia. Uno slogan della DD è: meno decisori, più partecipazione (A B C D) . 

A Camaiore, procedendo in questo modo, amministrazione e cittadini sono riusciti a costruire un “modello di custodia attiva del territorio” praticabile ed efficace, al quale molti altri comuni potrebbero ispirarsi. 

Vediamo adesso brevemente il secondo caso. Mentre l’esperienza di Camaiore nasce da un diffuso sentimento di esasperazione e di impotenza per lo stato di abbandono del territorio, al quale sindaco e giunta decidono di dare uno sbocco pro-attivo, il caso di Buonconvento trae origine dalla mobilitazione di un gruppo di cittadini organizzati in “Comitato per la valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente” che, con il sostegno di oltre trecento residenti, si oppongono alla proposta di installazione di tre impianti di biogas nel territorio comunale, in una zona di grande pregio paesaggistico. E anche qui, invece di infilarsi nel tunnel dei bracci di ferro fra partigiani dell’una o dell’altra posizione e degli incontri snervanti e inconcludenti, si decide di imboccare la via della democrazia deliberativa.  Questa scelta è stimolata dalla esistenza in Toscana, fin dal 2007, di una legge che declina a livello regionale il principio Costituzionale della sussidiareità, legge che ha istituito una Authority indipendente per promuovere e finanziare il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni che riguardano il loro territorio. L’Autorithy, su richiesta congiunta del Comitato e della Giunta comunale,  suggerisce che nel caso specifico si ricorra a una “Giuria dei Cittadini”, ovvero che si assegni a un campione statisticamente rappresentativo degli abitanti il compito di redigere, con l’aiuto di una facilitatrice e degli esperti pro e contro, delle raccomandazioni condivise che Comune e Provincia avrebbero portato alla Conferenza dei Servizi al termine del processo partecipativo. Questa proposta, pur con le perplessità connesse a un approccio e forme di rappresentanza fino ad allora sconosciuti, viene accolta. Viene indetta una gara per affidare l’incarico di facilitazione ad una impresa esperta in DD che garantisca non solo la sua imparzialità, ma anche che il dibattito non sarebbe rimasto chiuso in una stanza, ma avrebbe coinvolto l’insieme della popolazione. Mi limito qui, per ragioni di spazio, all’elenco ai principali passaggi messi in atto, che come constaterete sono tutti estranei alle competenze e capacità del burocrate. 

  1. La facilitatrice redige in un linguaggio chiaro e da tutti comprensibile un dossier informativo su cosa sono gli impianti di biogas, la letteratura pro e contro che li accompagna e la complicata normativa esistente  
  2. Contestualmente deve rassicurare i membri della Giuria, intimoriti dalla responsabilità loro attribuita,  illustrando loro le regole dell’ascolto attivo e della discussione pro-attiva e la loro facoltà e diritto di ottenere tutte le informazioni di cui hanno bisogno. L’idea è che le informazioni di cui la Giuria sente la necessità sono le stesse di cui avrebbe  bisogno qualsiasi cittadino che si trovi ad esprimere una opinione informata sull’argomento.   
  3. A questo punto si tratta di coinvolgere da un lato la classe dirigente locale e dall’altro l’intera popolazione. A questo fine viene costituito un Organismo di Garanzia, composto dal sindaco,  esponenti dei vari partiti presenti in Consiglio comunale e membri del Comitato per la valorizzazione del paesaggio e ambiente. Questo Organismo, assieme alla Facilitatrice deve controllare che la documentazione fornita alla Giuria sia la meno partigiana e più ampia possibile. In più si decide che le relazioni dei diversi esperti vengano tenute all’interno del Teatro Comunale, che poi risulterà sempre strapieno di cittadini interessati. Molte e pertinenti sono le domande (“io ho un allevamento di suini, quanto costerebbe un piccolo impianto..” ecc ) sia dei membri della Giuria che da parte di tutti gli altri. 
  4. Man mano che le idee si andavano chiarendo la discussione si è spostata dalla proposta dei grandi impianti da 999 Kw l’uno, al possibile uso diffuso di piccoli impianti nell’agricoltura o in un agriturismo. E alla fine la Giuria ha elaborato e approvato alla unanimità (tranne uno) le linee guida condivise per la realizzazione di piccoli impianti di biogas a uso per lo più agricolo nel territorio comunale. Linee guida presentate fieramente dai cittadini stessi alle autorità comunali, provinciali e regionali in una cerimonia pubblica sul palco del Teatro dei Risorti, durante l’incontro finale.

Conclusioni: Le linee guida elaborate dalla Giuria dei cittadini sono state adottate all’unanimità dal Consiglio comunale e alcune di esse, presentate dal Comitato sotto forma di “osservazioni” al Piano Strutturale in fase di approvazione, sono state tradotte in prescrizioni urbanistiche. I progetti dei tre impianti da 999 Kw sono stati  ritirati, anche perché nel frattempo era cambiata la normativa nazionale che non li rendeva più così vantaggiosi. Un intero paese è divenuto esperto di biogas.

Ma il commento che più mi piace è quello di Chiara Pignaris, la facilitatrice di questo percorso di DD , quando esclama: “E così iniziò uno dei percorsi più divertenti e appassionanti che io abbia mai facilitato” E’ proprio così: l’ accaparramento da parte dei poteri forti dei compiti di progettazione del territorio, non solo oggigiorno è la premessa per dei grandi disastri materiali, ma  anche spirituali in quanto nega alle persone il diritto a una convivenza arricchita da immaginazione e intelligenza collettiva. 

Come si vede la DD risponde a esigenze di protagonismo della società civile rispetto le quali gli apparati statali ottocenteschi che ancora ci ritroviamo, sono del tutto sordi e inadeguati. 

Rimane il fatto che i dispositivi della DD non sono alternativi, ma complementari sia di quelli della democrazia rappresentativa che dell’operato di una Pubblica amministrazione che deve occuparsi della implementazione delle leggi, dell’offerta dei servizi e degli interventi di emergenza. E rimane per ora il fatto che quello che chiamerei “il blocco burocratico-partitocratico” (ci torno fra poco) considera l’approccio della DD più una spina nel fianco che un necessario aggiornamento della democrazia. 

Di conseguenza non di rado – come denunciano le autrici e autori di Coltivare Partecipazione – i progetti così elaborati, nonostante l’entusiasmo che avevano suscitato, e la generosità e intelligenza che li avevano generati, vengono bloccati e lasciati ammuffire negli scaffali. Sono situazioni in cui si tocca con mano il significato della parola “casta”. Nei testi di DD e anche in questo, viene invocato “un quadro normativo generale” congruente con l’esigenza di una riorganizzazione della macchina amministrativa che promuova il passaggio da un ruolo di gestione e controllo a un ruolo abilitante della libera iniziativa dei cittadini, ma manca un vero approfondimento di questa tematica e dell’apparato giuridico che la sottende. Questo in parte è dovuto al fatto che sia le esperienze che le teorie di DD hanno avuto origine nel mondo anglosassone, specialmente Usa, Canada, Australia, dove il diritto pubblico di impianto autoritativo è inesistente e si da per scontato che il buon funzionamento della macchina amministrativa dipende dalla sua capacità di negoziazione con gli attori della società civile. 

L’approccio del secondo libro che vi invito a prendere in considerazione  I custodi della Bellezza, è invece imperniato proprio sul quadro giuridico e in particolare su come impedire alle strutture burocratiche di ostacolare con mille cavilli le iniziative di cura del territorio messe in atto dai cittadini. Le constatazioni da cui è partito Gregorio Arena sono di due tipi. Prima di tutto che l’Italia è un Paese – contrariamente agli stereotipi –  molto amato dalla stragrande maggioranza dei suoi abitanti: “In tutto il Paese, da nord a sud, nelle grandi città come nei borghi, decine di migliaia di cittadini si stanno prendendo cura di parchi, scuole, piazze, beni culturali, teatri, sentieri, spiagge, boschi, aree abbandonate e tanti altri beni pubblici sia materiali, come quelli appena citati, sia immateriali, come la legalità, la memoria collettiva, i canti popolari o i dialetti.” E quindi bisogna chiedersi come mai abbiamo una PA che permette lo scempio di paesaggi unici e preziosi (come certe coste) e ostacola invece di valorizzare le iniziative dei cittadini tese a proteggerli. In secondo luogo: ormai da una ventina d’anni (dal 2001 con l’art. 118 della Costituzione, ma non solo) l’ordinamento giuridico italiano non soltanto riconosce ai cittadini il diritto di prendersi cura dei beni pubblici, ma addirittura impone alle amministrazioni di promuovere e sostenere tali iniziative. Eppure in tutto questo tempo nessuna amministrazione si era presa la briga di modificare l’impianto autoritativo del nostro diritto pubblico, incompatibile con questo mandato costituzionale. Leggi e regolamenti hanno continuato a considerare i cittadini come amministrati anzichè come alleati e a impedirne le iniziative nel timore di doversi assumere responsabilità di vario genere. 

Da queste constatazioni nasce dapprima Labsus, il Laboratorio per la Sussidiareità (2005) e poi, in collaborazione col comune di Bologna  Il Regolamento per l’amministrazione condivisa ( 2014) che traduce l’articolo 118 ultimo comma della Costituzione in un Regolamento comunale tipo, che viene messo a disposizione di tutti i comuni italiani e che da allora in poi è stato adottato alla unanimità da più di 200 comuni piccoli e grandi. 

Ci sono tre aspetti, a mio giudizio assolutamente geniali, alla base di questo Regolamento. Il primo è la decisione di attuare un principio costituzionale non attraverso una legge, ma direttamente attraverso un regolamento comunale. Si tratta di una mossa in sintonia con un ampio movimento presente in molti paesi del mondo, denominato “Localismo Costituzionale” per indicare un nuovo ethos civico e forma di governance che sposta il più grande numero possibile di decisioni pubbliche a livello di comunità, ancorandole direttamente al quadro di libertà e dei diritti garantiti dalla costituzione. A mio giudizio è anche la quadra del cerchio di un dibattito fra localismo e accentramento in atto nel nostro Paese dalla unità di Italia in poi. Le esperienze alle quali con questa espressione ci si riferisce, che comprendono anche la DD, sono dei laboratori di democrazia in grado di offrire una efficace alternativa al dirigismo neoliberista e una risposta all’universo di “solitudini connesse” (via Internet) di una società divenuta incapace di tessere rapporti di fiducia fra i suoi membri. Un altro vantaggio fondamentale dei regolamenti comunali  è che -contrariamente alle leggi- la loro approvazione è semplice e rapida e che sono facilmente modificabili in base alla esperienza, tant’è che prevedono tutti dei periodi sperimentali di applicazione e ogni regolamento è diverso dall’altro per risultare adeguato ai soggetti che stipulano i patti e alla specificità degli ambienti ai quali si riferiscono.

Il secondo aspetto è la istituzione di “atti amministrativi di natura non autoritativa” detti “patti di collaborazione” che diventano il terreno giuridico che autorizza ed impone un rapporto dialogico e di co-progettazione fra cittadini e operatori e dirigenti della PA. Coloro che sottovalutano questo aspetto, magari lamentando che così i cittadini sono indotti a prendersi direttamente cura di aspetti marginali del decoro urbano invece che dei più incisivi problemi dell’urbanistica, sono proprio come coloro che guardano il dito invece della luna. Non si rendono conto che in questo modo è stato infranto il principale tabù che tiene prigioniero il pensiero politico e impedisce il rinnovamento del nostro Paese. Il terzo aspetto, conseguente con quanto appena affermato, è che i concreti, particolari e tutti unici cittadini e amministratori impegnati nel redigere quel Patto di collaborazione che si attaglia alle loro esigenze, stanno dando vita a un nuovo modello di azione dei pubblici poteri, ispirato a una logica di apertura, interazione, confronto con la società civile nell’ottica di un rovesciamento che vede la regola giuridica originarsi non più soltanto dall’alto ma anche direttamente dal basso: verso una orizzontalità e modalità di produzione normativa di tipo reticolare. Si tratta di un modo di concepire i procedimenti per la elaborazione delle regole giuridiche che ricorda l’antico diritto consuetudinario e che oggi è la condizione necessaria per passare da una democrazia solo rappresentativa a una “democrazia diffusa”, come la chiama Arena, una democrazia anche della vita quotidiana. Un approccio che, da tempo invocato nelle opere di importanti pensatori controcorrente, sembrava destinato a rimanere sulla carta, snobbato e deriso dai più o giudicato utopistico.

Arena è consapevole che si tratta solo di un buco nella diga, anzi di migliaia di piccoli buchi che per ora non riescono a fare sistema, che operano come se ognuno dovesse riscoprire la ruota, ripetendo errori che la comunicazione e apprendimento reciproco potrebbero evitare e non di rado vittime delle vendette della ancora imperante burocrazia che si sente minacciata.  In questo libro come rimedio propone di dar vita ad un Patto nazionale per la ripartenza fra cittadini e istituzioni, fondato sulla cura dei beni comuni, ricollegandosi anche alla proposta di “tanti piccoli cantieri” di Renzo Piano. Sono idee realizzabili solo tenendo conto che i nodi per attuare il salto dall’isolamento alla rete, devono ognuno considerare il senso originario del termine “complexus” che come dice Edgar Morin significa “ciò che è tessuto assieme” e proporsi di rimuovere i condizionamenti negativi del più ampio contesto allargando il diritto alla cura  all’intero sistema e funzionamento politico.  A questo fine , per concludere questa recensione, credo siano importanti due cose.  

Per prima cosa, un dialogo fra change agents, fra persone impegnate nei due campi, quello della democrazia deliberativa e quello dei patti di collaborazione, in cui i primi si facciano carico della questione giuridica e i secondi delle competenze in dinamiche di gruppo e ascolto attivo e l’utilità del ricorso alle competenze dei facilitatori. Bisogna aiutare la discussione politica ad uscire dal pantano della ricerca dei colpevoli a scapito della individuazione delle soluzioni e dall’imperante psicologismo a scapito della attenzione per le dinamiche di gruppo. Un esempio di questo psicologismo lo trovo anche nell’articolo di Massimo Giannini che ho citato all’inizio di questo scritto:

“Non possiamo illuderci che queste sciagure che ci funestano la vita (..) capitino solo per il cortocircuito metereologico indotto dal riscaldamento globale (..) Questo tempo, furente e inclemente, si accanisce non da oggi  su un “luogo” incapace di accoglierlo, limitandone l’impatto e riducendone il danno. Questo “luogo” è l’Italia, abitata da un ceto politico cinico e irresponsabile, nazionale e locale,  che non ha pensato per decenni alla tutela del territorio, e che quando ha iniziato a farlo non ha quasi mai saputo tradurre piani faraonici in interventi concreti.” 

Finché penseremo che il buon o cattivo governo sia una questione caratteriale, non ne verremo fuori. La questione da porsi, e che questi due libri ci aiutano a porci è: “Come mai nessun partito politico, neppure quelli di sinistra che in qualche modo avrebbero come obiettivo l’ampliamento della democrazia e della giustizia ed equità sociale, hanno mai messo seriamente in discussione un assetto burocratico autoritario, di stampo patriarcale, che obbliga i cittadini a stare zitti e buoni in sala di attesa fra una tornata elettorale e l’altra?” La questione di come si è sviluppato dal dopoguerra ad oggi il rapporto fra partiti e democrazia è una questione fondamentale, che non ha niente di caratteriale, e che ci costringerebbe a riprendere l’allarme verso una democrazia fagocitata dalla partitocrazia, lanciato a suo tempo, fra gli altri, da figure come Simone Weil e Albert Camus.  

Non c’è dubbio che un apparato burocratico repellente rende i partiti gli unici canali attaverso i quali i cittadini possono far sentire la loro voce. Diventano l’unica “cinghia di trasmissione”, come si dice in gergo. Bene: la revisione dei partiti da accaparratori delle opinioni e desiderata a promotori del dialogo interno alla società civile, è uno dei temi che i vari nodi, dovranno affrontare. La Piattaforma Rousseau, è uno dei segni più significativi della enorme arretratezza del nostro dibattito politico su questo tema. Che un movimento dal basso, di cittadini indignati, quando deve proporre una innovazione decisiva non sappia far altro che riproporre tutti gli antichi e tradizionali rituali, a parte l’uso del web, tipici del blocco buro-partitocratico, basati sul voto individuale dei membri del partito rivolti ai dirigenti dello stesso, è una responsabilità non solo loro, ma della qualità del dibattito a livello di opinione pubblica più generale. Leggere e riflettere su questi due libri, può aiutare.