La rotta d’Italia. La polemica di Monti si fonda sul presupposto della marginalità dei sindacati nelle scelte generali. Un paradigma sotterraneo, che è venuto in luce con chiarezza e per paradosso proprio negli anni della crisi
Già in passato il presidente uscente Monti aveva esibito un’insofferenza – ancorata a un’ottica vetero-liberale – verso le organizzazioni sindacali. Dentro una concezione che le considera tutte come un problema, piuttosto che come una risorsa per il raggiungimento di beni comuni. Più di recente i suoi strali, evidentemente consigliato dalle sirene elettorali, si sono appuntati sulla Cgil, che è stata tacciata di essere “conservatrice”.
Al di là dell’orrendo – e piuttosto minaccioso – neologismo utilizzato per accompagnare queste considerazioni, quello che auspicava che venissero “silenziate” le ali estreme, il tema non è nuovo, ma induce a ragionare sulla sua fondatezza. Il primo sintomo che colpisce è la tendenza, piuttosto generalizzata nel panorama politico, ad accreditare se stessi come rinnovatori. Pare ormai che tutti gli schieramenti offrano una proposta di riforme (basti pensare alle cose che va dicendo adesso lo stesso Berlusconi, come se venisse da un decennio di opposizione), e nessuno di manutenzione dell’esistente.
Qui si vede un rivolgimento di fondo del gioco politico, avviato più di un trentennio fa dalla signora Thatcher. Essa ebbe l’indubbio colpo d’ingegno di sostituire alla tradizionale dialettica conservatori-progressisti, che aveva dominato il dopoguerra, un paradigma opposto. Nel quale si candidava a essere il vero fattore di cambiamento, contro il cambiamento generalmente proposto dalla sinistra: anzi, a impugnare la bandiera del cambiamento contro le resistenze laburiste (e soprattutto dei “cattivi” sindacati). In effetti, la cosiddetta la cosiddetta lady di ferro fu autrice di un capolavoro, che fece dimenticare ai più di essere la leader del partito conservatore. E ci fu non casualmente chi coniò a proposito delle sue politiche la definizione di rivoluzione neo-conservatrice. Di fatto, spingendo lo stesso partito laburista al lifting blairiano del new labour.
Dunque, nell’ultimo trentennio il capitale del rinnovamento è stato chiaramente conteso dalla destra (nelle sue diverse incarnazioni) alla sinistra storica: mettendo in campo strategie aggressive e cercando di accreditarsi come i veri innovatori. Con l’intento prevalente di riformare i precedenti assetti: ridimensionando la piena occupazione e il perimetro del welfare, in generale riducendo lo spazio del pubblico. Anche Monti – che pure ha un profilo diverso – si iscrive quindi al partito del cambiamento. Ma sui temi del lavoro – che sono quelli che ci interessano più da vicino – lo fa con le carte in regola? La risposta, che poteva essere dubitativa nei mesi scorsi, è divenuta più nettamente negativa nel corso del tempo.
Monti ha deciso di decidere (scusate il bisticcio) senza i sindacati: questo il principio cardine del suo orientamento fondante. In effetti, tradottosi in quella strana sceneggiata della firma recente di un accordo (nominalmente dedicato alla produttività) in presenza del governo, ma tra le sole parti sociali e senza che il governo si assumesse con chiarezza i suoi impegni. Quindi, la rinuncia al ruolo di vero “terzo attore” da parte del governo, pur di non dare vita all’aborrita concertazione, con l’effetto di collocarsi in una posizione che si traduce nell’essere né carne né pesce. Ma oltre al metodo deludente, deludenti appaiono anche i risultati, a dispetto delle numerose proclamazioni (che pare abbiano però accontentato le esigenti autorità europee). L’innalzamento dell’età pensionabile – misura probabilmente necessaria – è stato effettuato non solo senza intesa, ma anche senza tenere conto di tutti i problemi che si accompagnavano alla sua implementazione: e quindi ha prodotto, senza affrontarla seriamente, una larga scia di insoddisfazione sociale (segno di sicura iniquità).
Quanto alla “riforma delle riforme”, quella della mercato del lavoro, se essa aveva il merito di scostarsi dal paradigma di quella berlusconiana, tutta fondata sul trionfo della flessibilità, non si può dire che abbia costruito le condizioni per effetti virtuosi, e per la vera messa in opera di un equilibrio convincente tra la domanda di stabilità dei lavoratori e le esigenze delle imprese: in realtà, determinando scontentezza presso tutti gli attori sociali e, insieme, risultati pratici insignificanti (e qualche volta diversi dalle intenzioni). Senza peraltro dimenticare i livelli di guardia, non aggrediti seriamente, assunti dalla disoccupazione giovanile proprio nell’ultimo scorcio di legislatura. Ma, detto della difficoltà di decifrare il “vero riformismo” nella sfera politica, questo non esime della questione. Che, come spesso succede, risulta di ancora più complessa catalogazione e, quindi, sfuggente alle formule facili delle campagne elettorali. I sindacati, infatti, sin dalle origini, sono stati per così dire condannati a un’azione ambivalente, che ha bisogno sia di una dimensione “conservatrice” che di un’azione riformatrice (o ancora più ambiziosamente rivoluzionaria).
Diceva un po’ provocatoriamente lo storico Tannenbaum a metà del secolo scorso che i sindacati sono stati il movimento conservatore – o addirittura “controrivoluzionario” – della nostra epoca. E la ragione è chiara: essi, per difendere i lavoratori, erano impegnati a combattere l’erosione dei rapporti sociali imposta da un mercato che si faceva sempre più invasivo e prepotente. Nello stesso tempo, i sindacati svolgevano – e svolgono – una funzione motrice, se riescono a dare un’impronta riformatrice alla loro azione: nella qualità di soggetto che aiuta l’emancipazione del lavoro, e il progresso delle relazioni sociali, essi sono anche spinti a dare una mano a migliorare la produttività e a far funzionare meglio l’economia.
Questo vecchio paradosso – e la necessaria ambivalenza che ne consegue – restano d’attualità. Anzi, sono per certi versi rafforzate nell’era dei mercati globali. Davanti a una logica di mercato invasiva e pervasiva i sindacati sono indotti a mobilitarsi per difendere, per “conservare” una parte significativa delle conquiste realizzate in passato: diritti, tutele, livelli occupazionali, protezioni sociali. Nello stesso tempo, se vogliono mantenere il grado significativo di cittadinanza del lavoro, raggiunto in tanti paesi avanzati, debbono essere anche audacemente riformatori: così debbono procedere in direzione di una maggiore inclusione sociale, tanto nella sfera contrattuale che in quella del welfare. Per usare una formula, debbono essere capaci di consolidare i diritti fondamentali, e nello stesso tempo di aggiornare le tutele quotidiane, dando vita – perché no – anche a nuovi pacchetti di diritti, a quel potenziamento della persona e delle sue dotazioni basiche, di cui parlano studiosi come Sen. Ma essi, nel districarsi di fronte a tale mestiere non semplice – cosa conservare e dove innovare – sono divenuti in corso d’opera miopi e conservatori?
La storia del nostro movimento sindacale parla in realtà un linguaggio diverso. E ci racconta la sua vocazione generale, che lo porta a mettere tra parentesi la difesa degli interessi particolari, in nome di esigenze di riforma e di visione di carattere sistemico. Questa proiezione verso l’interesse di tutti o l’interesse generale la si rintraccia in tante fasi della nostra storia recente che hanno visto non solo la Cgil, ma l’insieme delle confederazioni italiane, collocarsi sul versante dell’abbandono di posizioni conservatrici o corporative. Per ricordarne qualcuna. La “svolta dell’Eur” del 1978, mediante la quale Lama e i leader di Cisl e Uil misero al primo posto gli interessi di rilancio della nostra economia rispetto alle richieste di avanzamento salariale dei propri membri. Il progressivo superamento della scala mobile a favore di politiche dei redditi e per il controllo dell’inflazione, di cui beneficiavano tutti i cittadini (e non solamente i lavoratori dipendenti).
E sicuramente il momento alto del patto del 1993 con il governo Ciampi, che vide le tre confederazioni entrare nel cuore di un progetto di risanamento economico e della finanza pubblica, che non solo metteva tra parentesi l’interesse di parte, ma comportava anche evidenti sacrifici per il mondo del lavoro. Anche il recente accordo sulla produttività, non firmato dalla Cgil, al di là delle divisioni che hanno attraversato gli attori sociali, non legittima questa patente di “conservatorismo”. Chi ha mancato in audacia riformatrice è risultato essere proprio il soggetto pubblico. E non solo e non tanto per la mancanza degli stanziamenti delle risorse economiche necessarie, ma per la l’incapacità evidente di pensare in grande: e così, non mettendo al centro il nodo della propensione a innovare del nostro apparato produttivo, dell’insufficiente cambiamento tecnico e organizzativo, della crescita dimensionale delle nostre imprese e della riduzione di quelle diseconomie (dalle infrastrutture alla semplificazione) che rendono più lenta la nostra dinamica economica (e che più richiedono un governo coraggioso e innovatore).
In realtà, al di là dell’evidente strumentalità elettorale della polemica, essa costituisce lo specchio di un orientamento non dichiarato. Che si fonda sull’adesione al paradigma che vede il lavoro divenuto una variabile dipendente nelle nostre società e quindi condannato a essere oggetto acquiescente di decisioni prese altrove. Un paradigma sotterraneo, che è venuto in luce con chiarezza e per paradosso proprio negli anni della crisi: quando l’evidente fallimento delle politiche liberiste avrebbe richiesto un rovesciamento significativo d’impostazione, e non la richiesta ai lavoratori di un’ulteriore stretta e di un ridisciplinamento agli imperativi del mercato (Colin Crouch l’ha definita “la strana non morte del neo-liberismo”).
Quindi, proprio questa è la vera partita in corso. Se nel riassetto in corso degli equilibri europei, il lavoro e le sue rappresentanze debbono essere confinate a rotella dell’ingranaggio, o se invece – grazie anche al recupero di incisività della sinistra – possono occupare un posto di riguardo nella tessitura di un nuovo compromesso sociale, in grado di restituire al lavoro la centralità perduta ripensandone i contorni. È proprio in funzione di questa contesa che bisogna chiedere ai sindacati (non parliamo tanto e soltanto di quelli italiani) di mettersi anche in discussione e di essere portabandiera di un nuovo ciclo riformatore. D’altra parte, la consapevolezza che anche i sindacati debbono fare di più è diffusa a livello europeo e anche nel nostro paese: non è casuale che quasi tutti mettano al centro della loro iniziativa e delle loro agende obiettivi di autoriforma, a partire da quelle organizzative, e di cambiamento nelle politiche, a partire da quelle di inclusione sociale. Ovviamente, per i sindacati vale il discorso fatto a proposito degli altri attori: l’innovazione non può essere solo dichiarata.
Il presente testo è uscito anche su Rassegna.it (www.rassegna.it)