La riduzione dei parlamentari, nata da un afflato anti istituzionale, se affiancata da correttivi, non sarebbe lesiva della democrazia. Il referendum ha di buono il porre al centro la questione della rappresentanza, oggi inquinata soprattutto dal predominio delle lobby.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo qui di seguito l’opinione del professor Salvatore Biasco che ci ha inviato a proposito del referendum del 20 e 21 settembre.
Premetto che voterò No. Gioca a favore della decisione il fatto che il riordino istituzionale deve ancora venire e non può esaurirsi nel ridotto numero di parlamentari: manca una legge elettorale, la riforma dei regolamenti parlamentari, lo statuto delle minoranze, la necessità di affiancare al Parlamento istituzioni di rappresentanza. Il rischio di creare un Parlamento di notabili e di super professionisti è reale. Altrettanto lo è, il rischio di una perdita di rappresentanza sociale e territoriale.
Occorre, tuttavia, ammettere – dimenticando il piglio antipolitico con cui è nata e l’idea originaria – che non tutto è lineare e occorre cercare una ratio nel caso in cui dovesse vincere il Sì. Il merito della proposta è aver posto l’accento sul funzionamento del Parlamento. Mi riferisco al Parlamento reale, non quello ideale. Se giudico dalla mia esperienza parlamentare (XIII Legislatura) almeno metà dei deputati erano pesci fuor d’acqua. Si tratta di persone che nel loro ambito avevano certamente fatto bene ma lì giravano a vuoto: sindaci di centri popolosi, funzionari di partito, dirigenti di particolari associazioni di categoria o professionali, volti noti di spettacolo, sport e tv e, in più, persone scelte un po’ casualmente per via dell’equilibrio di genere non certo sulla base (in questa funzione) di criteri di qualità professionali e competenza. Questi deputati non sono portatori di un punto di osservazione della società (sociale o territoriale) che debba molto alla loro presenza, né sono portatori di alcuna effettiva e reclamata rappresentanza. Esserci o non esserci non avrebbe cambiato nulla perché facevano numero e nient’alto. Doveva essere così, penso, anche nella 1° Repubblica, quando il Pci portava in Parlamento anche molti quadri per far avere loro una pensione o la Dc molti titolari di clientele locali, persone scelte dalle parrocchie e sherpa di partito. Ma almeno nella parte apicale il parlamento era estensivamente di prima qualità. Poi, con il Parlamento dei nominati, è via via peggiorato. Invece di approfittare dell’occasione offerta per attrezzare una squadra di prim’ordine, i criteri che hanno imperversato sono stati la fedeltà, il clan, l’affetto familiare, la riconoscenza per qualcosa e il desiderio di costruirsi teste di ponte per acquistare forza politica. A sinistra, che ha nettamente seguito questa strada, il peggiore non è stato neppure Renzi, ma Fassino, che ha aperto la consuetudine a far prevalere questi criteri.
Se il Parlamento si priva di costoro (brave persone, s’intende, ma non idonee al ruolo) non perde nulla. Certo, nessuno può assicurare che, con la riduzione del numero, chi esca appartenga necessariamente a questo gruppo, ma forse una migliore selezione diventa indispensabile. Basti pensare al Senato dove un gruppo che voglia contare (poniamo di 40 senatori!) avrà si e no 3 persone in ciascuna Commissione. Se non cambia criterio si suicida
Ciò che dall’esterno non si percepisce del Parlamento – immaginato come luogo politico per eccellenza (la retorica della “centralità del Parlamento” è devastante) – è che in realtà, nel day by day, esso è un luogo di scrutinio tecnico, o che, almeno, tende a sollecitare in questa direzione la funzione parlamentare. La politica, quand’anche rimbalzi in qualche momento in Parlamento (come pure avviene), si svolge ed è determinata dall’esterno di esso, che ne è solo la cassa di risonanza. Il Parlamento è un attore subordinato rispetto all’esecutivo, alla dirigenza dei partiti politici, alle tecnostrutture, alle Autorità, che avocano a sé l’impostazione (e spesso il dettaglio) delle decisioni. Anche l’essere parlamentare è vissuto (non a torto) come condizione importante di legittimazione e prestigio da far valere essenzialmente fuori del Parlamento per aver voce nelle istanze di partito, nei media e nel territorio.
Il Parlamento che ho frequentato non era in grado di produrre leggi se non come mera ratifica dell’iniziativa governativa. Fosse stato lasciato a sé stesso, e non guidato dal governo, avrebbe prodotto disastri, non avrebbe saputo organizzare la benché minima politica organica. E, anche nella ratifica, il suo intervento è stato quasi sempre di distorsione (lobbistica) della ratio delle leggi. Nonostante la manifesta inadeguatezza dell’Istituzione ad essere il perno dell’elaborazione normativa, i parlamentari vivono l’iniziativa governativa e il loro ruolo subalterno all’esecutivo non come ovvia necessità, ma con frustrazione e come espropriazione, e si arrabattano a presentare leggi su tutte le minutaglie, come se queste avessero mai una probabilità di venire discusse, a meno che il governo non se ne impadronisca ricomprendendole in qualche provvedimento organico (ma anche questo è vissuto come frustrazione ed espropriazione, non come soddisfazione). Molto spesso essi sono, in questa funzione di proponenti, passacarte di qualche centro di interessi, locale o nazionale. Per i parlamentari della maggioranza il ruolo di spogliazione è vissuto ancora più drammaticamente, perché devono far quadrato.
Non sono neppure i singoli l’anello debole, ma le logiche in cui sono inseriti. Il Parlamento non è sollecitato, per sua prassi, a concentrarsi sulla definizione degli indirizzi su materie organiche e sulle linee fondamentali di intervento da proporre al governo di seguire, (lasciando a quest’ultimo la libertà di riempire le caselle in cui quelle linee si sostanziano), né si riserva poi il controllo di come l’esecutivo abbia tradotto le indicazioni parlamentari in atti definitivi. Un controllo non formale, ma diretto anche a un compito di segnalazione di come le leggi hanno funzionato o sono passibili di funzionare, alle correzioni che ciò comporta e alla verifica sul campo, dando luogo, in tal modo ad ulteriori atti di indirizzo, più che a effettive modifiche di legge. Se ne gioverebbe anche l’opposizione perché il confronto sarebbe sollecitato su visioni e assetti. Il Parlamento organizza e concentra oggi i suoi lavori a monte e a valle, vale a dire nell’esame minuzioso degli atti normativi ai fini di emendamento e ratifica. Se rimane così – col suo ritualismo nel processo di formazione della normativa, con la dispersione delle materie trattate, sempre con le stesse procedure, con la settorializzazione delle competenze – finisce per essere strumento di frammentazione dei principi ordinativi. Da un altro punto di vista, finisce per essere un Parlamento permeabile suo malgrado alle lobby piuttosto che predisposto funzionalmente e autorevolmente al rapporto strategico e sistematico con gli interessi organizzati.
Tutto ciò che c’entra con la riduzione dei parlamentari? Un po’ c’entra perché della farraginosità dei processi parlamentari e della loro qualità è anche responsabile l’elevato numero di persone che hanno potenzialmente voce in capitolo. In fin dei conti, il momento istituzionale più fecondo che ricordo della mia esperienza parlamentare è quello di una Commissione speciale bicamerale di 30 deputati e senatori (detta, appunto, dei Trenta, che, fra l’altro, presiedevo) creata come referente parlamentare appositamente dedicato ad una legge organica (la riforma del fisco); Commissione, che rappresentava l’intero Parlamento e aveva il compito e le prerogative speciali per portare la riforma a definizione finale, lavorando in partnership con il governo, ma anche verificarla congiuntamente al mondo degli interessi, istituzionalizzando il dialogo e l’inchiesta. Questo non solo durante il varo ma anche dopo il varo delle leggi per una migliore valutazione degli aspetti problematici o dell’impatto effettivamente avuto. Mai più ritentato un esperimento del genere.
Ecco perché non faccio un dramma della riduzione dei parlamentari, pur non piacendomi. Si potrebbe persino approfittare di questo se il denaro risparmiato fosse indirizzato a dotare ogni singolo parlamentare di staff di prim’ordine (di cui una commissione esterna ne vagli l’adeguatezza in entrata, non certo le inclinazione politiche) e di ogni strumento possibile (anche di raccolta testimoniale): tutto ciò che ne faccia comunque un miglior deputato. Si potrebbero potenziare l’ufficio studi delle due Camere o agenzie di valutazione dell’impatto delle leggi, come talvolta è stato l’Isae prima che venisse sciolto da Tremonti in una spending review dell’epoca. L’esercizio democratico costa e deve costare.
Non voglio esser frainteso. Pur non pensando che 630 e 315 siano numeri magici e che la qualità della democrazia si giudichi dal numero di parlamentari, ritengo che su tutte le questioni cruciali che qualificano il processo democratico (l’effettiva rappresentanza sociale, le istituzioni intermedie che convogliano le istanze della società, il modo come si organizza e sottopone a monitoraggio la funzione tecnica, la qualità e selezione della classe dirigente, l’effettiva partecipazione di tutte le istanze della società alla cosa pubblica e molto altro, non ultimo, il modo in cui si ridisegna l’intero tessuto istituzionale) – in sintesi: su tutto ciò che avrebbe dovuto essere il vero cuore di un progetto -, la possibilità di affrontare costruttivamente i termini delle questioni rischi di essere allontanata più che avvicinata dalla riforma costituzionale. E che di essa rimanga, nella percezione popolare, non l’apertura di un dibattito e di una pedagogia sui modi d’essere di una democrazia ma solo l’afflato anti istituzionale con cui è nata.