Serve un “nuovo internazionalismo del lavoro”, che aiuti a superare la banalizzante retorica europeista e globalista degli anni passati senza tuttavia concedere nulla alle mistificazioni del nazionalismo
In Italia i lavoratori non sono particolarmente tutelati rispetto al resto d’Europa, il mercato del lavoro italiano non è caratterizzato da un “apartheid” tra garantiti e precari, una maggiore facilità di licenziamento non agevola affatto la creazione di posti di lavoro e può persino pregiudicare l’innovazione tecnologica e la crescita della produttività. Con la redazione del rapporto intitolato “Workers Act”, il gruppo di Sbilanciamoci! contribuisce a sfatare molti degli infondati luoghi comuni intorno ai quali è ruotata la propaganda a sostegno del Jobs Act di Matteo Renzi.
Tra i vari slogan che hanno accompagnato l’approvazione del Jobs Act vi era l’esortazione a prendere esempio dalla Germania per superare le rigidità e i dualismi del mercato del lavoro italiano e rilanciare così l’occupazione. Dati ufficiali alla mano, gli autori del Workers Act evidenziano l’inconsistenza di questo genere di propaganda. Basti notare che tra il 1999 e il 2013 l’Italia ha segnato una delle più pesanti cadute degli indici di protezione dei lavoratori, addirittura tripla rispetto alla riduzione che si è registrata nello stesso periodo in Germania. Questo significa, per intenderci, che le riforme Biagi e Fornero hanno accresciuto la precarizzazione del lavoro molto più della famigerata riforma Hartz realizzata dai tedeschi. Inoltre, già nel 2013 l’Italia si caratterizzava per un livello generale di protezione dei lavoratori in linea con molti paesi europei, come Germania e Belgio, e inferiore a quello che vigeva in Francia e in Spagna. Ed oggi, dopo l’approvazione del Jobs Act, le tutele del lavoro in Italia sono scese ancor più in basso nella classifica europea. A ciò si può aggiungere che la protezione dei lavoratori a tempo indeterminato era già nel 2013 inferiore a quella che si registrava in Germania. E riguardo al becero slogan secondo cui esisterebbe un “apartheid” tra lavoratori stabili e lavoratori temporanei, in realtà i dati OCSE mostrano che nella celebrata Germania la differenza tra le protezioni delle due categorie è oltre tre volte maggiore che in Italia. Riguardo poi alla vulgata secondo cui la flessibilità crea posti di lavoro, essa non trova riscontri nei dati: per ammissione dello stesso capo economista del FMI, oltre vent’anni di ricerche empiriche hanno smentito l’esistenza di una relazione statistica tra maggiore precarietà del lavoro e minore disoccupazione. Il motivo in fondo è semplice: i contratti precari favoriscono tanto le assunzioni quanto le espulsioni dei lavoratori dal processo produttivo, con un risultato netto sulla disoccupazione media che risulta essere pressoché nullo. In realtà, l’unico effetto plausibile dei contratti precari è che essi riducono il potere rivendicativo dei lavoratori e quindi consentono di ridurre i salari. Ma l’idea che abbattendo le retribuzioni si esca dalla crisi è anch’essa smentita dai fatti: un esempio lampante è la Grecia, che nonostante un crollo salariale senza precedenti ha continuato a registrare crescita della disoccupazione e aumenti del debito. Nella prefazione al documento, Rossana Rossanda presenta il Workers Act come “il punto di vista dei lavoratori”, alternativo a quello del governo. Alla luce delle evidenze disponibili, potremmo aggiungere che quello dei lavoratori rappresenta oggi l’unico punto di vista che consente di osservare la realtà con una corretta messa a fuoco, protetti dall’accecante abbaglio dell’ideologia dominante.
Ma il Workers Act non si propone solo come antidoto alla falsa coscienza che pervade il dibattito politico. Il documento contiene anche utili proposte alternative di politica del lavoro. Tra di esse, occorre menzionare gli obiettivi di ripristinare – ed estendere alle piccole imprese – delle efficaci tutele contro i licenziamenti ingiustificati, di ridimensionare la selva di contratti atipici tuttora esistenti nell’ordinamento e di riunificare le varie tipologie di lavoratori sotto una comune legislazione, tra l’altro sostituendo alla ormai insufficiente nozione di lavoro subordinato eterodiretto la più ampia e moderna nozione di lavoratore per conto altrui. Tali indicazioni, assieme a quelle dedicate alla contrattazione e al welfare, si inscrivono in una visione complessiva della politica economica che ha il merito di approfondire la proposta di “piano per il lavoro”, di cui da un po’ tempo si comincia a discutere. Al riguardo il documento di Sbilanciamoci! suggerisce nuove assunzioni in alcuni settori dell’apparato pubblico, tra cui istruzione e salute, mobilità sostenibile, interventi contro il dissesto idro-geologico, manutenzione del patrimonio artistico e culturale, sostegno alla ricerca scientifica. Gli autori riprendono in tal senso un noto slogan, dello Stato come “occupatore di ultima istanza”. Ma a ben guardare, in un quadro progettuale così giustamente ambizioso, non vi è motivo logico per escludere che la creazione pubblica di occupazione avvenga anche a monte del sistema: vale a dire “in prima istanza”, negli snodi strategici del sistema finanziario e produttivo. Ad ogni modo, già solo con un investimento annuo di 5 miliardi nei settori elencati nel documento, gli autori sostengono che “si potrebbero creare circa 250mila posti lavoro aggiuntivi l’anno”. La previsione non è irrealistica, e mette in chiaro che un programma di intervento pubblico nell’economia offrirebbe una via credibile per uscire da una crisi ormai endemica, che le ricette liberiste hanno solo aggravato.
Il Workers Act risulta però interessante non solo per ciò che contiene, ma anche per ciò che tralascia. Scorrendo le sue pagine si nota la muta presenza di un convitato di pietra: è lo scenario dell’eurozona, e più in generale il quadro delle relazioni economiche globali. Tranne rare eccezioni, tra cui un riferimento alla proposta di “standard retributivo europeo”, il documento quasi non fa cenno ai vincoli di politica economica posti dall’appartenenza all’Unione monetaria europea e dall’apertura ai movimenti internazionali di capitale. Il sostanziale silenzio su questi argomenti cruciali potrà essere interpretato dai lettori in vari modi. Gli apologeti dell’uscita dall’euro la reputeranno una scandalosa censura, mentre gli europeisti più accaniti potrebbero intenderlo come un primo, sia pure implicito cedimento alle sirene del populismo sovranista. In realtà, al di là delle semplificazioni propagandistiche, quel “non detto” sull’Europa e sul mondo potrebbe essere interpretato come un onesto momento di riflessione degli autori, una sospensione del pensiero utile a sollevare una problematica generale ormai impellente, che potremmo sintetizzare in questi termini: nel mezzo di una oggettiva crisi del processo di unificazione europea e di ridefinizione profonda delle dinamiche della globalizzazione capitalistica, un “punto di vista dei lavoratori” che aiuti ad affrontare l’attuale, intricata fase dei rapporti internazionali sembra ancora non sussistere. Anche per questa lacuna, forse, lo spazio della lotta politica appare oggi sempre più occupato dalle milizie ideologiche del liberismo globalista da un lato e del nazionalismo xenofobo dall’altro. Per cercare di contrastare questa duplice onda funesta sarebbe allora auspicabile l’avvio di una ricerca collettiva che miri alla elaborazione di un “nuovo internazionalismo del lavoro”, una bussola per i lavoratori che aiuti a superare la banalizzante retorica europeista e globalista degli anni passati senza tuttavia concedere nulla alle mistificazioni del nazionalismo [1]. E’ questa, io credo, l’opera comune che oggi sarebbe utile affiancare al rilancio di una idea di “piano” e alla critica delle controriforme liberiste del lavoro, su cui gli autori del Workers Act si sono principalmente impegnati.
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[1] Tra i vari, possibili esempi in tal senso, cfr. D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, Laterza, Bari, nuova ed. 2015. Si veda anche la proposta di “currency social standard” ispirata all’articolo VII dello statuto del FMI e alle iniziative della ILO in tema di “standard internazionali del lavoro”: cfr. E. Brancaccio, Relazione ai GUE/NGL Study days (Firenze, 18 novembre 2014); cfr. anche L. Sappino, “I mercati scommettono su Grexit e la sinistra che fa? Insegue Salvini” (intervista a E. Brancaccio su l’Espresso online, 12 giugno 2015).