La vicenda Colosseo sembra la tempesta perfetta per far emergere in tutto il suo splendore il profilo decisionista di un governo capace di assicurare sull’onda dell’indignazione la giusta soluzione
Ci sono cose che non tornano, nella vicenda del Colosseo. Dalle tante indiscrezioni di queste ore non affiorano tentativi della Sovraintendenza di approdare a una qualche forma di conciliazione tra il diritto dei lavoratori all’assemblea e l’interesse pubblico a non lasciare per ore fuori dai cancelli migliaia di visitatori del sito archeologico forse più famoso del mondo. In gran parte “prenotati”, tantissimi pronti a postare – ancora una volta, dopo l’ultimo caso Pompei – le immagini dell’ennesima débacle italica. È vero che la negoziazione delle modalità delle assemblee non è prevista dalle norme, ma una lunga e sperimentata prassi, non solo nel campo dei beni culturali, dice che, ci si riesca o meno, è sempre meglio provarci. Dalle 8 alle 10, per esempio, poteva esser meglio che dalle 8,30 alle 11,30. L’articolazione per “siti” poteva non bloccare tutto insieme il grand tour (Colosseo, Foro romano, Caracalla, Ostia Antica) e consentire spostamenti utili a non chiudere completamente gli accessi. La scansione per turni poteva alleggerire l’impatto, e così via tentando. Il sindacato del lavoro pubblico, del resto, è più simile a un millefoglie che a un monolite, e dal 12 settembre giorno della “notifica”, c’è stato tutto il tempo per verificare se tra una foglia e l’altra ci fossero margini per una via d’uscita, magari parziale. O comunque per far sapere alla città cosa bolliva in pentola e chi fosse tra i tanti il miglior cuoco. Le assemblee sindacali, proprio perché retribuite, vengono spesso impropriamente utilizzate come forma di lotta, e tuttavia in molti casi capita di riuscire a contenerne l’impatto.
Ma non lo si è fatto, si direbbe. Per incapacità o perché questa volta il gioco doveva essere un altro? La domanda non è peregrina. Se l’amministrazione non è tenuta a tentare di concordare le modalità delle assemblee, ha invece responsabilità specifica nell’assicurare un’efficace e tempestiva informazione. E però dal 12 settembre, giorno della “notifica”, la Sovraintendenza ha fatto davvero poco per informare gli interessati, i tour operator, le guide, la città. E assolutamente – scandalosamente – niente, la mattina della serrata, per dare spiegazioni e per scusarsi con la folla in impaziente attesa. Eppure quando si è alla direzione di un oggetto di culto come il Colosseo, e nella chiacchieratissima città del Giubileo, non dev’essere poi così difficile bucare il video. E neppure mobilitare un certo numero di funzionari capaci di scendere “sul terreno”, e magari anche di correggere immediatamente i grotteschi cartelli in inglese in cui la fine delle assemblee era annunciata (per ignoranza o proditoriamente?) per le 11 e 30 di sera. La verità, probabilmente, è da un’altra parte. Nella meditata intenzione di far esplodere in tutta la sua portata la tempesta annunciata. Tempesta perfetta per far emergere in tutto il suo splendore il profilo decisionista di un governo – e di un leader – capace di assicurare sull’onda dell’indignazione per l’infelice serrata e in niente più che una manciata di ore, la giusta soluzione. Cioè un decreto legge che, in un solo articolo, definisce la fruizione dei beni culturali come un diritto essenziale, alla pari di quelli alla salute, alla mobilità, all’istruzione. Che cosa vuol dire ? Che le future assemblee dei lavoratori dovranno essere autorizzate dal Garante per gli scioperi e che, in caso di mancato accordo, il Sovraintendente potrà precedere alla precettazione. Un altro attentato ai diritti dei lavoratori, compreso quello di sciopero? Il ministro Franceschini si affretta a smentire, ma nei prontissimi annunci “la misura è colma”, “basta coi sindacalisti che tengono in ostaggio la cultura” – e poi nelle improvvide dichiarazioni di chi, nel PD, arriva a definire “reato” l’assemblea del 18 settembre – si legge qualcosa d’altro. Un mix di compiacimento e di livore del tutto inappropriato a una politica che i problemi li dovrebbe prima di tutto risolvere, invece che godere delle accuse ai responsabili veri o presunti di tutti i mali.
È comunque tutto da verificare se il decreto – evidentemente preparato per tempo e di cui era già stato acquisito l’ok del presidente della Repubblica – reggerà alla prova dei fatti. Non solo dal punto di vista formale perché, con tutto il rispetto per l’importanza anche economica della fruizione culturale, è francamente difficile da sostenere che i beni culturali siano un servizio essenziale proprio come una scuola materna, in cui c’è in ballo l’affidamento all’istituzione di utenti minori ; o come un pronto soccorso, in cui ne va della vita e della salute delle persone ; o come i servizi pubblici di trasporto, i cui ritardi e interruzioni sono in grado di devastare interessi individuali e collettivi di grande portata. Ma anche perché, come fin troppo noto, anche in questi servizi tradizionalmente definiti essenziali non sono affatto infrequenti comportamenti sindacali che mettono a rischio i sacrosanti diritti degli utenti. Che anzi, qualche volta, fanno degli utenti il vero bersaglio delle iniziative di lotta. Per cui non ha torto chi sostiene che a dover essere rivista è l’intera regolamentazione delle assemblee dei lavoratori, troppo esposta a interpretazioni controverse e sfuggenti, come dimostra l’enorme e minuziosa giurisprudenza degli ultimi decenni. Ma intanto gli obiettivi che contano sono stati ottenuti, e alla grande. Il trionfo del decisionismo governativo, l’ennesimo schiaffo a una sana ed efficace cultura e pratica delle relazioni tra le parti, la riduzione in un cono d’ombra delle ragioni dei lavoratori.
Che in questo caso ci sono, eccome. Il problema non è infatti solo l’obbligo, per lo Stato/datore di lavoro, di garantire il puntuale pagamento degli straordinari e delle indennità di turnazione che consentono di tenere sempre aperte le strutture (il Colosseo chiude due sole giornate l’anno ), ma anche di risolvere finalmente sia le carenze di organico sia la sua cattiva e inefficiente distribuzione. Sul primo punto, i fondi ora si sono improvvisamente materializzati (ma perché non lo si è detto prima dell’assemblea?), ma solo dopo un anno e mezzo di mancate erogazioni di somme che, pur modeste, valgono il 20% circa di stipendi mensili modestissimi. Sul secondo invece non ci siamo, e il fatto che al Colosseo lavorino solo 27 custodi, su tre turni, con una media di 6.000 ingressi al giorno, dà l’idea della vergognosa condizione della tutela dei beni culturali nel nostro paese. Anche in una struttura che introita biglietti per decine di milioni di euro l’anno. Che dire ? Siamo lontanissimi, al di là dei twitter e dei decreti, da beni culturali considerati e curati davvero come “servizio essenziale”, e come tali presentati al vasto mondo dei visitatori. O da una cultura ostaggio dei soli sindacalisti. Dei quali bisogna però ammettere la sconcertante incapacità , un po’ in tutto l’impiego pubblico, di essere prigionieri di cliché antichi, e anche di contribuire spesso fin troppo attivamente a mettersi dalla parte del torto, anche quando hanno ragione. Possibile, loro che frequentano ogni giorno i ministeri, che non intuissero cosa si stava preparando? Possibile che siano diventati così poco capaci di fare proprio, e di manifestarlo, l’interesse pubblico? Li avrei voluti lì, assieme ai centurioni, a spiegare ai visitatori in fila i motivi della protesta, segno e voce di un mondo che fa dei suoi diritti uno strumento dei diritti di tutti.