Il Documento di Economia e Finanza del 2015 è un documento senza qualità, senza prospettive, senza una strategia di politica economica capace di far uscire il paese dalla crisi.
È un documento ingiustificatamente ottimistico, a tratti trionfalistico, poco prudenziale, senza scelte di natura realmente espansiva, di sostegno alla domanda e ai redditi.
Da una parte è un documento che fotografa burocraticamente l’esistente: non ci sono grandi novità. Dall’altra il DEF dà l’impressione di una politica economica che fa galleggiare il paese sull’onda – non sappiamo quanto lunga – di alcuni fattori esogeni che giocano a nostro favore: il calo del prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro, la diminuzione dello spread, l’impatto del quantitative easing della BCE.
È un documento che va valutato per quello che c’è, ma anche – e forse soprattutto – per quello che non c’è: non c’è una politica della domanda e non c’è un impianto espansivo della politica economica; non c’è una politica attiva per il lavoro, ma solo della sua precarizzazione; non c’è una politica degli investimenti pubblici, tutta praticamente affidata ai supposti effetti benefici del piano Juncker.
È un documento che si affida anche per i prossimi anni agli effetti benefici delle cause esogene in modo irrealistico: come se il prezzo del petrolio e il rapporto euro/dollaro rimanessero a questo livello fino al 2019. È impensabile.
È un documento che sopravvaluta esageratamente l’impatto delle riforme strutturali: si pensi a quel 2,4% di PIL stimato dall’impatto dei nuovi provvedimenti sulla scuola, mentre lo stesso DEF ci dice che la spesa per l’istruzione calerà in 15 anni dal 3,7 al 3,3% del PIL. È un documento che invece tratta nel Programma Nazionale di Riforma come una sorta di “gadget” gli obiettivi di Europa 2020. L’Europa ci chiede di arrivare a stanziare nel 2020 il 3% del PIL in ricerca e innovazione e noi rispondiamo che arriveremo all’1,5%. L’Europa ci chiede di portare il numero di laureati nel 2020 al 40% e noi gli rispondiamo che arriveremo al 26%. L’Europa ci chiede di portare il tasso di abbandono scolastico al 10% e noi rispondiamo che arriveremo al massimo al 16%. L’Europa ci chiede di portare il tasso di occupazione nel 2020 al 75%. E noi gli rispondiamo che al massimo sarà il 66%.
Quando si tratta di scuola, di lavoro, di ricerca, di ambiente i vincoli europei – per l’Italia – non contano nulla. Possiamo non rispettarli ed eluderli: non c’è alcuna sanzione e possiamo dimenticarcene. Nessuno parla mai di questi obiettivi: ma anche queste sono delle “riforme strutturali” e il governo se ne dimentica. Soprattutto quando si tratta di orientare la spesa pubblica e gli investimenti in questa direzione.
È un documento che si intestardisce a rispettare i vincoli di politiche europee insostenibili. Le regole europee della riduzione del debito e del deficit sono irrealizzabili, impraticabili. Il governo non mostra il coraggio – anche con questo DEF – che bisognerebbe avere in questo momento così drammatico: quello di rimettere in discussione i parametri dei trattati europei. Non si fa. E il motivo è che Renzi – nonostante i molti proclami – è ancora subalterno alle politiche dell’austerità.
Il DEF è così in sostanziale continuità con le politiche neoliberiste e di austerità dei documenti degli anni precedenti. Non assicura una svolta espansiva alla politica economica del nostro paese e non prospetta i cambiamenti necessari per far uscire il paese dalla crisi. Stagnazione e depressione economica – una volta svaniti gli effetti della buona contingenza internazionale – sono assicurate.