For sale/L’ingresso dei cinesi e dei russi in Pirelli è solo l’ultimo capitolo di una svendita del patrimonio produttivo italiano, figlio della finanziarizzazione dell’economia e dell’assenza di politiche industriali. Perché non ripensare a un capitalismo di Stato?
La notizia economica e politica di queste settimane è che la Cina (quella una volta rossa di Mao Tse Tung) è diventata padrona della nostra storica e famosa Pirelli. La nostra stampa, dopo aver cercato di assicurarci che la Cina sarà rispettosa dei nostri interessi, conclude rassegnata: è la globalizzazione, come a dire: è il destino, la storia, guardandosi bene dal precisare che siamo al capitalismo globale. Anche la Cina “rossa” ha un suo capitalismo che dice di governare, ma chissà se è vero.
L’acquisto della Pirelli da parte della Cina oltre che un po’ di paura, ha suscitato anche l’invidia del capitalismo nostrano che si è subito affrettato a dire che anche noi capitalisti italiani facciamo acquisti all’estero. Così il Corriere della Sera di lunedì 30 marzo, nelle sue pagine economiche fa un titolo preoccupato nella prima riga (“Made in Italy in vendita?”) per poi rassicurarci nella seconda riga (“Ma c’è chi compra all’estero”). Ci dice che anche noi italiani facciamo acquisti all’estero e spiega: è vero che i cinesi si sono comprati la grande e storica Pirelli, ma imprese italiane come Campari, Recordati, Luxottica, Brembo, Ampliphon e Ima hanno a segno ben 85 operazioni di acquisto all’estero. Insomma leggere sulla nostra stampa che non siamo da meno della Cina mi pare piuttosto patetico e poi ci sono ancora due obiezioni: la prima è che i nostri investimenti non sempre ci fanno padroni delle imprese nelle quali sono stati messi i soldi; la seconda obiezione mi pare ancora più seria. Insomma nella situazione di crisi della nostra economia, la Campari invece di investire all’estero i soldi guadagnati in Italia, avrebbe dovuto investirli nel nostro paese per alleggerire la disoccupazione degli italiani, il cui lavoro ha fatto guadagnare alla Campari i soldi che poi è andata a spendere all’estero. In ogni modo complimenti per il Campari Soda.
Ma torniamo all’attuale grave crisi, che né il calo del prezzo del petrolio, né la svalutazione dell’euro hanno frenato. La globalizzazione è cosa troppo grande e complessa per le nostre imprese in difficoltà e che hanno bisogno di soldi, come afferma anche Matteo Renzi. E i soldi (nonostante le difficoltà di bilancio, può darli solo lo stato, anche attraverso la Banca Centrale Europea (il bravo Draghi un po’ di soldi li sta dando, ma non basta).
Ci vuole un serio e forte intervento pubblico, mandando al diavolo l’austerità della Troika e di quant’altri. Altrimenti – va detto ad alta voce – anche l’Italia seguirà la Grecia, il cui governo sta facendo una lotta disperata per salvare il paese. La questione di un serio e deciso intervento pubblico va messa all’ordine del giorno.
Quando si parla di serio intervento pubblico il pensiero va subito all’IRI, nato nel 1933 e morto nel 2002. L’IRI (Istituto Ricostruzione Industriale) salvò l’industria italiana dalla crisi del 1929 e produsse, nel secondo dopoguerra, il famoso “miracolo italiano”. Ripensiamo all’IRI vediamo se si può aprire una seria discussione sull’opportunità o meno di rimetterlo in campo e a tal fine sono di grande utilità i sei volumi sulla storia dell’IRI pubblicati da Laterza. Ultimamente sono arrivati in libreria il quinto, a cura di Franco Russolillo con interventi di numerosi autori e il sesto ‘L’IRI nell’economia italiana” di Pierluigi Ciocca, al quale soprattutto faccio riferimento. Perché’ il suo libro costituisce una conclusione di tutto il lavoro di ricerca sull’IRI e, ancora di più per la sua esperienza nel Direttorio della Banca d’Italia e la sua seria conoscenza dell’economia italiana.
Vengo al capitolo finale del suo libro che già nel titolo pone il problema che vorrei porre ai lettori: “Una nuova IRI?”. Riporto di seguito le prime parole, per me assai significative, di questo capitolo finale. “Avrebbe giovato conservare l’IRI? Ovvero, avrebbe giovato – potrebbe giovare una nuova IRI? La risposta è positiva, qualora si spinga l’immaginazione a un controfattuale che includa l’IRI nella sua migliore stagione: l’IRI meccanismo e non strumento, l’IRI dotato di capitale del suo principale azionista e ampiamente partecipato da privati in minoranza, l’IRI compreso dalla politica e accettato nella sua autonomia, l’IRI capace di contribuire allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, l’IRI impegnato nelle attività di R&S, fonte di innovazione e progresso tecnico diffusi nella filiera del sistema produttivo.”
Su queste parole di Pierluigi Ciocca vorrei concludere. La situazione è brutta. Si dovrebbe provare a mettere in campo l’IRI. Vorrei aggiungere che converrebbe anche a Matteo Renzi, ma sarebbe un progetto troppo complesso per le sue semplificazioni di breve periodo.
Vogliamo discuterne?