RenzItaly/Le parole chiave del renzismo sono innovazione e riforme. Ma con il riformismo storico non hanno nulla a che vedere, e spesso si risolvono nel suo contrario
Una delle parole più in uso per legittimare il renzismo è “riforma”. Tale termine è inquadrato nel discorso sul “nuovo”, da introdurre velocemente, e sulla corrispondente lotta contro il vecchio, che si esprime per gufi e depressi. Si tratta di un abuso piuttosto evidente, dato che il “nuovo” passa per controriforme, come nel caso emblematico dell’articolo 18, ma la disputa non è verbale, bensì sui contenuti. Riforme, nella tradizione della sinistra, ma direi anche in quella liberale, sono interventi che risolvono problemi, rimuovendo ostacoli che impediscono soluzioni più avanzate, o nel senso dell’equità o dell’efficacia o della maggiore razionalità sociale. La riforma implica un certo grado di “progresso” su un percorso che può essere lungo, ma che tra alti a bassi si muove seguendo il criterio indicato nell’art. 3 della Costituzione. Le riforme si ottengono con lotte e conflitti sociali su parità, equità, benessere, opportunità, e con programmi politici perseguiti con costanza e molta cura. Non si può dire “riformismo” per fattispecie che ne contraddicono la semantica storica. Si tratta di un abuso e di un inganno, anche di un autoinganno, necessariamente.
Il “nuovo” assume la forma prevalente della controriforma, nel campo del lavoro e dello stato sociale, ma anche dell’istruzione o del governo del territorio, perché esso non ha realmente più niente a che vedere con la tradizione storica del riformismo. Le controriforme servono a risolvere problemi, beninteso seri e anche drammatici. I problemi sono quelli derivanti dallo stare in una rete obbligante di regolazioni comunitarie e di imperativi globali, specie al livello finanziario, che hanno implicazioni di ogni genere, sociali ed economiche, e specificamente impattano sulle politiche del lavoro e su quelle sociali. Per rispondere a quelle esigenze – che ripeto non possono essere semplicemente negate, ma che vanno de-costruite a loro volta – si impongono controriforme, ovvero rinunce forzate ad acquisizioni di civiltà giuridica e sociale. Naturalmente anche le controriforme riformano, in quanto negli assetti ereditati specie del welfare si annidano effettivamente un sacco di problemi e di sprechi. Ma la loro correzione si potrebbe fare solo andando avanti e non indietro, con una spending review attenta, piuttosto che con tagli lineari che sono l’espressione più rustica delle controriforme.
Il “nuovo” si pone fuori dal quadro della cultura riformista ed evoca il vocabolario dell’innovazione. L’innovazione connette la componente post-ideologica con le competenze necessarie per una realizzazione razionale delle politiche. L’innovazione (sociale, istituzionale, di policy) si basa su saperi fondati, paradigmi, attenzione ai valori e agli impatti. L’innovazione è altamente cognitiva, diciamo weberiana e schumpeteriana insieme, e fa appello alla razionalità collettiva. Ma proprio l’innovazione dopo le riforme risulta in Italia particolarizzante difficile da perseguire. Per il progressivo scollamento della politica e amministrazione dalle competenze e dai saperi, per il carattere sempre più opportunistico e occasionale degli interventi, per il peso degli imperativi esterni cui si è incapaci di rispondere. Le controriforme non sono solo una forma di lotta di classe, come mostra Luciano Gallino, ma sono intrinsecamente povere cognitivamente.
E dunque ci troviamo con l’esaurimento del discorso riformista, l’egemonia di una rozza pratica di controriforme, e con l’incapacità di transitare a un nuovo paradigma di governance tramite innovazione. Al suo posto il “nuovo” a tutti i costi, che ha principalmente la decrepitezza ostinata del vecchio (nel partito come nella pubblica amministrazione). La sua vera legittimazione sta nella lotta contro il peso morto (la palude) e su questo Renzi è diventato sempre più esplicito. Nel merito è incerto sui mezzi, continuamente in bilico tra promessa esagerata e realizzazione procrastinata. Il “nuovo” vive essenzialmente di energia politica, proprio quella del leader, e di scarne argomentazioni, a volte ossessivamente ripetute. Si può dire che il “nuovo”, per il suo atteggiarsi a spallata politicista, non riesce a trasformarsi in innovazione, né il richiamo alla speranza collettiva può tradursi in progettualità, poiché tutto ciò che è civico è sabotato in quanto ingombrante e perditempo.
Un anno fa nello speciale “Sbilanciamo l’Europa” su “Renzismo in arrivo” avevo sottolineato l’occasionalismo renziano come un modo di operare in condizioni d’incertezza. L’occasionalismo schiaccia sulle novità del presente, e oscura l’orizzonte del futuro, così tanto retoricamente evocato. Ma appunto “il futuro è ora”. Mettendo insieme occasionalismo e nuovismo forse si può spiegare abbastanza ragionevolmente sia il primato della comunicazione, sia un certo bricolage arruffato nelle politiche, poco sensibile a contenuti e impatti. E cogliere ancora una volta la distanza che si va allargando tra tradizione riformista – anche quella cristiano-sociale – e l’iperbole del “nuovo”.