L’aggiornamento del Def dà un carattere meno restrittivo alla politica fiscale. Manca però una strategia per uscire dalla crisi. Il rischio è di sprecare risorse e l’ennesima occasione
Con l’approvazione dell’aggiornamento del DEF 2014 è partita la stagione autunnale di bilancio. Entro due settimane il governo invierà il disegno di legge di stabilità alla Commissione europea per l’esame preventivo, entro fine anno il Parlamento licenzierà legge di bilancio e legge di stabilità. Nel mentre, la Commissione valuterà le intenzioni italiane e come il paese ha risposto alle precedenti raccomandazioni, pubblicherà il proprio rapporto annuale sulla crescita, con le proposte di linee guida di politica economica per il 2015, e il rapporto sull’occupazione 2014. Sarà un periodo di grande impegno per le commissioni parlamentari di bilancio e anche per Sbilanciamoci!, che, come ogni anno ormai dal 1999, presenterà la propria controproposta, frutto dell’elaborazione di una rete di 50 associazioni della società civile.
La novità nell’aggiornamento del DEF è il congelamento, di fatto, del fiscal compact, con l’ulteriore rinvio del pareggio di bilancio al 2017 e l’indicazione di un obiettivo per il deficit attorno al 3% sia per il 2014 che per il 2015. Se la volontà di perseguire una politica di bilancio meno restrittiva sarebbe di per sé elemento positivo, tuttavia, a fare da contraltare, sta l’assoluta mancanza di idee e della definizione di una strategia organica e coerente di rilancio dell’economia italiana. In questo contesto il rischio è che, per l’ennesima volta, l’Italia bruci semplicemente risorse, per ritrovarsi, alla fine, con un debito ancora più alto e un pugno di mosche in mano.
Già nel DEF presentato lo scorso aprile il ministro Padoan aveva provato a sondare le acque, rinviando dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio e prevedendo per il 2015 un deficit strutturale di appena lo 0,1, come a dire “io ci provo e vedo come reagiscono”. Stavolta ci va più deciso, non solo posticipando il pareggio di bilancio di un altro anno, ma anche prevedendo un deficit al 3% nel 2014 e al 2,9% nel 2015, anno per il quale il DEF di aprile prevedeva un deficit dell’1,8%, dunque ben 1,1 punti di PIL più basso. Ora, al di là dell’artifizio retorico per cui le tabelle del DEF mostrano dal 2016 un calo a ritmi sempre più sostenuti di deficit e debito, la sostanza è che nel 2015 il rapporto fra debito e PIL continuerà ad aumentare e si arriverà al limite del 3% sul deficit concesso dal trattato di Maastricht. Con questi numeri risulta già impossibile rispettare la regola di riduzione del debito prevista dal fiscal compact, mentre nell’aggiornamento del DEF non sono probabilmente casuali alcune critiche esplicite alle modalità di calcolo dei saldi corretti per il ciclo, accusate di penalizzare i paesi, come l’Italia, in prolungata recessione. Di fatto, emerge una strategia che punta al rispetto del solo parametro del 3% sul deficit, ad un qualche congelamento della regola del debito inserita nel fiscal compact e alla rimessa in discussione delle modalità di calcolo della correzione ciclica dei saldi di bilancio.
L’allentamento della stretta fiscale mette a disposizione risorse importanti per la politica economica rispetto a quanto previsto nel DEF di aprile scorso. I nuovi obiettivi sul deficit liberano 6,4 miliardi nel 2014 e addirittura 18 miliardi nel 2015 (pari rispettivamente a 0,4 e 1,1 punti di PIL di minore riduzione del deficit). A questi si aggiungono importanti risparmi sugli interessi sul debito: 6,6 miliardi di minori spese rispetto a quanto preventivato lo scorso aprile nel 2014, addirittura 8,1 miliardi nel 2015; sono frutto per metà di un artifizio contabile (secondo le nuove regole, alcune poste finanziarie si scaricheranno sul debito senza passare per il deficit), per metà dell’effetto dei bassissimi tassi di interesse correnti. Si pensi che appena due anni fa, nell’aggiornamento del DEF 2012, si prevedeva che l’onere per interessi sul debito pubblico arrivasse nel 2015 a 102,5 miliardi, a fronte dei 74 previsti nel nuovo aggiornamento. Di fatto, rispetto a quanto previsto appena cinque mesi fa, godiamo di un bonus di 13 miliardi nel 2014 e di 26 miliardi nel 2015.
Si tratterebbe di risorse importanti, che già nel 2014 avrebbero potuto permettere una ben più incisiva azione di rilancio da parte del governo e ancor più permetterebbero di farlo nel 2015. Eppure, rischiano di essere solo indicatori dell’ennesimo fallimento della politica italiana. Perché le potenziali risorse 2014 sono state assorbite dalla recessione, dal mancato rispetto degli obiettivi inizialmente previsti di risparmio pubblico e da interventi mal progettati e peggio realizzati (ad esempio è notorio che un bonus fiscale qual è quello degli 80 euro, per avere un qualche effetto deve essere chiaramente percepito come permanente, non come una tantum). Se il buongiorno si vede dal mattino, anche per il 2015 c’è da preoccuparsi. Si parla di rendere definitivi gli 80 euro (7 miliardi di spesa), ma non di ampliarne la platea, neanche a pensionati e autonomi, neanche con una redistribuzione del carico fiscale. Si parla di 2 miliardi per la riduzione dell’Irap, 1,5 miliardi per gli ammortizzatori, 1 miliardo per la scuola, 1 per i comuni, mentre già si prevedono almeno 3 miliardi per evitare che scattino clausole di salvaguardia per risparmi mancati e si introduce una ulteriore clausola di salvaguardia, sull’IVA, per il futuro (ovvero automatico aumento dell’IVA se non si conseguono i risparmi preventivati). Si parla anche di pagare in busta paga il TFR di alcune categorie di lavoratori, il che si vorrebbe fare a costo zero per il bilancio pubblico.
Si tratta di interventi poco organici e che non appaiono in grado di delineare un qualche cambio di passo dell’economia italiana, così come non appaiono promettenti per i destini dell’economia italiana quelle, pur ventilate, riforme strutturali, che stanno sempre più riducendosi all’ennesima svalutazione del lavoro, pubblico e privato, e alla identificazione di un unico elemento, il costo del lavoro, come causa di tutti i mali. E’ fondata la paura che in questo contesto l’Italia non uscirà dalle secche e si ritroverà, se possibile, in condizioni ancora peggiori fra un paio d’anni.
Urge, una volta di più, una diversa e più promettente linea di indirizzo. Sbilanciamoci! ha già riunito la scorsa settimana a Roma un forum di economisti europei per discutere di un approccio alternativo alle politiche europee e svilupperà, come ogni anno, il proprio lavoro per proporre una legge di stabilità alternativa a quella di governo, frutto del lavoro e dell’impegno congiunto di tutte le associazione che da ormai un quindicennio partecipano alla campagna. Si tratta di redistribuire il carico fiscale dal lavoro alla rendita, dai poveri ai ricchi. Si tratta di investire sulle piccole opere ad alto impatto, piuttosto che sulle grandi. Si tratta di investire veramente sul capitale umano, la ricerca, l’innovazione, di tornare ad avere una politica industriale. Di sviluppare un welfare che protegga e favorisca al tempo stesso innovazione e flessibilità. Si tratta di rilanciare i redditi e la domanda in tutti i paesi europei. Si tratta di superare i vincoli fiscali sempre più stupidi di un’Europa che vogliamo ben altra.