Invertire la rotta verso un’altra Europa è ancora possibile. Un estratto dal libro “Un’altra Europa”, appena uscito per Edizioni Ambiente
Sulla scia del progetto “A Global Green New Deal”, una sorta di primo manifesto mondiale della green economy lanciato nell’ottobre 2008 dall’Unep, il Programma delle Nazione Unite per l’Ambiente, il Wuppertal Institut qualche mese dopo ha realizzato lo studio intitolato “A Green New Deal for Europe – Towards Green Modernisation in the Face of the Crisis” (2009) che sviluppava l’idea di un programma di modernizzazione dell’economia europea in chiave ecologica. Basandosi “sulla definizione Eurostat/Ocse delle eco-industrie” gli autori del rapporto scrivono che per green new deal si intendono “investimenti pubblici finalizzati in settori che producono beni e servizi per misurare, prevenire, limitare, ridurre al minimo o correggere danni ambientali ad acqua, aria e suoli come pure problemi legati ai rifiuti, al rumore e agli ecosistemi. Ciò include l’innovazione di tecnologie, prodotti e servizi più puliti che riducono i rischi ambientali e minimizzano l’inquinamento e l’uso delle risorse”. Una vision che, pur con l’avanzare della green economy in taluni settori (quello dell’energia in primo luogo), è ben lungi dall’essere punto di riferimento delle politiche industriali europee in senso lato, nonostante gli indubbi vantaggi che presenta come exit strategy dalla crisi ambientale, da quella energetica e da quella economica e occupazionale. Da cosa dipende questo ritardo?
Si presta ancora troppa attenzione alle politiche di austerity e troppo poca alla sostenibilità e alla crescita, dando prova di incapacità a trovare una strada europea verso la riduzione sostenibile del debito: è il rimprovero che l’attuale eurodeputato verde tedesco, co-presidente del partito dei Verdi europeo, Reinhard Bütikofer, rivolge all’Europa nel suo saggio “L’industria europea deve risollevarsi!” pubblicato in questo volume. Secondo Bütikofer, la conditio sine qua non perché l’Europa resti competitiva è la trasformazione in un’economia low carbon. “Non sarà l’opzione di basso profilo di una deregulation improntata al dumping sociale e ambientale che ci assicurerà la competitività a livello industriale. Né la competitività aumenterà sbarrando le nostre frontiere con nuove forme di protezionismo”, scrive Bütikofer. “Al contrario, l’Europa deve dimostrarsi all’altezza adottando una ambiziosa politica industriale che concentri gli investimenti in un processo spinto di modernizzazione low carbon esteso al settore energetico e a quello dell’uso efficiente delle risorse”.
Quattro “i pilastri” su sui si regge la sua proposta di rilancio dell’industria europea in chiave di sostenibilità (Renaissance of Industry for a Sustainable Europe – RISE), a ciascuno dei quali sono collegati specifici strumenti da adottare. Il primo pilastro è “un’offensiva tecnologica all’insegna dell’innovazione, dell’efficienza e della sostenibilità… bisogna investire nelle energie rinnovabili di pari passo con l’efficienza energetica e l’uso razionale delle risorse”, suggerisce. Il secondo è rappresentato dagli investimenti concreti nel settore innovazione e ricerca&tecnologie, che sono i più profittevoli per i fondi a essi destinati. Il terzo pilastro riguarda i mercati: quello interno che va completato e dotato “di una strategia RISE che finanzi il mercato domestico europeo per promuovere l’innovazione indotta dalla domanda e la penetrazione di nuove tecnologie… per esempio, abbassando l’Iva su merci particolarmente innovative, prevedendo per i prodotti efficienti un accesso privilegiato agli appalti pubblici, come pure attraverso le politiche di standardizzazione”. Quarto e ultimo pilastro: far diventare i lavoratori “parte del processo ampliando la democratizzazione e l’innovazione nei posti di lavoro” e garantendo “il diritto individuale alla formazione”.
Per la politica energetica dell’Europa segnali incoraggianti si mischiano ad altri più preoccupanti, come emerge dal contributo di Gianni Silvestrini “L’Europa alla guida della transizione energetica della decarbonizzazione”. Se, infatti, la transizione energetica verso un’economia decarbonizzata ha visto nell’Europa “una protagonista indiscutibile” – basti pensare che, con l’avvio del Proto- collo di Kyoto che ha imposto obiettivi vincolanti sulle emissioni climalteranti, “le rinnovabili, che al 2005 coprivano in Europa l’8,5% dei consumi finali, nel 2012 sono passate al 14,4%, con la previsione di superare agevolmente l’obiettivo dell’Unione europea del 20% al 2020” – intorno al nuovo obiettivo da fissare per il 2030 abbiamo assistito, nel primo trimestre 2014, al braccio di ferro tra la Commissione europea, che ha proposto per le rinnovabili il target più contenuto del 27% sui consumi finali, contro il Parlamento europeo che si è espresso invece a favore del 30%. Sul versante della produzione di elettricità, sottolinea Silvestrini, “i target in discussione implicano che metà della produzione sarà generata da fonti rinnovabili, segnando irreversibilmente la linea di direzione del processo di decarbonizzazione in atto”.
Gli ostacoli di cui è tuttora disseminato il percorso delle politiche europee di decarbonizzazione, e che vanno assolutamente rimossi dai prossimi organismi che usciranno dal dopo-voto per l’europarlamento, sono al centro anche della documentata analisi di Monica Frassoni, autrice dell’articolo in questo volume “Clima, rinnovabili, efficienza energetica: obiettivi strategici da non mancare”, in cui senza tanti giri di parole giudica “da dimenticare” l’ultimo quinquennio di legislatura Ue. E sul mancato avvio del green new deal europeo scrive che “… al momento di decidere su normative chiare e precise, vantaggi a operatori ‘virtuosi’, e dunque svantaggi a interessi più tradizionali, sanzioni o semplicemente disincentivi ad attività inquinanti, non si sono trovate le maggioranze adatte a proporli e adottarli, perché si è considerato che costassero troppo, che la crisi ne avrebbe impedito l’applicazione, che era preferibile non rischiare di perdere settori industriali anche obsoleti e costosi a vantaggio di nuovi ope- ratori economici”.
A conferma della battaglia in corso per rallentare le politiche energetiche anti-fossili, Frassoni riporta il sintomatico balletto di cifre – a cui si è assistito nelle comunicazioni della Commissione – relative agli incentivi distribuiti alle fonti rinnovabili pulite e alle fonti “sporche”, fino alla pubblicazione dei dati reali che indicano con evidenza che su 131 miliardi di euro distribuiti “le energie rinnovabili… nel 2011 hanno ricevuto una quota di sussidi del 23%, mentre le energie mature, fossili e insicure hanno avuto la fetta più grande della torta, pari al 77%”, smentendo così la vulgata che vuole le rinnovabili super incentivate a discapito di altre fonti.
L’Europa inoltre ha a portata di mano un’altra fonte energetica endogena, in grado di dare una nuova spinta alla sua economia e all’occupazione: l’efficienza energetica. “Con un target vincolante molto modesto (30% al 2030) capace di orientare politiche e investimenti nei settori dell’edilizia, dei trasporti, delle politiche urbane e dell’industria”, scrive Frassoni “si possono: a) risparmiare fino a 50 miliardi di euro all’anno, somma equivalente alla vendita di energia elettrica dell’intera Francia nel 2011; b) creare ogni anno 1.500.000 posti di lavoro e c) ridurre del 40% la spesa per le importazioni di risorse energetiche, che nel 2011 ammontavano a 573 miliardi di euro; d) si possono ridurre di circa un terzo le emissioni totali della Ue; e) circa 30 miliardi di euro all’anno possono essere risparmiati evitando di costruire nuove infrastrutture”.
Efficienza energetica per ridurre i consumi di energia da un lato, e incremento dell’impiego delle fonti rinnovabili dall’altro, devono dunque essere riconfermati come i due must della politica energetica europea, una scelta che anziché penalizzare l’industria sul vecchio continente ha fatto da volano all’innovazione. Anche in questo settore, infatti, siamo di fronte alla classica strategia win-win: gli obiettivi di sostenibilità ambientale e di tutela del clima vanno a braccetto con la sostenibilità economica, considerata la dipendenza dell’Europa dall’import di energia primaria, oltre tutto da regioni divenute politicamente instabili, come il nord-Africa e l’Ucraina, attraverso la quale passano i gasdotti russi che ci riforniscono.
Dipenderà quindi dal Parlamento e dalla Commissione che usciranno dalle prossime elezioni europee fissare traguardi ambiziosi al 2030, aprendo la strada a quelli ancora più stringenti per il 2050, se come Europa vogliamo contribuire a scongiurare il pericolo che l’aumento della temperatura terrestre dovuto all’effetto serra superi i fatidici 2 gradi che gli scienziati hanno posto ai governanti come ultima trincea per evitare conseguenze disastrose e fuori controllo dell’impatto dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi che rendono possibile la vita sul pianeta.
Ma anche la Presidenza italiana del Consiglio europeo, come già detto, è chiamata a fare la sua parte. Nei prossimi mesi il passaggio per fissare i nuovi target, infatti, non sarà indolore, e la lobby dei fossili si è già mossa nei mesi scorsi per influenzare la Commissione, attaccando violentemente la politica dell’Europa, e in particolare gli obiettivi sulle rinnovabili, sottolineano Silvestrini e Frassoni. Al governo italiano si chiede che “si ponga alla testa del gruppo di paesi che premono maggiormente a favore dell’accelerazione della transizione energetica, in funzione sia della competitività dell’industria del settore delle rinnovabili europea, sia della tutela del clima”. In ballo c’è non solo il processo di decarbonizzazione del sistema energetico europeo, ma anche i nuovi target post-Protocollo di Kyoto, che saranno al centro della prossima Conferenza mondiale sul clima in programma a Parigi nel 2015 che, dopo il fallimento dell’omologo summit a Varsavia del 2013, speriamo sappia fare tesoro degli ultimi campanelli d’allarme suonati dall’IPCC sulle conseguenze già in atto dei cambiamenti climatici con la presentazione, il 31 marzo 2014 in Giappone, del secondo volume del “Quinto Rapporto di Valutazione sui cambiamenti climatici”.
Inoltre, è importante che l’Europa non perda la leadership nel processo di decarbonizzazione anche in termini economici. “La situazione odierna è molto differente rispetto a qualche anno fa”, sottolinea Silvestrini “la Cina investe nelle rinnovabili più che Europa, Usa e Giappone messi insieme. E la sfida dei cambiamenti climatici rappresenta una delle priorità del secondo mandato di Obama”. Il rischio, dopo averla guidata, di restare indietro nella corsa, anche tecnologica, alla decarbonizzazione c’è, scrive. Ma ci sono anche le condizioni perché “l’Europa (e il nostro paese con essa) affronti con rinnovata convinzione la svolta energetica… anche, e non da ultimo, come contributo per evitare che i cambiamenti climatici già in atto evolvano verso un esito catastrofico”.
Infine, in questa prospettiva un ruolo trainante per le politiche ambientali ed energetiche e di riduzione delle emissioni climalteranti spetta alle città e ai comuni, sollecitati in tal senso dal programma europeo del Patto dei Sindaci nel cui ambito, per numero di adesioni (2.676), una volta tanto l’Italia guida la classifica anziché ricoprire il solito ruolo di fanalino di coda.
Città e comuni possono essere un driver, per di più capillarmente disseminato sul territorio, per rinnovare le politiche energetiche a favore dell’efficienza (si pensi solo alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente, un autentico colabrodo in termini di dispersione energetica), dell’uso delle rinnovabili e della mobilità sostenibile: nel Libro Verde della Commissione europea del 2007 “Verso una nuova cultura della mobilità urbana”, che sollecita a cam- biare abitudini nelle modalità di spostamento, il contributo del traffico urbano alle emissioni di anidride carbonica risulta pari al 40%, e si aggiunge al 70% delle altre emissioni inquinanti prodotte dagli autoveicoli.
Come ricorda Antonio Lumicisi nel contributo pubblicato in questo volume “I fondi europei a supporto della sostenibilità ambientale e energetica”, il potenziale di riduzione delle emissioni climalteranti delle città italiane aderenti al Patto dei Sindaci è tale che “l’Italia può ambire a un target a livello nazionale anche più elevato del 40%… È necessario, quindi, ascoltare di più i territori e inserirli formalmente all’interno della politica climatico-energetica nazionale”.
Nel quadro dei finanziamenti europei, la nota dolente è che il nostro paese fino a oggi non è stato in grado di cogliere appieno molte delle opportunità che hanno offerto i fondi della Ue. Fondi che, come risulta dalla programmazione comunitaria 2014-2020 analizzata da Lumicisi, sono piuttosto consistenti. Quelli assegnati alla crescita sostenibile e alla tutela delle risorse naturali ammontano infatti a circa 420 miliardi di euro, mentre circa 509 miliardi di euro sono stati allocati alla crescita intelligente e inclusiva.
Il testo pubblicato è un estratto dall’introduzione del libro “Un’altra Europa. Sostenibile, democratica, paritaria e inclusiva”, a cura di Silvia Zamboni, Edizioni Ambiente