Siamo tra i primi in Europa – sopra a Francia, Germania e Olanda – per liberalizzazione e flessibilità del mercato del lavoro ma per ridurre l’alto debito pubblico dovremo applicare la stessa medicina di riforme strutturali adottate in Grecia e Spagna. L’analisi approfondita (e le ricette sbagliate) della Commissione europea
È uscita lo scorso 5 marzo la “Analisi approfondita” (1) della Commissione europea sull’Italia, documento chiave della procedura per monitorare gli “squilibri macroeconomici” introdotta di recente assieme al fiscal compact. Quest’anno l’Italia è salita sul podio per “squilibri eccessivi” assieme a Slovenia e Croazia, rischiando dunque un’ammenda (che può arrivare fino allo 0.5% del Prodotto Interno Lordo) se non saranno adottate misure correttive sufficienti.
I principali giornali italiani hanno accolto con strisciante giubilo la notizia, riportando per lo più solo il riassuntino iniziale del documento e costernandosi per un “mercato del lavoro asfittico” e una tassazione insopportabile. Leggendo attentamente il rapporto in realtà si capisce come il nostro Paese si trovi di fronte ad un’impossibile trinità: ritornare a crescere, ridurre il debito pubblico e fare riforme.
I principali squilibri identificati per l’Italia sono due: l’alto rapporto debito /Pil e la perdita di competitività sui mercati esteri. Per ridurre leggermente il debito appena sotto il 115% del Pil entro il 2020, l’Italia dovrebbe mantenere a lungo un surplus primario, al netto cioè della spesa per interessi, pari a cinque punti Pil. Si noti che il surplus primario è stato nel 2012 del 2.5% e quello stimato per il 2013 è del 4.5%. A prescindere dalla fattibilità dell’impresa, tale richiesta limiterà ulteriormente lo spazio per qualsiasi tipo di politica fiscale espansiva per anni a venire.
Sulla competitività, invece, si nota finalmente che a livello aggregato i salari nominali italiani sono cresciuti in linea con l’area euro. Si smentisce addirittura che l’Italia non abbia fatto riforme strutturali. Il nostro Paese si piazza davanti a molti altri paesi Europei sia per liberalizzazioni del mercato sia per “flessibilità” del lavoro (dove fa “meglio” fra gli altri di Germania, Olanda, Francia). Si punta il dito sul cuneo fiscale ma si riconosce che, data la riforma delle pensioni in senso contributivo, non vi è molto spazio per ridurlo senza compromettere le pensioni future.
Il rapporto affronta poi problematiche forse meno ‘ortodosse’, ma non per questo meno note: la scarsa efficacia degli investimenti fatti e la conseguente bassa qualità dei prodotti del nostro export, la difficoltà di accesso al credito, i bassi investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo, il sottodimensionamento delle nostre imprese, etc… Non mancano i riferimenti alle inefficienze amministrative e alla corruzione. Infine, e soprattutto, nel rapporto vengono esplicitamente menzionati i limiti strutturali della zona euro: la mancanza di un aggiustamento simmetrico, la bassa inflazione e l’apprezzamento dell’euro.
La conclusione del rapporto è tuttavia sorprendente. Per far fronte ad una “allocazione delle risorse” considerata inefficiente e “in anticipazione dei benefici che le riforme porteranno” è necessario applicare la stessa medicina di riforme strutturali (tagli dei salari e riduzione ulteriore delle protezioni dei lavoratori) adottata negli ultimi anni da Grecia, Spagna e Portogallo. La strada maestra rimane l’eliminazione delle “rigidità” del mercato del lavoro e la deregolamentazione dei mercati di prodotti, capitali e servizi, confidando nell’efficienza dei mercati. Questi ultimi, una volta liberi dalle distorsioni dell’intervento pubblico, tenderanno verso la più efficiente allocazione delle risorse.
Se nella parte analitica si riconosce di fatto che per risolvere i problemi del Paese sarebbe necessaria una nuova politica industriale, un rilancio degli investimenti, l’apertura di nuove fonti di credito per le imprese ed un impegno consistente per migliorare le infrastrutture, la Commissione in qualche modo implicitamente conclude riconoscendo che l’Italia non ha i margini per poter attuare queste riforme. Non resta che tagliare i salari per diventare più competitivi.
È nella frattura tra analisi e conclusioni, dunque, che il rapporto rivela come la periferia europea e, ancora peggio, le istituzioni siano da tempo sotto scacco. La metamorfosi di un’analisi sugli squilibri macroeconomici nell’ennesimo strumento di vuota retorica sulla svalutazione interna rivela la grottesca svolta kafkiana del processo stesso di integrazione Europea.
Come forse meglio di tutti ha riassunto il grande economista americano Hyman Minsky, il capitale finanziario sempre più libero da vincoli regolamentari tende a muoversi accumulandosi laddove i ritorni sono (o sembrano) i più alti e i più facili. Da qui nascono le bolle, che dal 1700 in poi ricorrono nella storia del capitalismo con frequenza maggiore laddove è minore il controllo istituzionale. In secondo luogo, le bolle quasi sempre si originano in un settore dell’economia (borsa, edilizia, debito estero) ma poi lo shock travolge tutti gli agenti economici in misura diversa: i più esposti, i meno protetti, ne pagano le conseguenza maggiori, indipendentemente dal fatto di avere molta, poca o nessuna responsabilità.
La presenza delle cosiddette “rigidità” e un ruolo importante e proattivo del governo impediscono che un effetto domino simile a quello del 1929 prevalga a seguito di una crisi, ovvero che fallimenti in sequenza travolgano anche imprese e settori altrimenti del tutto sani, riducendo i costi non solo sociali ma anche economici di tali crisi. Le cosiddetta “svalutazione interna”, al contrario, amplifica – e non limita – gli effetti delle crisi, trasmettendo il contagio al resto dell’economia, provocando caduta d’occupazione ad aumento del peso reale del debito.
Ciò non significa che l’Italia non abbia bisogno di riforme. Ma per fare le riforme davvero necessarie servirebbero margini di manovra che non possono esistere nel contesto istituzionale che ci siamo dati, a causa della concomitante richiesta di ridurre a tappe forzate il debito pubblico e la mancanza di qualunque tipo di capacità fiscale a livello federale. Se si aggiunge l’ostinazione della Banca Centrale Europea nel perseguire politiche fortemente inadeguate, ecco riassunta l’impossibile trinità dell’Italia: ciò che dovremmo fare è impossibile e ciò che stiamo facendo non funzionerà.
(1) http://ec.europa.eu/economy_finance/economic_governance/macroeconomic_imbalance_procedure/index_en.htm