Il punto di mediazione per la riforma della legge elettorale indicato dai “saggi” nel loro documento potrebbe rivelarsi peggiore dell’attuale sistema
I politologi intendono per legge elettorale manipolatoria una legge che, attraverso vari vincoli, è in grado di orientare in misura significativa le scelte dell’elettorato indipendentemente dalle preferenze di quest’ultimo. Se poi gli esiti elettorali siano quelli che il legislatore si attendeva è un’altra questione. Il legislatore ignorante si trova spesso deluso. La legge elettorale della terza posizione tra semipresidenzialisti e parlamentaristi, quella che rappresenterebbe un punto di convergenza, ha eminentemente questo carattere. Poiché essa viene venduta sul mercato dell’informazione con un messaggio che è di pubblicità ingannevole, è necessario guardare accuratamente al processo che essa metterebbe in atto.
Trovare un punto di convergenza è sembrato necessario alla Commissione perché la partita politica più importante in un progetto di riforma ispirato a esigenze poco costituzionali si gioca proprio sulla legge elettorale, e su questa i dissensi sono più netti. Da un lato i sostenitori del semipresidenzialismo sarebbero favorevoli all’intero pacchetto gollista, quindi a un doppio turno di collegio, a cui ufficialmente è favorevole anche l’area del centrosinistra. Ma non sono disposti a concedere questo sistema elettorale senza tutto l’impianto gollista, perché esso non garantirebbe a sufficienza una maggioranza in un parlamento non necessariamente bipolare in assenza dell’unità politica garantita dal presidente eletto direttamente. Anche in questo caso i sostenitori di un sistema parlamentare, “razionalizzato” s’intende, non hanno proposto un sistema elettorale specifico, limitandosi a notare che diversi tipi di legge elettorale sarebbero compatibili con i tre obiettivi riconosciuti di ridurre la frammentazione partitica, consentire la formazione di una maggioranza di governo e ricostruire “una rapporto di fiducia e responsabilità tra elettori ed eletti”.
La via maestra sembra dunque la terza, la cui formulazione è attribuita a Luciano Violante. Questa proposta prevede un primo turno di votazione in cui liste di partito o di coalizioni di partiti concorrono collegio per collegio per una spartizione proporzionale dei seggi, con la possibilità di un voto di preferenza, o due se differenziati per genere, e con una soglia del 5%. Al partito o coalizione che raggiunga il 40 o 45% dei voti viene attribuito un premio di maggioranza che porta i suoi seggi al 55% dell’assemblea. Nel calcolo del raggiungimento della soglia necessaria non sono considerati i voti ottenuti da partiti che, anche se stanno dentro una coalizione, non hanno ottenuto almeno il 5% dei voti. Se nessun partito o coalizione raggiunge la soglia, si passa al secondo turno in cui i due soggetti che hanno raggiunto il miglior risultato, riuniti ciascuno “attorno a un’unica proposta politica e ad una sola candidatura”, si contendono, in quello che di fatto è un collegio unico nazionale, il premio di maggioranza. A questo punto sarà possibile distribuire i seggi con criterio proporzionale secondo i risultati del primo turno entro il vincolo che al vincitore va il 55% dei seggi, mentre tutti gli altri si spartiscono il 45%.
La proposta è stata propagandata come un’uscita dalla vergognosa legge elettorale vigente grazie al ripristino delle preferenze, che garantiscono qualche scelta all’elettore, e all’introduzione di una soglia che eviti maggioranze abnormi ottenute dal primo partito o coalizione purché abbia un voto più del secondo. Un piccolo esperimento mentale ci avverte subito che la seconda promessa è una poco pia illusione sventolata per confondere le idee ai cittadini. Pensiamo di applicare una simile legge nell’attuale quadro politico. Al primo turno il partito o coalizione più forte può sperare al massimo di arrivare più o meno al 35%: questo è il consenso che avrebbe come scelta libera dei cittadini (con lo sbarramento del 5% sarebbero fuori, secondo sondaggi piuttosto stabili, Scelta Civica, Sel, Lega, Udc, tutti i fuoriusciti, più o meno organici, del Pdl: tornerebbero alla disciplina del partito maggiore, auspica la proposta). Al secondo turno qualcuno raggiungerebbe per forza il 50% più uno dei voti, e quindi il premio di maggioranza del 55% con un consenso iniziale del 35%, o anche meno, se ci fosse un rovesciamento tra primo e secondo arrivato alla prima tornata: nessuna differenza rispetto alla legge attuale. Però, obietterebbe un sostenitore di questa proposta, l’elettore al secondo turno avrebbe un’altra opzione, sia pure costretta, e i voti del vincitore aumenterebbero, promuovendo quindi la sua legittimità.
Proviamo di nuovo a pensare alla proposta nella situazione attuale, che non è né bipolare né multipolare, ma tripolare. Ipotizziamo che dei tre poli attuali, centrosinistra, centrodestra e M5S, siano in testa al primo turno i primi due. Quanti elettori del terzo, che alle ultime elezioni era al 25% e ora sta sul 20%, pensiamo che andrebbero a votare per l’uno o l’altro (perché in ogni caso c’è una differenza tra di loro) e quanti non voterebbero affatto, perché tanto l’uno vale l’altro? Come è noto, al secondo turno, proprio perché l’indice di gradimento delle opzioni rimaste scende ancora (e già non è alto al primo turno, come si vede dal preoccupante tasso di astensionismo) i votanti normalmente calano di numero. Se una coalizione al primo turno ha ottenuto un 35% di voti su un tot di votanti, al secondo turno potrà prendere sì un 50%, ma su un numero minore: quanto minore? Se quella coalizione al primo turno ha avuto il 35% dei votanti e il 24.5 dell’elettorato nell’ipotesi di un tasso di votanti del 70%, qualora quel tasso scendesse anche solo al 60%, al secondo turno con il premio di maggioranza potrebbe ottenere il suo 55% dei seggi con il 30% dell’elettorato: una distorsione della rappresentatività dello stesso ordine di grandezza di quella attuale. Proviamo anche a immaginare che uno dei due soggetti in testa sia il M5S: situazione che in questo momento appare più improbabile che nei mesi scorsi, ma tuttora non impossibile, e proviamo a chiederci di fronte a quale scelta si troverebbero gli elettori di centrodestra o di centro sinistra, a seconda dei casi, e con quali conseguenze di esito caotico: uno dei due poli fisiologicamente avversari chiederebbe l’appoggio dell’altro, con ipoteca sul futuro del governo? O l’esito sarebbe affidato a movimenti imprevedibili e cumulativamente irrazionali dell’elettorato?
S’intende che la legge è fatta apposta per evitare che si formi un’alternativa di questo genere; ma quando i partiti maggiori si ostinano a considerare il M5S non come il sintomo di una grave malattia da loro stessi prodotta, ma come il male, per battere il quale tutti i mezzi sono buoni, le conseguenze impreviste di scelte sbagliate devono essere messe nel conto. La scelta in questo caso porta verso una soluzione che non risponde alle due obiezioni principali contro la legge Calderoli, non alla prima (il premio di maggioranza senza soglia), ma neanche alla seconda, che gli eletti al parlamento siano nominati dai partiti: dalle oligarchie che li controllano, in alcuni casi con qualche attenuazione, dai padroni che li possiedono. Sotto questo secondo problema si nascondono questioni diverse. C’è la bassa o infima qualità, morale, politica, culturale, di troppi parlamentari; c’è la loro disponibilità a votare qualsiasi vergogna venga loro richiesta o, alternativamente, a dissociarsi in segreto da ciò che hanno deciso in pubblico (distorsioni di solito diversamente distribuite tra destra e sinistra). Una legge elettorale i cui proponenti volessero affrontare questi problemi potrebbe prevedere vari dispositivi, che vanno dalla preferenza negativa, accanto a quella positiva, a quella di una ragionevole, non troppo rigida, regolamentazione dei processi di selezione delle candidature, fino a qualche requisito vincolante per poter essere riconosciuti come soggetti che corrono alle elezioni (già esistente nella Costituzione vigente, ma mai tradotto in legge applicativa).
Questa proposta invece mira solo a incanalare il riottoso elettorato verso l’ammasso, con il taglio radicale al primo turno di tutte le forze minori, e l’uniformità obbligata al secondo turno dentro il campo dei sopravvissuti. Si dirà che questi sono appunto gli obiettivi voluti se si vuole ottenere stabilità, rapidità ed efficienza dell’azione di governo. Esso sono perseguiti con implacabile determinazione in una modalità che non ha uguali in nessuna democrazia liberale: la scelta in un’unica elezione della maggioranza parlamentare e del capo del governo, il quale, nell’ipotesi di premierato forte che per i proponenti si sposa con questa legge elettorale, avrebbe anche un potere di scioglimento del parlamento e non potrebbe essere controbilanciato da un capo dello stato che avrebbe perso una parte importante delle sue prerogative attuali. Né il maggioritario secco né il doppio turno di collegio portano a questo disciplinamento di un parlamento consegnato all’esecutivo. In entrambi i casi infatti le elezioni di esecutivo e legislativo sono separate, anche quando sono simultanee; la partita si gioca collegio per collegio, anche all’eventuale secondo turno, e questo non garantisce né una così spropositata maggioranza né l’uniformità coatta del parlamento. Come ultimo esperimento mentale il lettore può provare a immaginare la legislatura 2008-2013 eletta con questa legge elettorale e accompagnata dal premierato forte.
In quanto questa micidiale proposta di legge elettorale assomiglia molto alla legge per le elezioni comunali, per essa è stato riesumato il demenziale slogan del sindaco d’Italia, come se il modello delle elezioni per gli amministratori locali potesse essere riproposto tal quale per le elezioni nazionali, anche ammesso che esso abbia funzionato bene per i sindaci: è tutto da vedere se oltre alla stabilità sia anche migliorata la qualità delle amministrazioni. I guai che può produrre un sindaco onnipotente sono visibili in molti casi, e ad ogni modo il consiglio comunale, a prezzo di sciogliere se stesso, può licenziarlo. Questa proposta ammonta all’elezione di un unico, e poi non più opponibile, leader di partito affinché disciplini i partiti, e governi senza dover rispondere a nessuna altra istituzione, mentre la dialettica politica è ridotta all’insignificanza nel Parlamento. Il solo fatto che una proposta di questo genere sia registrata non come la soluzione estrema, ma come un possibile punto di convergenza in una commissione costituita in buona parte da costituzionalisti, anche di diverso orientamento, dovrebbe essere causa di profonda preoccupazione circa ciò che si muove nell’ambito dei poteri che hanno voluto questa Commissione, e circa la destinazione a cui può portare questo percorso.