Nella nota di aggiornamento del Def, in discussione da mercoledì alla Camera, mancano politiche anti-coicliche, di sostegno ai redditi e alla domanda interna. Non c’è traccia di un fisco redistributivo. E per il lavoro ricorrono i soliti incentivi che non hanno mai funzionato
La nota di aggiornamento del Def che va in discussione questa settimana – a partire da mercoledì – alla Camera ci consegna i dati strutturali del peggioramento della crisi economica nel 2013 (rapporto deficit-pil al 3,1%; debito pubblico al 132,9% e calo di -1,7% del pil) e qualche speranza largamente sovrastimata per il 2014 (crescita del pil del 1,0%, diminuzione del debito di qualche decimale e rapporto deficit-pil sotto il 3%), che non induce certo a un robusto ottimismo. Si tratta di previsioni, in questi anni riviste poi sempre al ribasso. Gli altri dati economico-sociali del 2013 sono tutti negativi: aumenta la disoccupazione, cresce il numero di ore di cassa integrazione, continua a salire la percentuale di povertà assoluta e relativa. Il governo continua a consolarsi con queste previsioni per il 2014 assai “ballerine” e con quegli indicatori “umorali” dell’Istat sulla fiducia di imprese, famiglie e consumatori, che sembra volgere al meglio.
In realtà sicuramente non volgono al meglio i dati reali del lavoro, della produzione industriale, delle entrate (crollate di 3,7 miliardi quelle dell’Iva), dei consumi interni. Se siamo sopravvissuti in questi mesi è grazie all’export, mentre la domanda interna continua ad essere depressa e insufficiente a far ripartire la ripresa. L’aumento dell’Iva al 22% non farà che peggiorare la situazione. Nè la cancellazione della prima e della seconda rata dell’Imu servirà a questo scopo: in tempi di crisi si tende a tesaurizzare – in previsione del peggio che ancora potrebbe avvenire – quel poco che si può risparmiare. Di sicuro è successo che il governo non ha cancellato l’aumento di una imposta (Iva) che colpisce in modo regressivo e danneggia di più i ceti medio-bassi e ha invece cancellato una imposta (Imu) di cui si avvantaggiano anche le classi di reddito più alte.
La nota di aggiornamento del Def dà molte indicazioni aleatorie e riassume le principali iniziative “riformatrici” del governo, tutte di scarso e di discutibile impatto: dalla riforma costituzionale (che stravolgerà la nostra Carta) al decreto sul lavoro (che crea pochi e precari lavoretti per i giovani), dal pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione alle imprese (il cui impatto dello 0,5% sul pil è assolutamente spropositato) ad una legge delega sul fisco che evita sistematicamente i problemi più urgenti sul tappeto: la tassazione di rendite e patrimoni, la riduzione della pressione fiscale su lavoro ed imprese, la tassazione delle speculazioni finanziarie. E per ridurre il debito – non avendo il coraggio di tagliare le spese militari e quelle delle grandi opere, delle auto blu, delle consulenze – la ricetta è nota e pericolosa: dismissioni e privatizzazioni del patrimonio pubblico, tagli alla pubblica amministrazione, riduzione (nella forma della razionalizzazione delle spese) dello stato sociale.
È sintomatico che la nota di aggiornamento del Def non “aggiorni” in nulla gli obiettivi che il governo si è posto relativamente al programma Europa 2020 (lavoro, pari opportunità, lotta alla dispersione scolastica, investimenti nella ricerca, energie rinnovabili, ecc), contenuti nel Def di aprile: si tratta di obiettivi – quelli posti dal governo Monti e ora confermati dal governo Lettav- modesti e sensibilmente inferiori a quelli che ci chiede l’Europa. Gli effetti sulla coesione sociale e anche sulla competitività del nostro sistema economico sono evidenti e gravi.
Mancano infine nella nota di aggiornamento del Def politiche anti-cicliche: di sostegno ai redditi e alla domanda interna non c’è traccia; la politica industriale è inesistente; di un fisco re-distributivo nemmeno l’ombra; per il lavoro troviamo le solite misure (modestissime e parziali) di incentivi che non hanno mai funzionato. L’agenda generale continua ad essere sempre la stessa: ridurre indiscriminatamente la spesa, privatizzare e liberalizzare il più possibile tutto quello che è pubblico, rendere più precario il mercato del lavoro. È sostanzialmente l’agenda europea (ed italiana) dell’austerità che in questi anni non ha funzionato e che continua a non funzionare, oltre ad essere ingiusta e a produrre povertà e diseguaglianze. Manca l’idea di una politica economica espansiva e non restrittiva, capace di crescita e non di tagli, capace di pensare un ruolo positivo dell’intervento pubblico, senza affidarsi all’inesistente ruolo taumaturgico dei mercati, che negli ultimi anni ci hanno portato alla rovina. Servirebbe un cambio rotta, che in questa nota di aggiornamento del Def non c’è. Come non c’è in un governo che si limita a galleggiare sulla tempesta.