Le leggi che il governo delle larghe intese si appresta a varare non tengono conto dei giovani immigrati, delle persone disabili, del lavoro sommerso e di quello minorile
Nei prossimi giorni sono previsti – sui pesanti problemi del lavoro – iniziative del governo (il “Piano nazionale per il lavoro”) e un importante incontro a livello dell’Unione europea.
Ci si confronta con il futuro (meglio sarebbe che questa prospettiva venisse formulata facendo riferimento al “breve”, “medio”, e ”lungo termine”). Con proposte per politiche e interventi per creare occupazione. Con le diverse condizioni e categorie (i disoccupati; i giovani che non lavorano e non studiano; gli esodati; e altre ancora). Positivo dunque che la prospettiva sia articolata; e un passo avanti si è fatto anche nel dibattito su questi temi in Italia: si riconosce che si tratta di condizioni (e di possibili politiche) in parte diverse, per maschi e femmine, e per diverse fasce di età. E si porta l’attenzione sui – pesanti – meccanismi di differenze e disuguaglianze nei processi della formazione scolastica (e familiare).
Riuscire a guardare ad altri aspetti dei processi e dei “soggetti” coinvolti sarebbe un ulteriore elemento. Qui soltanto alcuni accenni.
Ci sono i “giovani immigrati”: le loro particolari condizioni e difficoltà non sono affrontate – se non in casi davvero molto rari – dai media, dai sindacati, dalla politica. Lo sappiamo, in maggioranza non sono “cittadini” (e non ci si può che augurare che vadano avanti le iniziative per il riconoscimento della cittadinanza). Ma non di questo soltanto si tratta. Guardando al futuro, portare lo sguardo sui moltissimi alunni stranieri nelle nostre scuole (il numero attuale, 755.000). Nei prossimi anni saranno nel mercato del lavoro. Soggetti (e numeri) alle cui implicazioni, ovvio, è importante portare attenzione.
E c’è il mondo del “lavoro sommerso”, che occupa numeri altissimi di persone – non solo giovani con condizioni e orari (e retribuzioni) fuori da ogni controllo. Una situazione che, con la “crisi”, non potrà che peggiorare. E non ci si può riferire a statistiche e dati a livello “nazionale”: nei diversi contesti territoriali del paese, fortissime differenze. Nel dibattito dei mesi passati in qualche occasione soltanto si è portata l’attenzione su questo aspetto.
Altrettanto ignorata la questione del lavoro minorile, un fenomeno davvero “lasciato da parte”. Nei giorni scorsi il tema è stato affrontato in sedi internazionali. I dati sono pesanti.
Un altro pezzo del quadro sociale al quale andrebbe rivolta attenzione: le persone con disabilità (tra i giovani ma non solo, ovvio). C’è una varietà di condizioni ed esperienze: il problema in alcuni casi riconosciuto alla nascita, o che si è verificato o reso visibile più avanti nel tempo; o si verificano malattie o incidenti nella fase adulta. Eventi che modificano o annullano aspettative e prospettive di lavoro (anche, del vivere). Coinvolti in incidenti nel traffico e nella mobilità urbana, e anche sul lavoro, sono numeri molto alti di giovani maschi. Se le cose vanno bene, lunghi periodi in istituzioni sanitarie e di recupero. Comunque, si è diventati persone con disabilità. Annullata di colpo ogni possibilità di lavoro (e di vita attiva, “normale”). I numeri sono in preoccupante crescita.
Mettendo in luce possibili pratiche di inserimento lavorativo in queste situazioni significa tener conto, e utilizzarle, le competenze, esperienze, capacità di queste persone.
Qui un richiamo all’intervista (Repubblica, 15 giugno) a Luigi Manconi: studioso, figura politica, oggi “senatore diventato cieco”. Non di numeri si tratta, ma di persone.
Passo ad un altro ordine di considerazioni (facendo riferimento anche a politiche sociali realizzate da anni ormai in diversi paesi europei).
La domanda da cui partire è questa. Ha davvero senso affrontare politiche avendo in mente il lavoro del passato – tempo indeterminato, orari uguali per tutti, la stessa durata nel percorso della vita – secondo un “modello” che si è dato per scontato, ma che per molti aspetti, ormai, è inadeguato?
Si riconosce la rilevanza di processi legati alle tecnologie in continuo progresso. Abbiamo consapevolezza della dimensione globale. Si dà dunque per scontato che molti aspetti della nostra organizzazione – economica, sociale, di vita – saranno modificati. In rapporto a questa chiave di lettura – ma non soltanto – si dovrebbe considerare la prospettiva di possibili diversificazioni dei “tempi di lavoro”: il part time; orari differenziati (anche concordati tra le parti in causa); percorsi lavorativi e professionali non a tempo indeterminato, ma come successione di passaggi diversi (si può cambiare la propria “scelta” di lavoro; decidere di riprendere esperienze di formazione; optare per un soggiorno di studio o di lavoro in un altro paese). Modalità che potrebbero essere utili a molti e a molte (che ne farebbero una scelta in fasi particolari della vita). Diversi, via via, priorità e modelli di organizzazione dei propri tempi.
Dunque una prospettiva che tenga conto di forme di inserimento e presenza, nel mercato del lavoro, non per tutti le stesse, e secondo lo stesso modello. Molteplici, diversificate. Anche discontinue. Modalità che vanno viste come parte dei cambiamenti – radicali, in parte non prevedibili e forse considerati come una minaccia – che, guardando agli anni che abbiamo davanti – certo segneranno il lavoro. Ma possono essere positive, sia per il rendimento lavorativo e professionale che per le condizioni delle persone nel loro vivere quotidiano.