Nonostante un discorso abile e pieno di promesse il governo Letta ha mostrato tutta la sua debolezza politica, soprattutto per la condizione di subalternità e di alleanza vincolante con Berlusconi
Il governo Letta prende il via pagando tre prezzi pesanti a Berlusconi: la probabile candidatura del leader del Pdl a presidente della convenzione delle riforme, la parziale cancellazione dell’Imu sulla prima casa (almeno nella forma della posticipazione della rata di giugno) e l’apertura ad un regime semi-presidenziale con “l’investitura popolare” dell’esecutivo. Letta – nel suo discorso alla Camera – afferma con una certa sicurezza che tra 18 mesi farà una prima verifica sulle riforme istituzionali. Segno che ha intenzione di governare a lungo, almeno fino a che Berlusconi – che ipoteca il suo governo – glielo permetterà.
Letta non fa mancare le promesse, che non si sa come manterrà. Togliere l’Imu, scongiurare l’aumento dell’Iva a partire da luglio, rifinanziare la cassa integrazione in deroga significa oltre 10 miliardi di risorse. Dove pensa di trovare i soldi, Letta non l’ha detto. Il timore (paventato anche da Fassina in un singolare intervento malpancista verso il governo) è quello di altri tagli: alla scuola, alla sanità, alle pensioni. Sicuramente – per recuperare le risorse – Letta non prefigura tagli alle grandi opere e agli F35, sui quali il premier non ha speso una parola. Che poi questi soldi – come dicono quelli del Pdl – si possano trovare da nuove tasse sulle sigarette e l’alcool significa solo colpire i poveri e far pagare le sigarette a 20 euro al pacchetto: pura propaganda.
È curioso come Letta “voli alto” sulla necessità di superare la precarietà e rimettere al centro il lavoro dopo avere appoggiato per 17 mesi un governo che con la riforma Fornero ha indebolito i diritti dei lavoratori e aumentato la precarietà dei giovani e delle donne. E mentre il governo nascente ha fornito una data certa per la posticipazione della prima rata dell’Imu, per gli esodati invece si vedrà: una data non c’è.
E poi abbiamo il governo. Accanto ad alcune presenze importanti e di spessore (come quelle di Cecile Kyenge all’integrazione o del presidente dell’Istat Enrico Giovannini al welfare) la compagine ministeriale segnala alcune presenze preoccupanti e da ricordare: quella di Alfano ad un ministero (quello dell’interno) che dovrà gestire situazioni di tensione per una conflittualità sociale crescente, poi Lupi (esponente di quel movimento come Comunione e Liberazione avvezzo ad appalti e ad affari discussi ed opachi) alle infrastrutture e ai trasporti ed infine Emma Bonino –interventista e filoisraeliana – agli Esteri. Con il ritorno della Bonino al governo e con l’incarico alla Farnesina, l’Italia accentuerà la sua propensione atlantica, l’uso mediatico degli interventi umanitari ed un certo protagonismo energico (cioè militare) nelle aree di conflitto.
Nonostante un discorso abile e pieno di promesse il governo Letta ha mostrato con la sua prima uscita tutta la sua debolezza politica, soprattutto per la condizione di subalternità e di alleanza vincolante con Berlusconi che – una volta passati i pericoli giudiziari e ringalluzzito dai sondaggi – lo lascerà al suo destino al momento più opportuno. Lavoro, crisi, precariato: per ora solo promesse e nessuna indicazione programmatica. Per questo la sinistra in parlamento ed i movimenti sociali nel paese devono chiedere conto delle promesse e degli impegni presi per incalzare un governo nato ambiguo, ricostruendo un terreno di mobilitazione per un’alternativa radicale alle politiche di austerity e del rigore finanziario.
La Gelmini ha ricordato nel suo intervento in aula che questo è un governo di “pacificazione nazionale”, quella di cui ha bisogno essenzialmente Berlusconi. Non si capisce come questa pacificazione possa invece beneficare i precari, i cassaintegrati, i poveri, i giovani. In realtà – come ha detto Rosy Bindi nel suo intervento alla Camera – questo rischia di essere un governo di «corresponsabilità per il passato» e questo sarebbe assai grave. Comunque del “governo del cambiamento” non c’è ovviamente traccia. La continuità con Monti e le politiche europee, invece, è garantita.