Referendum Bologna/2. Nella scuola dell’infanzia non esiste, in nessuna parte d’Italia, un’offerta statale e comunale in grado di accogliere tutti i bambini. Allora, meglio il sistema paritario, nel quale le regole sono uguali per tutti, che soluzioni privatistiche o i voucher
Secondo l’economista Stefano Zamagni, il referendum che si svolgerà il 26 maggio a Bologna contro il finanziamento comunale delle scuole materne paritarie è “un test di valore nazionale per Bersani e soci”. Parole grosse se commisurate ai problemi che il segretario del Pd deve affrontare in questa fase, ma è vero che una vittoria dei referendari sarebbe un’ulteriore smagliatura nella sua leadership. Se non altro perché era proprio Bersani il presidente dell’Emilia Romagna quando, nel 1995, una legge regionale sul diritto allo studio offrì un quadro di riferimento ai comuni che da tempo, in cambio dell’impegno a rispettare importanti standard della scuola pubblica, contribuivano alle spese di funzionamento delle materne private. Ma non è solo questo il punto. Le voci che si rincorrono in città, e ormai anche in ambiti più vasti, dicono che il ritardo davvero singolare con cui il Pd locale si è solo in zona Cesarini pronunciato contro il referendum, sarebbe dovuto a un orientamento nazionale maturato nella cerchia dei bersaniani di ferro favorevole, invece, a un’apertura di credito nei confronti dei suoi promotori. Che sono, è vero, solo uno dei tanti comitati di insegnanti e genitori appassionatamente statalisti e dunque fieramente avversi, in nome dell’articolo 33 della Costituzione, ad ogni elargizione pubblica a scuole non gestite dal pubblico, ma che questa volta hanno dalla loro parte sia Sel che i sempre più desiderati Grillini. Inquieta, inoltre, che il comitato sia riuscito in poco tempo a raccogliere 13.000 firme, che abbia ottenuto l’appoggio di un personaggio di alto profilo come Stefano Rodotà, e soprattutto che provi ad imporre un processo di decisione, sia pure con un referendum solo “consultivo”, che mette in discussione il collaudato metodo di costruzione di equilibri tra diverse culture ed interessi tipico del tradizionale riformismo emiliano.
Che strano quadro però quello dei bersaniani di oggi contro il Bersani di ieri, di un partito cittadino che stenta a sostenere le politiche del partito al governo, di una riapertura di contrasti e lacerazioni sul rapporto tra pubblico e privato nella scuola che, tredici anni più tardi, arriva per questa via anche a contestare la legge 62 del 2000 voluta dal ministro Berlinguer che, sulla stessa falsariga di quella emiliana, detta le condizioni per il riconoscimento della parità alle scuole private. Ce n’è abbastanza per mettere in subbuglio la sinistra della città, non nuova del resto a fare della scuola l’occasione o il pretesto per regolamenti di conto di carattere più generale. E per disseppellire, da parte di diversi settori cattolici anche interni al partito, l’ascia di guerra della “libertà di scelta educativa delle famiglie”. Che in verità, bisognerebbe saperlo, non ha molto senso nel caso della scuola per l’infanzia che, a differenza di tutti gli altri settori di scuola, non dispone in nessuna parte di Italia di un’offerta pubblica – tra scuole statali e comunali – in grado di assorbire tutta la domanda. E quindi impone, se non si vuole approdare a una diminuzione dei posti disponibili (o a un aumento delle tariffe di iscrizione alle private) di “fare sistema”, con lo scambio – appunto – tra contributi economici pubblici e rispetto di criteri, regole, standard di qualità della scuola pubblica. Non è un caso che, anche prima della legge 62 e anche fuori dai confini dell’Emilia Romagna, siano stati numerosi i grandi comuni, anche guidati dalla sinistra, che hanno proceduto a forme varie di “convenzionamento” con le materne gestite dal privato. Ben diverse dall’introduzione dei “voucher” preferita dalla destra, e proprio perché con lo strumento della convenzione le scuole che non sono gestite dal pubblico vengono sottoposte comunque ad una regia pubblica che esclude, per esempio, ogni forma di selezione degli accessi, che obbliga all’assunzione con contratti regolari di un personale dotato dei necessari requisiti professionali, che impedisce tariffe di iscrizione troppo alte (tant’è che non tutte le private, come noto, accettano il regime della “parità”). Ha invece finora ricevuto poca attenzione, nel dibattito locale, il fatto in verità piuttosto curioso di un “grillismo” che, in barba a ogni presa di distanza dal mondo dei vecchi partiti, è finito chissà come a svolgere una parte di rilievo nell’ennesima replica di una delle più antiche e consunte diatribe politiche della storia della Repubblica.
Una situazione complessa, dunque, che mostra tutta la fragilità, nel Pd dei nostri giorni, di un approccio pragmatico ai problemi. E il peso crescente di una sinistra conservativa sempre meno capace, sul terreno sia dell’educazione che della sussidiarietà, di orizzonti innovativi e sempre pronta, anche a costo di smentire se stessa, a ripercorrere vecchie e fallimentari ricette. La legge regionale dell’Emilia Romagna, per esempio, per ben tre volte è stata sottoposta, sempre in nome dell’articolo 33, al vaglio della Corte Costituzionale, e per altrettante volte ne è uscita indenne. Mentre neppure la Corte dei Conti ha avuto mai niente da eccepire. Perché i finanziamenti comunali non sono “oneri” per l’“istituzione” di scuole private, ma solo supporti alle spese di funzionamento di scuole “paritarie”. E perché sarebbe ben più oneroso, per i Comuni che oltre a finanziare per intero le loro scuole materne, devono sopportare anche i costi per l’edilizia, le mense, i trasporti e quant’altro delle materne statali, accollarsi per intero, in proprie scuole, quelli degli alunni che attualmente frequentano le paritarie. Bologna è un caso tipico di questa situazione, con la doppia aggravante, da un lato, del blocco di ogni eventuale sviluppo delle scuole materne statali dovuto alla riduzione della spesa pubblica per l’istruzione; dall’altro, di un bilancio comunale ridotto ormai allo stremo. Con problemi enormi, come si è visto di recente anche nel caso di Torino, proprio nelle realtà del Centro-Nord che da decenni hanno preso più sul serio il loro impegno educativo sul terreno dell’infanzia. Degli 8.368 bambini dai 3 ai 5 anni che a Bologna frequentano la scuola per l’infanzia, ben il 61% è iscritto alle scuole comunali (che invece latitano in gran parte del Sud). L’altro 39% si divide tra le paritarie (21%) e le statali (18%). Ma il piatto piange, con una lista di attesa che nel 2012 era di circa 150 bambini. Il finanziamento comunale alle paritarie è di 600 euro l’anno per bambino (1 milione di euro il totale), di 470 euro quello alle scuole materne statali dove il costo del personale è a carico dello Stato, mentre sono di 6.900 euro l’anno i costi per bambino accolto nelle scuole materne comunali. Una eliminazione del contributo comunale alle paritarie, come vogliono i referendari, si tradurrebbe o in un aumento insostenibile per molte famiglie delle tariffe delle paritarie o in una diminuzione dei posti disponibili, in entrambi i casi in uno spostamento di parti consistenti della domanda sulla scuola pubblica, sia comunale che statale. Con un rischio molto concreto di rigonfiamento delle liste di attesa in un’area territoriale in cui, grazie a un andamento demografico in controtendenza dovuto principalmente ai comportamenti riproduttivi delle famiglie di provenienza straniera, la domanda di scuola per l’infanzia è in evidente crescita. Tutto ciò in uno dei migliori “sistemi” di scuole per l’infanzia del paese, in cui proprio l’azione costante del Comune, il prestigio delle sue scuole, la formazione ricorrente degli insegnanti, la qualità delle strutture e della didattica è stimolo continuo al miglioramento anche degli altri due settori che ne fanno parte.
Di che “bene comune” si parla, dunque, quando si ricorre all’articolo 33 della Costituzione per liquidare quei 600 euro per bambino del finanziamento comunale? E qual è il “male” che si vuole estirpare? Bisognerebbe discutere di questo, magari anche di come sbloccare un’inerzia che non è solo di oggi della Pubblica Istruzione, invece che delle tattiche per inseguire i Grillini che inseguono il mito della democrazia di Atene.