La bolognese Hera cresce a ritmi record, concentrando i servizi locali di acqua, energia, gas e ambiente. Ma è un modello sbagliato, con troppa finanza, senza democrazia
Hera spa è un’azienda con sede sociale a Bologna, nata nel 2002 dalla fusione di 12 aziende municipalizzate operanti in Emilia Romagna; è attiva della distribuzione del gas, dell’acqua, dell’energia e nello smaltimento dei rifiuti in Emilia Romagna e nelle Marche, ma si sta espandendo anche al di fuori di queste regioni. Azionisti di riferimento sono un numero rilevante di comuni. Partecipano al capitale anche delle entità esterne, quali Lazard Asset Management, Carimonte Holding, Gsgr srl., ecc. Dovrebbe presto diventare socia la Cassa Depositi e Prestiti, che acquisirà il 6% del capitale complessivo.
I ricavi della società, che erano stati pari a circa 1,1 miliardi di euro nel 2002, sono saliti sino ai 4,1 miliardi del 2011. Il tasso di crescita medio annuo della cifra d’affari si colloca nel periodo intorno al 16,2%. I dati del 2012 vedono una ulteriore crescita sino a 4,5 miliardi, con un incremento del 9,4% sull’anno precedente.
Dal 1° gennaio 2013 la società AcegasAps, che concentra la sua attività sulle aree di Padova e di Trieste, è entrata a far parte del gruppo. La cifra d’affari di Hera per il 2012, se considerassimo nel conto anche tale nuova struttura, dovrebbe superare i 5 miliardi. In prospettiva, essa potrebbe diventare ancora più rilevante con la ventilata, ipotetica, fusione con Iren spa, un altro complesso di grandi proporzioni. Nel 2011 l’energia elettrica rappresentava il 35,1% del totale della cifra d’affari, il gas il 33,0%, l’acqua il 13,2%, l’ambiente il 16,4%; gli altri servizi raccoglievano il residuo 2,2%.
L’andamento nel tempo degli investimenti appare molto diverso da quello del fatturato. Essi crescono fortemente in una prima fase, passando dai 177,0 milioni del 2002 sino ai 504,8 del 2006; dal 2007 in poi si assiste invece a un fortissimo declino, che ha portato sino alla cifra di 289,3 milioni nel 2012. La riduzione apparirebbe ancora più marcata se si considerasse che nel frattempo il livello del fatturato è aumentato in maniera molto sensibile.
Una caduta così rilevante è probabilmente da attribuire al basso livello delle risorse finanziarie generate all’interno dell’azienda dalla gestione operativa, in presenza anche di una distribuzione pressoché integrale, ogni anno, degli utili di bilancio sotto forma di dividendi.
In effetti il gruppo dirigente, da una parte, sembra voler mantenere, per ragioni di consenso tra i soci, la distribuzione dei dividendi, mentre, dall’altra, in presenza di una generazione mediocre di flussi di cassa interni, non vuole che la situazione patrimoniale si deteriori facendo ricorso ad un aumento dell’indebitamento. Un bilanciamento davvero difficile e che porta l’azienda su di un percorso precario.
Una costruzione sbagliata
Indubbiamente la messa in piedi in pochi anni di un così importante complesso “imprenditoriale”, è stata un’impresa non da poco. Tale complesso appare relativamente fragile a livello finanziario (nel 2012 i debiti finanziari netti sono cresciuti sino alla somma di 2.216,6 milioni). Contemporaneamente, lo sviluppo di Hera ha rappresentato un esempio di rilevante regressione politica. Il controllo dei servizi pubblici è stato tolto alle amministrazioni pubbliche locali – sia pure con il loro consenso, più o meno volontario – e preso in mano dal management del gruppo e dal mercato finanziario privato.
E dire che, in generale, la gran parte delle municipalizzate coinvolte nel processo presentavano risultati tecnici ed economici per lo meno dignitosi; esse avevano, inoltre, un rilevante radicamento nel territorio e una stretta connessione con il sistema democratico delle autonomie locali.
Ora ci troviamo di fronte ad una “strategia rivolta al profitto più che allo sviluppo di politiche territoriali, alla messa in opera degli inceneritori piuttosto che della raccolta differenziata, allo sviluppo di nuove centrali a gas piuttosto che all’investimento nelle energie rinnovabili e nel risparmio energetico”, come ha scritto di recente un sindacalista, Andrea Caselli.
Si è messa in piedi una struttura fortemente dipendente per la sua sopravvivenza dall’aumento continuo, e ben al di là dei livelli di inflazione, delle tariffe regolamentate. Come documentato dalla Cgia di Mestre, negli ultimi dieci anni in Italia quelle per l’acqua sono aumentate del 71,8%, quelle per il gas del 59,2%, quelle dei rifiuti del 56,3%, contro un aumento del livello di inflazione del 24,5% nello stesso periodo.
Si sono così create delle strutture politico-burocratiche sostanzialmente poco efficienti, fonti di confusione nei rapporti tra pubblico e privato e che lavorano su obiettivi non condivisibili; inoltre, esse sono diventate un fattore che alimenta l’inflazione. Infine, la politica di sostanziale privatizzazione dell’azienda va contro i risultati del referendum del 2011 che ha deciso di mantenere in mani pubbliche il settore dell’acqua.
Il principale, o forse unico, obiettivo perseguito dal gruppo sembra quello di aumentare continuamente le sue dimensioni; questo tende ad accrescere anche il potere del management nel suo settore, nel paese e nei rapporti con la politica.
L’adesione più o meno convinta dei comuni ad Hera ha risposto a suo tempo alla ventata ideologica neoliberista che ha soffiato nel paese, anche a sinistra: il sistema ha, a tutt’oggi, il fondamentale sostegno del Pd, sostegno che serve a tenere vincolati alla società e alle sue decisioni, sia pure tra difficoltà crescenti, anche diversi sindaci piuttosto riottosi. Esso permette la distribuzione di dividendi ai comuni, presi in maniera sempre più impellente da forti necessità di cassa; gli stessi comuni, poi, possono, nella sostanza, istituire delle tasse mascherandosi dietro l’aumento delle tariffe Hera, soggetto apparentemente terzo.
I dati del settore
Può essere utile cercare di confrontare i risultati economici e la struttura finanziaria di Hera con i dati del settore, sia pure in maniera molto sintetica. Oltre a Hera, di solito si considerano sei imprese multiutility: A2A, la più grande di tutte come dimensioni e che nel 2011 aveva un fatturato di 6,2 miliardi di euro, Acea, con 3,5 miliardi, Iren, con 3,3, Ascopiave, con 1,1, Acegas, ora fusa con Hera, con 0,5, e infine Acsm-Agam, con 0,2.
Uno studio analitico svolto da Alessandro Iadecola e Roberto Mostacci per conto di IFEL-Anci – i cui risultati principali sono stati illustrati in due articoli su www.sbilanciamoci.info (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Se-la-finanza-entra-nei-servizi-pubblici-locali-16416 e www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Le-alternative-di-gestione-dei-servizi-pubblici-locali-16681) – mostra che in generale ci sono “segni di un avvitamento suicida del settore dei servizi pubblici locali”.
Sul fronte reddituale, per gli autori, l’effetto della crescita dei ricavi unito alla crescita degli investimenti e dell’indebitamento nel tempo (si esamina il periodo 2004-2011) hanno prodotto un cambiamento strutturale nel conto economico delle aziende analizzate che potrebbe essere così definito: minori costi operativi, minore occupazione diretta, maggiori servizi esterni, maggiori ammortamenti, maggiori oneri finanziari, minori margini da distribuire agli azionisti.
Appaiono in media risultati relativamente modesti in termini di redditività, quando non figura una perdita, nonostante i rilevanti aumenti delle tariffe registrati nel periodo. Resta ben poco, quindi, per assicurare una copertura finanziaria adeguata alle necessità dello sviluppo aziendale. È netta la crescita della dipendenza delle aziende dal settore finanziario, nonostante l’esponenziale incremento delle tariffe verificatosi nel tempo. Così il rapporto debiti netti/mezzi propri è fortemente cresciuto nel periodo, raggiungendo nel caso Acea il rapporto di 2, mentre altre imprese vi si sono avvicinate. Il rapporto che misura la capacità dell’azienda di restituire i debiti con le risorse generate all’interno dalla gestione operativa (debiti netti/ebitda) si è molto deteriorato. Ci troviamo di fronte a situazioni veramente delicate, in particolare per A2A e Iren.
Che cosa fare a questo punto? Il gruppo Hera andrebbe nella sostanza ripubblicizzato e le sue attività largamente ristrutturate, anche se forse in maniera differenziata da settore a settore, e riportate, almeno per la gran parte, a un livello territoriale dove sia possibile un controllo più democratico delle stesse.
Dovrebbero essere radicalmente ripensate le strategie di sviluppo dei vari settori. Non ci sono grandi ragioni che ostino a una riduzione delle dimensioni per quanto riguarda l’igiene ambientale; lo stesso per l’energia, attività nella quale l’evoluzione tecnologica in atto permette dimensioni anche ridotte – salvo pensare per il settore della geotermia, come suggerito da qualcuno, a un grande raggruppamento, magari con Enel ed altri. Lo stesso vale per il gas, settore per il quale, se fosse necessario, si potrebbe mantenere un consorzio per gli acquisti della materia prima; E, a maggior ragione, lo stesso ridimensionamento, riportando le attività a livello territoriale, vale ovviamente per l’acqua.